DOBBIAMO VINCERE LA
GRANDE GUERRA
di Federico Martelloni e Tommaso De Lorenzis
Dobbiamo vincere la guerra, non ratificata, non dichiarata, non discussa
in alcun consesso internazionale, ma gia' combattuta, tra il comando
globale e gli esseri umani. I milioni di donne e uomini che non sono
piu' disposti a marchiarsi a fuoco, sulla pelle, i costi dell'epocale
recessione planetaria, a tatuarsi sulla coscienza il placet preteso
da chi allude alla via idrocarburica come possibile uscita dalla crisi
economica internazionale.
Dobbiamo vincere la guerra. Combatterla e vincerla con le armi della
politica, che Enduring Freedom, nuovo paradigma della governamentalita',
vorrebbe ridurre a straordinaria eccezione, a occasionale e fortuito
prolungamento della guerra con altri mezzi.
Combatterla e vincerla, utilizzando una particolare *arte della guerra*,
appresa di recente, guardando sventolare le bandiere arcobaleno, lasciando
scivolare lo sguardo sui volti di quanti, il 15 febbraio, sfilavano
al nostro fianco nelle 600 citta' in cui abbiamo espresso un'altra
idea di globalizzazione.
Un'arte che abbiamo affinato sostando sui binari di stazioni secondarie,
scelte, con vergogna, per il transito di convogli carichi di armamenti
o nelle piazze illuminate che riscaldavano il dissenso delle maggioranze.
Dobbiamo vincere una guerra il cui fronte attraversa il tempo espropriato,
la produttivita' disconosciuta, la penuria di diritti, i confini presidiati
militarmente, la mancanza di reddito, l'insicurezza sociale, le illusioni
collassate nello spleen della New Economy, i sogni negati di coloro
che tentarono di farsi imprenditori e si risvegliarono inflessibili
padroncini di se stessi.
Questa guerra va combattuta e vinta.
L'altro conflitto, il *triello*, istericamente annunciato, tra un
petroliere texano, un dittatore mediorientale e uno sceicco arabo,
assume i contorni di un farsesco regolamento di conti per il territorio:
"Gangs of the world".
Oggi il capitalismo, nell'era della sua renaissance imperialistica,
ha molti nemici. I piu' ridicoli, i piu' biecamente strumentali e
inconsistenti, quelli su cui ricadono i *soliti sospetti*, sono Saddam
Hussein e Osama Bin Laden. Insomma, "il Brutto" e "il
Cattivo" che girano in tondo, sulla piazza di un cimitero, con
le pistole scariche.
Poi c'e' il petrolio. Il controllo dei bacini petroliferi dell'area
arabica, che fu, nel 1991, la causa della Guerra del Golfo.
Se fosse il petrolio il motivo di questo incipiente conflitto bellico,
si tratterebbe di un'operazione, squallida e stracciona, orchestrata
*per un pugno di dollari*. Intanto, sul futuro del liberismo tardo-petroliero
si allunga l'ombra minacciosa del tetto di estrazione, ma gli sprezzanti
califfi post-moderni non se ne curano: "dopo di noi il diluvio"
borbottano cupamente, constatando quanto corto sia diventato il respiro
del loro sistema di produzione.
Talvolta qualcuno, a destra come a sinistra, ha provato a contrastare
questo cinico e disperato nichilismo, che e' il segno di un evidente
esaurimento della capacita' accumulativa del capitale e di un vistoso
inaridimento della sua *fantasia* politica.
Cosi', ci si e' chiesto se non fosse piu' utile - per fronteggiare
la recessione, che i pochi analisti finanziari, cui e' stata concessa
liberta' di parola, non hanno esitato a considerare piu' pericolosa
della celebre crisi del '29 - catapultare sull'Afghanistan o sull'Iraq
quintali di telefonini cellulari, o di Pentium III con Windows 2000
gia' installato, o chissa' quale altro brillante prodotto della New
Economy, piuttosto che sganciare bombe intelligenti all'uranio impoverito.
In realta', come noto, lo stile di vita statunitense non e' estendibile
*urbi et orbi*. Il globo intero, qualora adottasse il regime e le
modalita' di consumo proprie del cosiddetto Nord del mondo, giungerebbe
rapidamente al collasso. Il nostro modello di sviluppo non e' generalizzabile,
perche', se fosse generalizzato, sarebbe assolutamente insostenibile,
tanto sul versante sociale, quanto su quello ambientale.
E' l'inarrestabile flusso della Storia a pretendere un'ulteriore opzione
rispetto alla mortificante scelta tra il capitalismo dei titoli on
line, delle imprese immateriali (*una su cento ce l'ha fatta*), della
presunta *governabilita'* debole e il capitalismo texano, crepuscolare,
bipolarmente depresso, malinconico, isterico e fobico-paranoico.
Il modello, quindi, non e' universalizzabile. Nulla di nuovo, certo,
rispetto a quanto hanno detto Vandana Shiva a Porto Alegre o il signor
Sachs a Firenze, durante il Forum Sociale Europeo. Nulla di nuovo
rispetto a cio' che, da tre anni a questa parte, sta diventando senso
comune, con un'inedita potenza comunicativa ed egemonica. *Nessuno
va piu' a letto presto*.
I margini di mediazione politica e la maligna compatibilita' inclusiva,
con la quale la costituzione politica del capitale globale aveva cercato
di edificare un livello controllato di "partecipazione democratica",
si sono squagliati innanzi al pesante rilancio operato dal movimento.
Si e' avuto l'ardire di affermare che esiste un'alternativa al neoliberismo,
si e' avuto il coraggio di sostenere che esiste una formula democratica
fuori dai filtri dei meccanismi di rappresentanza, sintetizzando il
tutto in uno slogan, semplice ma temibile, che recita: *un altro mondo
e' possibile*.
"Questo no e poi no" e' stata la risposta violenta e incondizionata
fornita a Seattle, Goteborg, Genova ed in molti altri luoghi. Questo
non e' vero. Non puo' e non deve essere vero - come ha avuto modo
di precisare recentemente il signor Rumsfeld. O meglio, potrebbe essere
vero solo a condizione che il modello fosse sottoposto a una radicale
inversione di tendenza. A una drastica trasformazione delle modalita'
di produzione, consumo e distribuzione della ricchezza. A un cambiamento
di stile.
*C'era una volta il West*, l'Occidente dell'eterna frontiera rincorsa
dalla ferrovia e delle mirabili sorti espansive.
C'e' un altro nemico: si chiama Europa. E qui una buona ragione ci
sarebbe. Anzi, sono milioni di buone ragioni, di quelle metalliche,
argentate ai bordi e dorate al centro, che quando le lanci sulla pietra
fanno: *ding!*
Infatti, se l'euro sostituisse il dollaro negli scambi internazionali
- in particolare quelli con Russia e Cina - il colpo inferto all'economia
statunitense non sarebbe leggero: *per qualche dollaro in piu'*. In
tal caso, va detto, sarebbe dialettica tra il segmento renano e quello
anglosassone del Capitale.
Nonostante cio', dentro l'Europa si gioca la partita per definire
margini di autonoma sottrazione dal controllo.
Alla "piccola Europa", suddita di una crociata permanente,
priva, peraltro, della benedizione pontificia, si contrappone un continente
*nuovo*, in cui la frantumazione molecolare del lavoro vivo sembra
finalmente trovare valenze combinatorie.
Non si tratta di una semplice giustapposizione, di un accostamento
casuale, di una convergenza politicista, tattica e transitoria o,
peggio, dell'accordo tra apparati e burocrazie piu' o meno rilevanti.
E' nel corpo dell'Europa, e in particolare nel suo ventre mediterraneo,
in Italia, che si sperimenta organicamente la virtuosa saldatura tra
il movimento del lavoro intellettuale, neo-artigianale, comunicativo,
linguistico, e le federazioni sindacali che organizzano il lavoro
subordinato.
*Europeismo e post-fordismo*, quindi: parole dal sapore *inversamente*
gramsciano, che non vogliono significare "nazional-europeismo
antiamericano" e non implicano in alcun modo la rinuncia a "guardare
al mondo [intero] con occhi nuovi".
Parafrasando, in questi *strani giorni*, il Connery de *La casa Russia*,
diciamo che "noi sosterremo sempre la nostra America contro la
loro".
Il resto lo lasciamo alla forza inventiva della moltitudine, alla
sua capacita' di individuare mitologie continentali ribelli e altre
storie europee, secondo lo spirito dell'appello moltitudinario di
Genova 2001.
Le grandi manifestazioni pacifiste, da Firenze a Roma, da Madrid
a Londra, hanno espresso, con cristallina evidenza, il superamento
in avanti delle distinzioni convergenti e delle affinita' elettive.
Hanno spinto Seattle oltre Seattle.
La *way of blocs*, il minimo denominatore comune, la cornice condivisa
che, fino al luglio del 2001, ha riassunto approcci differenziati,
lascia il campo a un sentire collettivo, in cui i segni di alcuni
diventano simboli per tutti, e a un agire, corale e radicale al tempo
stesso.
Digiuni laici, preghiere rivolte dio solo sa a chi, veglie sacre e
profane, tonache di monaci-predicatori sulle traversine dei binari,
lo spettro del primo sciopero generale oltre i confini dello stato-nazione
e del lavoro fordista, racconti polifonici, oceaniche dimostrazioni
metropolitane rappresentano la pietra filosofale del conflitto planetario
e del movimento che lo esercita.
Un preoccupato stupore monta tra le fila degli sgherri e dei vassalli,
mentre va costituendosi una sontuosa sfera comunicativa, rizomatica
ed orizzontale, che corre lungo le dorsali del pianeta.
L'onda lunga del passa-parola che, nel 1999, porto' al boicottaggio
del summit del WTO, si e' abbattuta violentemente sui frangiflutti
dell'informazione mainstream.
Ironia e beffa della storia e delle storie: quei media che, negli
anni '90, erano diventati un "panopticon rovesciato", quei
media capaci di rappresentare, con la loro logica "sondocratica",
*una dittatura della maggioranza che trova nel piccolo schermo il
collettore delle sue verita'*, non hanno potuto mancare di esprimere,
all'indomani del 15 febbraio, null'altro che *senso comune*.
Neanche la logica di guerra ha potuto arrestare la potenza comunicativa
di 110 milioni di persone che rappresentavano, in quanto tali, il
piu' grande media mai esistito. E i media ufficiali, chi piu' chi
meno, hanno dovuto comportarsi alla stregua di una piccola emittente
locale di fronte ad una notizia trasmessa dalla CNN. Hanno dovuto
raccontare a denti stretti, per non giocarsi ogni residua credibilita',
la globale epopea di una gigantesca moltitudine contro la guerra.
Risulterebbe paradossale che questa sinergica potenza, meticcia e
ri-combinante, immaginifica e concreta, si sviluppasse soltanto per
contrastare la guerra dei Signori del petrolio e non per vincere la
guerra che costoro hanno ingaggiato contro le genti e le moltitudini
del pianeta. E viceversa. In quella partita chi ha le carte migliori
non puo' accettare che si rifaccia il mazzo.
Qualcuno, interessato a esorcizzare fantasmi inquietanti, potrebbe
parlare dell'innegabile e ovvio fascino esercitato dall'imperativo
morale della pace. E, paradossalmente, potrebbe andarci anche bene:
l'etica delle comunita' operose contro i doveri militari dei nuovi
Lanzichenecchi, razziatori e parassiti.
Ma occorre un passaggio in piu': la trasformazione di questo sentimento
nella consapevolezza che, oltre a provare ad inceppare la macchina
bellica, bisogna tentare di vincere la guerra, perche' il conflitto
e' gia' scoppiato e il movimento e' il nemico pubblico numero uno.
A questo punto, rinunciare all'avventura irakena equivarrebbe a una
tragica ammissione di impotenza, al riconoscimento esplicito della
forza e dell'incisivita' di quella che, riferendosi all'opinione pubblica,
e' stata definita l'altra super-potenza, e che, per noi, e' lo spiraglio
di luce futura sul presente.
"Fare questa guerra" e' diventato un modo di combattere
contro la volonta' di trasformazione. Questo movimento comincia a
spaventare le centrali dell'Impero ben piu' di Saddam o di Bin Laden.
"Roma non e' nel marmo del senato...ma nella sabbia del Colosseo"
ragionavano i senatori ne *Il Gladiatore*. Appunto.
e' quel che abbiamo detto nel piu' grande coro che mai si sia visto
sulla scena del mondo, il giorno 15 di febbraio, anno terzo del nuovo
secolo. E il canto - rectius, l'urlo - e' arrivato, nitido e chiaro,
al cuore delle elites internazionali.
Oggi, il consenso pare defluire sia dai tradizionali bacini di raccolta
democratica sia dalle Organizzazioni di rappresentanza della cosiddetta
societa' civile globale, per raccogliersi nell'oceano delle moltitudini.
L'articolazione "mista" della "costituzione imperiale"
subisce un processo di drastica semplificazione. Per un lungo istante
di onirica chiaroveggenza, era stato evocato, con un suggestivo deja'
vu dal sapore polibiano, il potere imperiale di Roma. Bene, ci siamo
destati nella molle e indecente decadenza del Tardo Impero e la nuova
forma della sovranita' ha finito per comportarsi alla stregua di un
volubile e capriccioso tiranno.
Sulla scacchiera dell'imminente guerra all'Iraq si combatte gia'
una guerra.
Una guerra contro di noi, che abbiamo indicato la Politica come spazio
dello scontro.
A noi tocca combatterla. Senz'armi, ovviamente, se non altro perche'
e' il solo modo di vincerla.
Ma bisogna vincerla.
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