Nel corso di queste note mi limiterò a porre dei problemi e a elencare questioni. Non mi occuperò specificamente di definizioni, ma di fenomeni indotti da domande relative alla sfera della identità e a quella delle appartenenze, ambiti che è bene tenere distinti anche se indubbiamente tra loro interconnessi. In questo senso tratterò di "identità" e di "appartenenza" non come "concetti", bensì come "sentimenti".
I "sentimenti" del passato
La distinzione cui accennavo sopra è importante almeno per la sfera
delle competenze che essi chiedono di attivare. Trattare di "concetti"
afferisce a una dimensione di storia del pensiero, implica un'indagine per
la quale occorre essere attrezzati sul piano filosofico e politologico.
Affrontare la sfera dei "sentimenti" implica, invece, volgere
la propria attenzione a contesti, ad attori storicamente dati in ambienti
culturali definiti, fare attenzione a "chi sta scrivendo" (il
testo che noi leggiamo) e "a chi sta parlando" (l'attore che sta
comunicando con il lettore-auditore). La questione non è indifferente
quando si riflette in ambito di "storia orale", la scrittura storica
che in forma più immediata ha posto il problema della posizione della
voce emittente rispetto all'enunciato. Da ultimo, com'è stato opportunamente
richiamato, la sfera dei sentimenti concerne anche chi li organizza in forma
espositiva per noi lettori-auditori. Lo storico in un qualche modo si porrebbe
in quel complesso crocevia tra futuro e passato e tuttavia continuamente
attratto e problematicamente sospeso rispetto al passato. È stato
osservato che:
I sentimenti del passato costituiscono il retroterra esistenziale del lavoro storico: trapassano al di sotto delle sue metodologie permeandole di sé. Si formano prima e molto spesso fuori dei suoi ambiti, intrisi come sono della sensibilità policroma del tempo: fino a rappresentare l'intermediario tra lo storico e l'immaginario collettivo di quel presente che egli interpreta e a cui dà voce. Schegge impalpabili che si alimentano in forma onnivora - così da tradirsi in una pièce teatrale come in un progetto urbanistico - i sentimenti del passato maturano dentro le figurazioni volubili dello spazio e del tempo. Si intensificano - così da trapelare incautamente - lungo la parabola accidentata del "secolo breve", il Novecento, segnato dagli eventi incandescenti di due guerre mondiali, ma anche dal tempo messianico del comunismo e della decolonizzazione; straniato dai ritmi artificiali della società tecnologica e, tuttavia, raggelato, al suo scadere, dall'apparente non-storia dell'era della globalizzazione: resa inerte dal tempo virtuale e dal vuoto, uniforme, di uno spazio totale.1
Può essere che questa descrizione appaia ancora troppo poetica. E tuttavia è questa la partita sentimentale che si gioca intorno alla questione identità-appartenenza. Quello di cui dobbiamo essere accorti è che non si tratta di una partita neutra e noi stessi, che tentiamo di trattarne in forma "scientifica", ne siamo i giocatori. Come tenterò di mostrare più avanti, questo aspetto non costituisce una consapevolezza o un dato acquisito. E tuttavia, proprio una questione intorno ai sentimenti è in grado di fornirci in forma diretta il senso storiografico di questa riflessione.
Identità e differenza
A lungo nel secondo dopoguerra il lemma "identità" è
stato associato a quello di "differenza". Gran parte del lessico
politico su cui sono state scritte piattaforme programmatiche, simbologie
collettive, linguaggi, codici identitari si fonda e si sostiene intorno
alla questione della differenza. L'identità è stata costruita
sulla questione della differenza, sulla sua misurabilità, comunque
sulla distanza.
Peraltro, al di là di un fine gioco a specchio, è
incontrovertibile quanto sosteneva Aristotele a proposito del rapporto tra
identità e differenza. Ovvero il fatto che "ciò che è
differente da qualcosa è sempre differente per qualche cosa, tanto
che necessariamente ci deve essere qualcosa di identico, per cui sono differenti".2
Tuttavia non si deve sottacere il fatto che la questione dell'identità
ha assunto una fisionomia complessa che non è solo risolta dalla
diade con il suo opposto e omologo rappresentato dalla "differenza".
Infatti, se oggi la questione dell'identità non si associa più
automaticamente né richiama più immediatamente la "differenza",
ciò avviene non già perché questa coppia sia stata
risolta, ma perché la questione dell'identità pone in relazione
differenza e appartenenza.
In una sorta di triangolazione ideale, identità è quel corpo
di sentimenti e passioni che dobbiamo cercare di saper leggere attraverso
le grammatiche e le retoriche che afferiscono all'asse verso la differenza
e a quello volto in direzione della appartenenza. Si cercherà, ora,
di circoscrivere alcune domande che afferiscono alla struttura dell'identità.
Se posto in relazione alla differenza o, diversamente, in relazione all'appartenenza,
il sentimento di identità descrive lo stesso percorso? Penso di no,
e forse non è dello stesso processo di identità che si discute
lungo i due percorsi. Tuttavia non è possibile trattare dell'identità
in età moderna connettendola solo a uno di questi due possibili percorsi.
L'identità è un risultato e non un dato. Questo aspetto va
considerato attraverso due processi generativi che nel corso di queste pagine
non affronterò ma che colloco all'origine di queste note. L'identità,
risultato di un processo in cui vengono fatte scelte di esclusione e di
inclusione, si colloca lungo un asse che privilegia la storia di una vita,
ma più spesso si definisce in relazione a intere civiltà configurandone
le fisionomie, come ben aveva sottolineato Arnaldo Momigliano.3
Al tempo stesso, però, l'identità è anche il risultato
di una dimensione che parte dall'assenza o dalla mancanza, che si costruisce
in relazione a una nostalgia o un investimento redentivo-restaurativo, mentre
la propria storicità è costituita e fondata su un costante
processo di riscrittura, attraverso processi di inclusione e ibridazione.
In breve, in questo caso è lo stravolgimento di una presunta identità
originaria identica sempre a se stessa.
Come ci ha invitato a riflettere James Clifford4, la storia dell'esperienza
diasporica (condizione sempre maggiormente diffusa e non più ristretta
solo a esigue minoranze sopravvissute malgrado la storia) apre a nuove possibilità
interpretative e a dimensioni dinamiche tanto in relazione al concetto di
identità come a quello dell'appartenenza. A seconda del percorso
identitario che si privilegia, costruito sull'asse della differenza o su
quello dell'appartenenza, avremo anche configurazioni ed esiti diversi.
In uno dei suoi racconti autobiografici, Claude Lévi-Strauss racconta
cosa fu per lui, nel 1941, New York, la città in cui approdava in
fuga dalla Francia occupata e ormai quasi del tutto nazificata. Non lo colpirono
tanto i grattacieli, quanto invece il contatto continuo con tante differenze
e, spesso, senza che fosse chiara di quale identità quelle figure
in costante movimento fossero una testimonianza significativa. L'identità
era invece la somma contrastante di arcaico e ultramoderno, di fedeltà
a se stessi e di concessione di spazi a ciò che non apparteneva alla
propria vita precedente. Scrive Lévi-Strauss:
Avevo la sensazione di risalire nel tempo quando andavo ogni mattina a lavorare
nella sala "Americana" della New York Public Library: qui, sotto
le arcate neoclassiche e fra pareti rivestite di vecchio rovere, trovavo
al mio fianco un indiano con il capo coronato di penne e vestito di pelle
imperlata, che tuttavia prendeva appunti con una Parker.5
In queste righe, scritte tra lo sconcerto e il divertimento,
Lévi-Strauss consegna un'immagine poetica e leggera dell'idea di
identità. Un'idea con cui dobbiamo ancora fare i conti.
L'identità non era il problema dell'indiano che non trovava niente
di sorprendente o di lacerante tra il proprio vestito e la penna. Lo sconcerto
e la sorpresa erano dell'antropologo "guardone", e lo sono anche
di noi che guardiamo la scena con lui. Che cosa ci lascia sconcertati in
questa scena? Solo la Parker in mano all'indiano, o anche il fatto che egli
stia seduto, vestito com'è, in un luogo in cui la sua figura non
è prevista? Se non avesse quel vestito ci sorprenderemmo nello stesso
modo? Probabilmente no. E allora che cos'è l'identità? Qualcosa
"che si ha" o qualcosa "che si dà"? Serve per
stabilire delle distanze o per dichiarare chi si è?
Forse, con il tempo, l'identità una volta rivendicata come nostra
storia è un atto d'orgoglio. Ma questo è più il risultato
di un'abitudine che la conseguenza di un vero atto di libertà. L'identità,
soprattutto perché segnata da oggetti, segni esteriori, colori di
classificazione, non richiede di essere orgogliosi. È, invece, il
risultato di un sopruso: di un possesso del nostro corpo e della nostra
storia da parte di padroni assoluti della nostra persona. Di solito, quando
questa scena avviene tra individui, "chi decide" sta in alto e
"chi si trova caricato di identità" sta in basso. Una situazione
che ha stretta parentela con il razzismo.
Identità ed esteriorità
Si dirà che questo è un modello riflessivo azzardato. Può
essere. Scegliamo allora un versante apparentemente più liberale.
Poniamo che la partita dell'identità avvenga tra eguali e stabilisca
un rapporto tra enti omogenei tra loro.
Come avvengono la descrizione e la esternazione di una identità?
Di nuovo, la nostra identità non è ciò che noi siamo.
La nostra identità è rappresentata dalle cose di cui ci vestiamo,
dalle parole che usiamo, dalla gestualità che esprimiamo, ma è
soprattutto la possibilità che lo sguardo degli altri, di chi ci
circonda, sappia riconoscerli e perciò possa decidere di accettarci
per ciò che siamo o rifiutarci per ciò che essi non vogliono
per sé. È per questo che identità e differenza sono
due procedure che non hanno vita autonoma né statuti propri, ma si
spiegano solo in relazione alla possibilità di procedere alla identificazione.
Quando ciascuno di noi parla della propria identità, in realtà
si misura con la possibilità che chiunque possa collocarlo al posto
giusto. Ovvero possa identificarlo senza errore. Facciamo un esempio.
A lungo nella Francia dell'Ottocento ai servi liberati non fu concesso di
farsi crescere la barba o i baffi. La barba era considerata un segno dell'aristocrazia
o comunque degli uomini degni di avere una storia. Pare che questo divieto
sia stato mantenuto almeno fino al 1848, quando in tutta Europa, a Parigi
come a Berlino, a Vienna come a Milano, le barricate tornarono a popolare
le città e a dare il segno di una nuova età politica, quella
del liberalismo democratico. Da quel momento le barbe divennero un segno
di "altro", un segno che ha accompagnato tutti i momenti di rivolta
e di affermazione della personalità da parte di chi si candidava
a rappresentare un soggetto nuovo sul mercato della politica e della cultura.
Da segno della continuità della tradizione, la barba diveniva sinonimo
di innovazione, più generalmente di rovesciamento della tradizione.
Potremmo considerare questo episodio della barba una curiosità, comunque
un dato marginale. Tuttavia, nella metamorfosi di questo segno si cela la
trasformazione profonda tra società tradizionali e società
moderna. Portare la barba, avere il diritto di portarla, equivaleva nella
società tradizionale a dichiarare "chi si era". Non per
dichiararlo a se stessi, ma per mostrarsi "per ciò che si era".
Ovvero perché chi ci guardava fosse in grado di riconoscerci e quindi
sapesse comportarsi secondo un galateo. La barba era un segno per identificare
qualcuno (così come il suo opposto), per distinguerlo, ma anche per
riconoscerlo e dunque per adeguare il proprio comportamento.
Nella società moderna, una volta che sia stata rotta la proibizione,
il segno ha perso i suoi connotati forti sul piano dell'appartenenza sociale
per acquisire quelli riferiti alla propria personalità. Non più
"chi si è", ma "a quale campo ideale si appartiene".
La barba, da tessera sociale e da segno che certifica l'appartenenza per
nascita a un club di elezione, diviene segno di credo politico. L'uomo con
la barba, così, non indica la propria appartenenza a un albero genealogico,
ma permette la riconoscibilità di un'idea. Come tale la barba è
parte del bagaglio del cittadino sospetto, del suo possibile riconoscimento
e dell'iscrizione a un club in base a un progetto. E questo è tanto
più vero quanto più la barba, quale segno di identità
attribuita, indica anche il rapporto che un individuo mantiene con il proprio
corpo, o meglio, con la cura del proprio corpo. In ogni caso, tuttavia,
la barba come segno non comunica chi egli sia a chi la porta (ovvero a se
stesso), bensì a chi lo sta guardando. Sotto questo profilo il segno
dell'identità mantiene la sua funzione, perché risultato del
processo di identificazione che un occhio esterno rivolge alla persona che
ha di fronte.
Analogamente si potrebbe analizzare la funzione non estetica ma identificatoria
della barba in relazione ai movimenti radical-religiosi di tutte e tre "le
fedi del Libro" e in cui non solo la barba ma il taglio della stessa,
la foggia, la struttura estetica individuano un'appartenenza, una differenza
all'interno del medesimo sistema di fede, talora una conflittualità.
Identità e identificazione
Ma il gioco si complica ulteriormente quando il segno che identifica qualcuno
(ovvero permette di attribuirgli la sua giusta identità) diviene
opaco e ambiguo, comunque incerto. La possibilità che noi riconosciamo
qualcuno a partire dai segni che lo identificano, presume infatti non solo
che quei segni siano univoci (ovvero che abbiano un solo significato e rinviino
a un solo contenuto), ma che sia possibile classificare gli individui per
tipi fissi nel tempo. In altre parole, che non ci sia frattura fra segno
e personalità, e dunque che ciascun individuo esprima la propria
identità attraverso una personalità lineare, priva di contraddizioni.
Per riassumere, l'identità è un'operazione che nasce da un'identificazione
priva di incertezze, un'operazione mentale che in qualche modo presume società
chiuse, prive di mobilità interna, e soprattutto impermeabili all'afflusso
di soggetti e individui che hanno le loro identità altrove. Non avendo
strumenti concettuali per classificare tali soggetti e dunque non riconoscendo
la loro identità, procediamo invece a una identificazione, che spesso
non è che la spia del fatto che i segni del loro club sono per noi
muti o ostili. Nel dubbio scegliamo che siano ostili.
L'identità non è una dichiarazione di appartenenza, ma la
collocazione della nostra persona da parte di altri. Ovvero una procedura
che si sviluppa seguendo l'atlante del "cittadino sospetto", che
mentalmente tratteniamo per noi, e che attribuisce l'identità per
i segni di identificazione. Una procedura classificativa che non nasce per
sapere, ma per controllare. Un vero e proprio "atlante dei caratteri
mentali e comportamentali" (un'impresa che Cesare Lombroso aveva già
realizzato alla fine dell'Ottocento, attraverso la sua strutturazione dell'eziologia
del deviato sociale) in cui tutte le nostre ansie, le paura dell'incontro
con l'indesiderato, il diverso, il lontano, l'opposto, possano trovare una
qualche pace, perché i segni espressivi permettono di attivare difese
e costruire barriere, in breve di isolare il nemico. Anzi no: di identificarlo,
ovvero di fornirgli la vera identità attraverso una procedura di
differenza.
Ma dato questo percorso se ne dovrà individuare un secondo, in cui
l'identità rinvia alla dimensione dell'appartenenza e non più
a quella della differenza (pur richiamandola ancora come elemento di supporto
alla costruzione del processo di identità). Dobbiamo allora pensare
a un diverso percorso rispetto a quello che abbiamo fin qui delineato. Come
vedremo, questo percorso non sarà meno problematico del primo. Per
di più presume procedure di indagine e linee di ricerca anche molto
distanti tra loro. La connessione tra identità e appartenenza presume
infatti differenti procedure e forse anche opposte finalità. Qui
ne indicheremo solo alcune.
Nella storiografia recente, le ricerche proposte da Hobsbawm e Ranger (1987)
hanno dimostrato non solo che l'identità è un processo storico,
ma che l'appartenenza - soprattutto quella culturale e simbolica - ha una
sua mutevolezza nel tempo. In ogni caso che esse non stanno tra loro in
relazione biunivoca. Dietro ricerche radunate sotto il titolo L'invenzione
della tradizione, si trova non solo la dissoluzione dell'idea e dell'immagine
che l'identità sia data, ma che questa si esprima attraverso segni
intemporali.
Esiste una storicità tanto del sentimento di identità come
di quello dell'appartenenza. Così come esistono una storicità
e una sostanziale mutevolezza del legame e del costrutto di entrambe all'interno
di una collettività storica in un tempo dato.
Identità e appartenenza
Vorrei accennare qui solo ad alcune forme del nesso appartenenza-identità
e delle possibili derive e configurazioni che lo esprimono. Prima di affrontare
gli elementi afferenti di questa coppia occorre tuttavia sottolineare come
non sia indifferente al complesso di questa riflessione la questione della
identità e della personalità dello storico.
Hobsbawm, per esempio, l'ha precisato più volte:6 egli ritiene che
lo storico debba tenere lontane le sue passioni dal suo tavolo di lavoro.
Altri, per esempio De Luna,7 ritengono invece che lo storico debba dichiarare
la sua personalità, esplicitare la propria esperienza, in breve mettere
sul tavolo ed esporre non solo la sua bibliografia, ma i modi di leggerla
e soprattutto i percorsi emozionali e intellettuali che definiscono la sua
narrazione storiografica.
Dietro a questa opzione storiografica sta una precisa scelta: quella della
esplicitazione del nesso tra identità e appartenenza. Una storia
che ha prima di tutto il problema di confrontarsi - anche allorché
voglia sottrarsi - con l'uso pubblico della storia ha bisogno di dichiarare
come affronta la questione dell'appartenenza di chi narra e di che cosa
narra. Ovvero di dichiarare preliminarmente in che forma e sotto quali vesti
definisce se stessa. Non c'è lo storico da una parte e la sua narrazione
o la sua ricostruzione di ambiente dall'altra. C'è lo storico in
un tempo, che con le sue competenze specialistiche - disciplinari e tematiche
- scrive in un tempo e in un contesto, e il cui testo costituisce una narrazione
che è un insieme di fonti, testimonianze, prove, modo di leggerle
e sensibilità. Tutte queste componenti rinviano a un pubblico, alla
sua sensibilità in quel tempo - quello della scrittura del testo
- e al tempo del lettore (e dunque collocato anche in un tempo diverso da
quello della scrittura di quel testo).
La scrittura della scena storica, ma soprattutto la lettura del prodotto
testuale di storia, presumono che si consolidi una problematica del testo
e una ermeneutica della scrittura del prodotto storiografico in cui l'identità
e l'appartenenza non sono appunto dei dati, ma dei risultati. Proprio perché
risultati, essi discendono da una percezione della storia e della scrittura
storiografica in cui il testo è un prodotto procedurale e non solo
evenemenziale. Ovvero contiene allusioni, sentimenti, scene che mettono
in relazione lo storico e il suo pubblico e li coinvolgono entrambi in merito
a questioni che concernono identità, appartenenza o estraneità.
È su questo piano che si gioca la questione dell'uso pubblico della
storia, nella quale però identità e appartenenza riguardano
tanto il modo di scrivere storia, come il tema prescelto, quanto, infine,
la problematizzazione e l'esposizione critica di ciò che si indaga.
Questo aspetto non riguarda solo la scrittura della storia da parte dello
storico, e dunque non è solo un problema di storiografia. Esso, infatti,
riguarda tutte le discipline legate alle scienze sociali quando il problema
sia quello di dare un ordine ai documenti e selezionarli, con la conseguenza
- voluta o meno - di giungere alla definizione di "monumenti".
Un aspetto questo su cui, per esempio, ha opportunamente insistito Asor
Rosa allorché ha posto il problema del "canone delle opere letterarie".8
Vale la pena, allora, considerare due pagine di Geogers Lefebvre dedicate
alle giornate dell'ottobre 1789. Un occhio distratto le leggerà come
la descrizione di un evento, ma esse in realtà vanno interpretate
come un modello di uso pubblico della storia. Prima di considerare direttamente
questo testo, tuttavia, è opportuno precisarne la natura. Il libro
da cui sono tratte, L'ottantanove, esce nel 1939 in Francia, in occasione
del 150° anniversario della Rivoluzione francese. È un testo
che nasce con connotati precisi, pensato per il grande pubblico, e infatti
è senza note e con nessuna indicazione bibliografica. È un
testo concepito per "quadri", che procede come un'opera teatrale
dove ogni scena ha una sua compiutezza, attori propri, e dunque non solo
è parte di un complesso, ma contemporaneamente vive per la propria
specificità. È un testo che esce con il crisma del testo pubblico,
e infatti è il testo ufficiale sponsorizzato dal Governo francese
nell'ambito delle celebrazioni dell'anniversario, e che, proprio per le
caratteristiche operative che presenta, nasce come operazione politica e
di pedagogia pubblica da parte di un organismo pubblico, per esser più
precisi da parte dell'esecutivo centrale di un paese che è alla vigilia
di un conflitto da cui sarà scosso e travolto in dimensioni considerevoli,
per non dire totali.
Proprio per come si presenta a noi, il libro è la dimostrazione delle
grandi possibilità che la scrittura storiografica ha, da un lato,
di agire come macchina retorica e persuasiva - e dunque da ogni punto di
vista di rispondere ai criteri dell'uso pubblico della storia - e, dall'altro,
di sottrarsi alla dimensione propagandistica attraverso la quale sempre
più spesso pretende di servirsi strumentalmente della narrazione
storiografica come macchina persuasiva. Scrive Lefebvre:
L'Assemblea si sciolse verso le tre del mattino. Era stata
la sola a trarre un sostanziale vantaggio da questi avvenimenti: il re aveva
accettato i decreti costituzionali e riconosciuto implicitamente che la
sua sanzione non era loro necessaria; una volta di più, una rivoluzione
di massa aveva assicurato il successo della rivoluzione dei giuristi. Probabilmente
la maggioranza se ne sarebbe appagata. Ma i Parigini non si erano disturbati
per così poco: all'indomani, gli aristocratici potevano riprendere
il sopravvento sul re; la stessa Assemblea si era mostrata lenta e molle;
bisognava farla finita, e, portando il monarca e i deputati a Parigi, porli
sotto la sorveglianza del popolo.
Poiché molti dei dimostranti non avevano potuto trovare asilo, alcune
centinaia di loro, fin dalle sei, si radunarono alle cancellate del castello.
Poiché una di esse era rimasta aperta, la corte fu invasa e scoppiò
un tafferuglio: una guardia del corpo fu messa a morte, poi un giovane operaio
fu ucciso da un colpo di arma da fuoco; una seconda guardia fu massacrata.
La folla raggiunse la scalinata che conduceva all'appartamento della regina
e penetrò fino all'anticamera, respingendo le guardie del corpo,
e uccidendo o ferendo molte di loro. La regina dovette rifugiarsi dal re.
Le guardie nazionali nulla avevano fatto per fermare gli invasori. Quando
ormai era tardi, vennero a mettere fine al combattimento, e, impadronitesi
dei posti di guardia interni, fecero sgombrare il castello. La Fayette,
che aveva passato al notte al palazzo di Noailles, comparve a sua volta,
riconciliò le guardie nazionali con le guardie del corpo e si mostrò
al balcone con la famiglia reale. La folla, sulle prime indecisa, finì
per applaudirli, ma gridando: "A Parigi!", e senza muoversi d'un
pollice. Non c'era più da farsi nessuna illusione, e, dopo pochi
minuti, il re cedette. Tuttavia, volle chiedere il parere dell'Assemblea;
questa rispose soltanto che essa era inseparabile dalla persona del re,
il che equivaleva a votare il trasferimento a Parigi.
All'una, al rombo del cannone, le guardie nazionali, con un pane sulla punta
della baionetta, aprirono la marcia, seguite da carri di grano o di farina,
adorni di fronde, scortati dai facchini del mercato e dalle donne, che portavano
rami d'albero legati con nastri, alcune sedute o a cavallo dei cannoni.
"Si sarebbe creduto di vedere una foresta ambulante, attraverso cui
luccicavano i ferri delle picche e delle canne dei fucili", scrisse
un testimone. Venivano poi i granatieri, che proteggevano le guardie del
corpo disarmate; poi, il reggimento di Fiandra e gli Svizzeri; infine, la
carrozza del re e della sua famiglia, con a fianco La Fayette a cavallo,
e le carrozze dei cento deputati scelti a rappresentare l'Assemblea. Dietro
ancora guardie nazionali e la folla.
Si procedeva a stento nel fango; pioveva; e presto si fece buio. Insensibile
alla tristezza dell'ora, il popolo per un istante placato e fiducioso, non
pensava che alla sua vittoria, cantava e scherzava; riportava a casa "il
fornaio, la fornaia e il garzoncello".
Bailly accolse il re alla cinta daziaria, e lo condusse all'Hotel-de-Ville,
dove vennero pronunziati dei discorsi. Soltanto alle dieci la famiglia reale
rientrò alle Tuileries, abbandonate da più di un secolo.9
Uno storico dei nostri giorni ha opportunamente osservato
come "nessuno potrà mai ricostruire scientificamente quello
che passava per la testa di 20 milioni di francesi durante la rivoluzione
del 1789, né all'interpretazione di questo evento si potrà
arrivare per mera induzione".10 Lefebvre non ha mai avuto questa pretesa
nella sua lunga pratica storiografica. Eppure proprio la sensibilità
a indagare la morfogenesi delle folle e dei movimenti di folla urbani e
rurali, di cui resta uno dei più grandi storici, gli permette di
leggere in controluce, attraverso la storia degli eventi della Rivoluzione
francese, il proprio tempo.11
Questo aspetto è centrale nel passo che abbiamo riportato. Infatti
in questa scena non conta tanto ciò che accade, ma conta invece,
e moltissimo, come un lettore del 1939 avrebbe colto e rivissuto, attraverso
la propria esperienza o la propria competenza, quella scena. Più
precisamente attraverso quale altra scena vicina per processo di omologazione
o opposta per processo di opposizione, quella scena del ritorno a Parigi
del sovrano si sarebbe fissata nella mente del lettore contemporaneo a Lefebvre.
La comprensione della storia nel senso proprio degli eventi storici non
è mai un problema di documenti: è, invece, un problema di
sensazione, di spessore dei sentimenti, del rapporto tra uno storico che
scrive e un pubblico che legge. "Ogni epoca, ogni uomo", scrive
negli stessi mesi il grande storico francese Henri-Irénée
Marrou, "si scelgono un passato, attingendo nel tesoro della memoria
collettiva; ogni esistenza nuova trasfigura l'immagine che si fa di tale
passato attraverso il significato che vi scopre, scoprendosi essa medesima,
essa ed il proprio avvenire".12
Lefebvre nel corso degli anni trenta non si distingue da questo percorso.
Quello che egli aveva intuito nel saggio sulle folle, poi nello studio sulla
"paura", è che ciò che accadde nell'ottobre 1789
fu il passaggio da una condizione di somma di individui a folla, attraverso
una mutazione che fa cambiare di segno alle motivazioni che spingono gli
attori in un luogo, tanto da caratterizzarne una nuova azione, o una azione
non prevista.
Il tema delle folle, della mobilitazione che crea la storia, ritorna nelle
giornate convulse della storia di Francia tra il 1938 e il 1940. Non è
il tema della mobilitazione politica cosciente, ma è quella del "sentimento"
che diviene comunicazione politica. Sono le folle in festa di Parigi dopo
l'accordo di Monaco (dove ciò che si festeggia è la mancata
osservanza di un patto d'onore nei confronti della Cecoslovacchia), ma anche
le folle mute o perdute delle settimane del settembre 1938 come le descrive
Victor Serge nelle sue Memorie.13 Sono le folle che attraversano la Francia
nel giugno 1940 e che Marc Bloch descrive come masse in fuga senza una direzione
o una determinazione ma che legittimano Petain, affidandosi a una sorta
di "grande padre" della patria e, contemporaneamente, rinunciando
alla propria sovranità. Sono le stesse folle che ascoltano attonite
l'ultimatum tedesco in Casablanca e che oscillano tra vergogna e orgoglio
quando si riappropriano del proprio inno nazionale.
Sono le folle il tema di Lefebvre, quelle che si mobilitano nel corso del
1789 e che riempiono le sue pagine, quelle che rimangono attonite negli
anni che precipitano verso la guerra, e alle quali deve e vuole parlare
mentre scrive quelle pagine. Ma non è solo un problema di mobilitazione
o di violenza. È, anche, la sottolineatura della distanza tra una
Francia che si presentava come capace di grandi azioni nella storia e una
Francia attuale che si sottrae alla storia. È in questo continuo
passaggio tra il passato e le incertezze o la distanza del presente da quel
passato che si colloca l'uso pubblico della storia. Ovvero, nel considerare
i cittadini non individui da istruire, ma soggetti che devono misurare la
propria fisionomia politica, culturale e anche civica. È una dimensione
che Lucien Febvre aveva capito con immediatezza.
"Investiti del diritto di governare se stessi", osserva Febvre
commentando Lefebvre, "se essi [i cittadini, ndr] abusano del loro
potere gli uni verso gli altri, e soprattutto se essi si rifiutano per egoismo
personale di garantire la salvezza della comunità essa perirà
e con essa la loro libertà, perfino la loro stessa esistenza".14
In queste pagine c'è in gioco una riflessione sull'identità,
sull'appartenenza e sulla continuità, ma soprattutto una lettura
della propria tradizione come patto che va rinnovato per continuare a essere
se stessi. Un'eco lontana del "plebiscito quotidiano" che Renan
aveva riconosciuto essere il tratto essenziale di definirsi nazione.15
Consideriamo anche altri ipotesi di legame o di confronto tra identità
e appartenenza.
La questione dell'identità e il legame di appartenenza sembrano spesso
esprimersi in sé: in quanto appartengo a un gruppo umano io ho "naturalmente"
un'identità; in quanto ho un'identità io sono riconducibile
o includibile "naturalmente" all'interno di un gruppo umano. Questo
aspetto ritorna, per esempio, nella comunicazione operaia delle Trade Unions
inglesi, come sottolinea Hobsbawm.16
Se si considera la sociologia dei gruppi, questa doppia dinamica non deve
stupire. È stato Erving Goffman a teorizzare attraverso la metafora
della cornice (frame) il fatto che ogni contesto "incornicia"
gli scambi che avvengono al suo interno, offrendo un insieme di premesse
organizzative e cognitive in cui tutto può scorrere in modo naturale.17
Questa naturalità è percepita dalla voce emittente, o comunque
dall'Io che parla e che racconta apparentemente della propria identità,
attraverso la categoria dell'appartenenza. Come osserva Harold Garfinkel,
nella vita quotidiana vuole potere "fare riferimento a un mondo che
non è opera sua, ma che è per lui disponibile come una cosa
che egli ha potuto mettere insieme nel suo racconto".18 Questo aspetto
è essenziale per includere il problema del linguaggio come espressione
dell'appartenenza-identità. Un livello che non riguarda solo la questione
dei gerghi o dei kit di gesti di riconoscibilità e di comunicazione,
ma che include la creazione di un lessico che, nel momento in cui è
usato, funziona come gergo di riconoscimento e di intesa. È un tipo
di problema non eccentrico o discosto da quello proprio dell'etnografo,
come ci ricorda Clifford Geertz. Il problema della comunicazione del nodo
identità-appartenenza è prima di tutto la possibilità
di cogliere e poi di sciogliere comportamenti-gesti-linguaggi strutturati.
Ovvero segni che sono contemporaneamente la spia di un processo identitario
e la denuncia di un'appartenenza.19 Ma questo aspetto va preliminarmente
chiarito.
Nel processo riflessivo intorno alla categoria di appartenenza, nel corso
del Novecento si consuma per intero una parabola. All'inizio del secolo
l'identità si accredita come la possibilità di una molteplicità
di dati che definiscono i gruppi di riferimento e di appartenenza e le molte
coordinate di definizione dell'individuo ne accentuano la singolarità
e l'individualità.20 Viceversa, alla fine dello stesso secolo, la
questione dell'identità e dell'appartenenza diviene estremamente
problematica. Dalle osservazioni proposte da Michel Foucault a proposito
della questione del genere e della sessualità21 al tema della molteplicità
sovrapponibile dell'identità, delle dinamiche dell'ibridismo, della
sovrapposizione di codici, linguaggi, oggetti, stili,22 la questione dell'identità-appartenenza
cessa di essere un dato di fatto per divenire un processo acquisitivo, all'interno
di una procedura storicamente configurabile e descrivibile.
In breve l'appartenenza e l'identità, due percorsi spesso sovrapponibili,
assunti come elementi di stabilità, non solo hanno una loro storicità
ma vivono essenzialmente di soggettività. Se questo aspetto è
vero, si tratta allora di individuare alcuni snodi che lo connotano.
Si può osservare come, in prima istanza, quando affrontiamo il tema
dell'identità-appartenenza noi ci troviamo nel corso del XX secolo
- e ancor più oggi - all'interno di una retorica comunicativa e di
una autonarrazione che presumono un processo di ripiegamento di insularità
a fronte, invece, di un percorso storicamente dato di ibridismo, di sovrapposizione
di dati. Questo aspetto pone il problema non più solo del superamento
dei problemi inclusivi delle società in sviluppo a forte tasso immigrativo
- quali sono state le strutture sociali del cosmo americano nel corso del
XX secolo - ma quello della riscrittura di un nuovo universalismo politico
e culturale.
I fenomeni di radicamento di neonazionalismo etnico di riscoperta delle
tradizioni che accompagnano l'invenzione delle tradizioni, la riscoperta
esaltata del proprio "arcaico" o del "primigenio", costituiscono
i percorsi di un'ansia di identità che nasce come rifondazione dell'appartenenza.
Tutti i nazionalismi riscritti nel corso del XX secolo, ovvero i nazionalismi
a forte tasso prescrittivo, e contemporaneamente inclusivo-esclusivo, nascono
non solo come non contrattabili con la figura dell'"altro", ma
includono anche processi selettivi interni. Il primo fenomeno di scrittura
dell'appartenenza-identità opera come ridefinizione delle appartenenze
interne.
La prassi inclusiva dei processi emancipativi che accompagnano la costruzione
degli Stati nazionali si declina nel corso del XX secolo come processo selettivo,
come gerarchia. Alla categoria di cittadinanza tende a sostituirsi quella
di posizione societaria.
Se si considerano i radicalismi religiosi, si vedrà che essi sono
un elemento costituente e identificativo di questo tipo di processo. Infatti,
se si esclude la definizione di radicalismo religioso come storia di un'ermeneutica,
ovvero di una raffinatezza interpretativa, di obsolescenza della consapevolezza
religiosa finora vigente, allora il fenomeno religioso-radicale ci apparirà
come la dimensione di una riscrittura etnica dell'appartenenza dei gruppi
che lo praticano. Il radicalismo religioso non è connotato da un
modulo interpretativo, da una struttura ermeneutica e testuale, è
invece strutturato intorno a forme dell'identità culturale costruite
attraverso luoghi specifici della sociabilità che si sottraggono
al controllo pubblico. Ovvero l'idea e il principio rispondono a due grumi
concettuali: da una parte il radicalismo religioso si definisce attraverso
l'autosufficienza e l'autonomia delle norme e delle regole culturali che
lo connotano, dall'altra la sua fisionomia è connotata dall'organizzazione
di una propria struttura di formazione e di acculturazione.
Dentro i meccanismi identitari che si connettono con le dinamiche di iscrizione
e di partecipazione fondate su una volontà di adesione a un progetto,
a uno stile di vita, a un rito, si collocano due movimenti e due processi
di convinzione: da una parte un processo di liberazione, dall'altra un analogo
processo di costruzione della propria personalità autentica. In tutti
e due i casi l'appartenenza e l'identità si confondono dentro la
categoria di ricomposizone della propria personalità.
Si consuma allora nel corso del Novecento, attraverso i meccanismi di convinzione
e di ideologizzazione delle scelte, la parabola di un processo che sceglie
lentamente l'identità come percorso non solo autoriferito, ma anche
autoappagante. Jean-Marie Benoist ha osservato in modo chiaro:
Un'idea fissa attraversa il nostro tempo saturo di comunicazione: è l'idea del ripiegamento di ciascuno sul suo territorio, su quello che costituisce la sua differenza e, quindi, la sua propria identità separata. Ci si trova a sognare un nuovo radicamento nello spazio insulare di una separazione.23
Iniziato come secolo della dispiegazione universalistica, il Novecento si chiude con l'idea del conflitto di civiltà, ma soprattutto con l'immagine che il mescolamento, il "metissaggio", sia di per sé un male e che dunque occorra andare a ritrovare se stessi nelle cave profonde della propria identità esaltando la propria immutabilità storica e l'appartenenza mai abbandonata alla propria origine. Tutto questo, declinandolo di comune accordo con la dinamica differenzialista. Questo aspetto anziché essere indebolito dai processi di globalizzazione, è in realtà esaltato. Come ha osservato Michel Wieviorka:
Sul piano culturale, la globalizzazione delinea nel contempo due fenomeni paradossalmente complementari: una omogeneizzazione definita attraverso la generalizzazione del consumo e della comunicazione di massa sotto egemonia americana, e una frammentazione in cui tutti i tipi di particolarismi identitari si chiudono in difesa e si rafforzano.24
A dimostrazione che il processo identità-differenza
e identità-appartenenza non producono effetti e lacerazioni distoniche.
Sembrano infine individuare un identico esito: quello di una ricetta esclusivista,
anticomparativista, comunque eccezionalista. L'identità sembra presumere
la sottoscrizione di un patto di fedeltà: quello per cui non si possa
godere di appartenere a molteplici identità e allo stesso tempo il
fatto che queste identità abbiano una loro storicità. E al
tempo stesso tale patto per essere sottoscritto include che l'identità
sia vissuta come assenza di modifiche.
Sotto questa veste la storia è introiettata e si accredita come tentazione
di corruzione o, viceversa, come lungo martirio per non perdere mai le proprie
origini. Possiamo considerare, e voglio concludere, un testo e un serial
televisivo che sintetizza questo processo e che significativamente ha segnato
il modulo culturale con cui nell'ultimo quarto del Novecento si è
consolidato e costruito il paradigma continuità-identità e
dunque autoriconoscimento-appartenenza.
Quando negli anni settanta Alex Haley pubblica Radici e, ancor di più,
quando il testo si trasforma in prodotto visuale, il sentimento collettivo
è stato quello di una appropriazione di una storia. Dietro la saga
costruita intorno alla riscoperta orgogliosa delle proprie origini, stava
tuttavia anche una trappola: quella che cantava le lodi di un carattere,
di una disposizione che nel tempo non rinnegava le proprie origini ancestrali.
Essendo il ribellismo il tratto caratteristico e distintivo del fondatore
del ramo schiavizzato, questo tratto con costanza tornava a ripresentarsi
a ogni generazione. Ciò che era stato una volta non poteva perdersi
e la memoria di sé si trasformava nel principio di aderire alla propria
storia senza tradirla.
Tutta la metafisica dell'identità - ma anche quella speculare sulla
differenza, e non a caso, perché entrambe fondate sull'idea di appartenenza
- in cui siamo avvolti ha la propria origine nella sindrome del tradimento.
Non solo, talvolta modificando radicalmente i propri stili di vita e riversando
simbologie assunte come identitarie in scatole di valori che con quelle
non hanno relazione, ma che mantengono la stessa domanda di sentimenti e
di emozioni.
È questo, per esempio, il caso del linguaggio e delle pratiche religiosi
e dei riti di culto, sia che essi si trasferiscano in altri linguaggi e
universi simbolici, sia che essi rinviino a una rimozione simbolica E ancora,
è il caso del rapporto con la religione da parte delle classi subalterne
in Inghilterra nel corso dell'Ottocento.25
Ma si possono considerare anche un altro contesto e un altro problema. È
Maurice Agulhon a proporlo. Considerando il valore politico accreditato
alle cerimonie religiose e alle pratiche cimiteriali e funerarie della Francia
meridionale alla vigilia del 1848, in crescita nelle correnti democratiche
da cui, invece, dovremmo aspettarci un abbandono, lo storico francese sottolinea
la ricerca anche di una "diversa forma di religiosità, più
che di un razionalismo allo stato puro".26
In verità si è se stessi nella storia solo metabolizzando
continuamente esperienze, sensibilità, passioni che originariamente
non sono proprie. Si è se stessi solo tradendo di continuo la propria
storia precedente in una dimensione in cui l'istanza di confine e di sconfinamento
prevale su quella del limite invalicabile. È il tratto su cui George
Simmel insiste quando affronta la dimensione dello straniero e della sua
importanza per ciascuno di noi e per la qualità della nostra vita.27
Ma si è se stessi, anche e allo stesso tempo, ridisegnando costantemente
le carte della propria identità attraverso quella fenomenologia del
"metissaggio" culturale su cui opportunamente qualcuno ha voluto
richiamare l'attenzione.28 Su questo terreno, forse, l'indagine intorno
all'intreccio tra appartenenza e identità cessa di essere metafisica,
per assumere le vesti e il volto di un'inchiesta sulla complessa morfogenesi
della personalità storica degli attori sociali e culturali. Qualcosa
che assomiglia ai ritratti di Arcimboldo, più che alla tassonomia
e alla fisiognomica.
NOTE
1. A. Tarpino 1997, Sentimenti del passato. La dimensione
esistenziale del lavoro storico, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 3.
2. Metafisica, 1054b, 25 ss.
3. A. Momigliano, Saggezza straniera. L'Ellenismo e le altre culture, Einaudi,
Torino 1980, in particolare pp. 157-74.
4. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati
Boringhieri, Torino 1999; si veda anche F. Rasola, In mezzo alle diaspore,
in "aut aut", n. 298, 2000, pp. 155-79.
5. C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura,
scienza a raffronto, Einaudi, Torino 1984, p. 320.
6. E.J. Hosbawm-T. Ranger, L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino
1987.
7. G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo,
La Nuova Italia, Firenze 2001.
8. A. Asor Rosa, Genus italiacum. Saggi sull'identità letteraria
italiana nel corso del tempo, Einaudi, Torino 1997, pp. 3-31.
9. G. Lefebvre, L'Ottantanove, Einaudi, Torino 1949, pp. 212-4.
10. R.J. Evans, In difesa della storia, Sellerio, Palermo 2001, p. 51.
11. G. Lefebvre, La grande paura del 1789, Einaudi, Torino 1953, pp. 127-49.
12. H.-I. Marrou, Tristezza dello storico, Morcelliana, Brescia 1999, p.
64.
13. V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, E/O, Roma 1999, pp. 292-3.
14. L. Febvre, Quatre-vingt-neuf, in "Annales d'histoire sociale",
1940, n. 2, pp. 147-8.
15. E. Renan, Che cos'è una nazione? E altri saggi, Donzelli, Roma
1993, p. 20.
16. E.J. Hobsbawm, Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli,
Milano 2001, pp. 179-80.
17. E. Goffman, Frame Analysis, Harper and Row, New York 1974.
18. H. Garfinkel, The origins of term "ethnomethodology", in Ethnomethodology,
R. Turner (a c. di), Penguin, Harmondsworth 1974, p.17.
19. C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, p. 17.
20. G. Simmel, Sociologia, Edizioni Comunità, Torino 1998, p. 355.
21. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978;
Una strana confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault,
Einaudi, Torino 1979.
22. J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino
1993.
23. J.M. Benoist, Sfaccettature dell'identità, in C. Lévi-Strauss,
L'identità, Sellerio, Palermo 1996, pp. 15-24.
24. M. Wieviorka, La differenza culturale. Una prospettiva sociologica,
Laterza, Roma-Bari 2002, p. 41.
25. E.J. Hobsbawm, Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli,
Milano 2001, pp. 55-6.
26. M. Agulhon, La Repubblica nel villaggio, il Mulino, Bologna 1991, p.
199.
27. G. Simmel, op. cit, p. 580.
28. J.F. Burke, Reconciling Cultural diversity with a Democratic Community:
"Mestisaje" as Opposer to the Usual Suspects, in "Citizenship
Studies", III, n. 1, 1999, pp. 119-40.
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