Calogero: «Un ordigno nucleare si
fabbrica in garage» di Antonella Stocco
ROMA
- Antrace, vaiolo, gas assassini, incubo
collettivo dell’ultimo secolo in guerra e in pace; spettri di un’apocalisse
possibile rianimati e ricondotti alla ragione: scienza e medicina, strategie
militari e manuali di sopravvivenza ai tempi del terrorismo. Ma non è
la guerriglia chimica o batteriologica l’unica minaccia di oggi: c’è un
altro fantasma che si aggira tra il disfacimento dell’Urss, la proliferazione
delle cellule terroristiche, islamiche e non, e la cattiva coscienza degli
stati occidentali. Buono per un’altra strage, per una rappresaglia all’attacco
in corso in Afghanistan. E’ l’ uranio altamente arricchito: soltanto la
Russia ne possiede oltre un milione di chili custoditi in precarie condizioni
di sicurezza. Bastano cento chili per costruire a casa un ordigno nucleare,
concettualmente non è difficile. Dall’Isaac Newton institute di Cambridge
il professor Francesco Calogero, fisico teorico e presidente del council
del “Pugwash", il movimento mondiale degli scienziati per il disarmo nucleare
a cui è stato assegnato nel ’95 il Nobel per la pace, racconta come la
possibilità nucleare nella guerra “asimmetrica" con il terrorismo islamico
sia un’arma a doppio taglio.
Professor Calogero, si può mettere a confronto il rischio di un attacco
batteriologico con quello di un’esplosione nucleare per mano di terroristi?
«La diffusione a scopo distruttivo di agenti batteriologici presenta diverse
difficoltà pratiche, la costruzione di un ordigno nucleare non ne presenta
nessuna: non serve essere un fisico, un ingegnere. Basta saper maneggiare
gli esplosivi e disporre di un appartamento, di un garage. Il solo problema
è procurarsi l’uranio arricchito nell’isotopo 235».
Teoricamente, dovrebbe essere impossibile...
«Teoricamente. Non esiste certo un mercato legale dell’uranio altamente
arricchito, e nemmeno un mercato nero. Esistono dei canali, esiste un
rischio concreto. Bin Laden e i suoi certamente hanno pensato a un sistema
così semplice di distruzione di massa, e già da tempo. Altro è capire
se sono in possesso dell’uranio. Il milione di chili nelle mani dei russi
dovrebbe essere custodito in alcuni depositi, nel contesto di un sistema
sociale al collasso, dove gli addetti alla sicurezza spesso non ricevono
nemmeno il magro stipendio. E’ possibile che un eventuale trafugamento
di qualche centinaio di chili passi inosservato».
Come si fa ad attraversare le maglie strette dei controlli nei paesi occidentali
con cento chili di uranio arricchito?
«L’uranio arricchito è molto pesante. Cento chili corrispondono al volume
di quattro o cinque palle da tennis. E’ leggermente radioattivo e quindi
sarebbe individuato nei controlli ufficiali, ma le vie clandestine sono
infinite. Per questo, e non da ora, la questione russa sull’uranio è stata
terreno di un allarme di proporzioni mondiali, di dibattiti e accordi
faticosi e in parte disattesi tra Stati Uniti ed ex Urss».
Che fine ha fatto l’accordo Usa-Russia per il de-arricchimento e la vendita
dell’uranio?
«E’ in corso; e da accordo sulla sicurezza si è trasformato in accordo
con risvolti commerciali. Non solo: il progetto originale per il depotenziamento
di 500 tonnellate di uranio russo, da utilizzare poi come combustibile
nelle centrali nucleari, procede con grande lentezza. Finora sono state
trattate circa 150 tonnellate, il ritmo è di 30 tonnellate l’anno. Ci
vorranno vent’anni, mentre il rischio dell’uso terroristico di ordigni
nucleari è qui, è ora. E’ necessario riflettere, rivedere gli accordi».
Nella guerra del Golfo e in Kosovo la Nato ha usato tonnellate di proiettili
appesantiti dall’uranio impoverito, scoria del processo di arricchimento
a scopo nucleare. Poi le morti per linfoma, anche di militari italiani,
la millenaria contaminazione ambientale. Non è questo "il metallo del
disonore"?
«No: l’uso bellico dell’uranio impoverito ha salvato più vite di quante
ne abbia danneggiate, poiché è utilizzato anche per schermare i carri
armati. Certo, se il pulviscolo radioattivo viene direttamente respirato
il danno alla salute è possibile, ma nel complesso lo scenario apocalittico
da più parti evocato dopo l’uso bellico dell’uranio impoverito è totalmente
privo di fondamento».
Tornando al rischio terroristico-nucleare, lei lo ha ribadito in molte
pubblicazioni uscite anche negli Stati Uniti. Con quali risultati?
«Nessuno o quasi. La responsabilità del controllo è dei potenti del mondo.
Certo, l’uranio altamente arricchito ce l’hanno anche gli Stati Uniti,
l’Inghilterra e la Francia che però non sono certo stati-colabrodo».
Dopo l’11 settembre, l’etica degli scienziati di Pugwash che si battono
per il disarmo nucleare come può essere condivisa dagli Stati impegnati
nella guerra al terrorismo?
«Un passaggio cruciale per diminuire il rischio di catastrofi nucleare
è stato rappresentato dalla fine della Guerra Fredda. E certamente nella
lotta al terrorismo sarebbe insensato l’uso di armi di distruzione di
massa; è un contesto in cui non possono avere alcun ruolo. E’ invece giunta
l’ora di introdurre il concetto di responsabilità personale per politici,
scienziati e tecnici impegnati nello sviluppo di queste armi messe al
bando: perché possano essere processati come criminali internazionali
per atti contro l’umanità».