Archivio Web Noam Chomsky
Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.


Capitolo 3.
NORD-SUD / EST-OVEST.

3. L'EST RITORNA NEL TERZO MONDO.

Se all'inizio dei tempi moderni l'Europa Orientale fu "un terreno nel quale banchieri e finanzieri sperimentarono politiche che poi avrebbero perfezionato in terre più lontane" (Feffer), negli anni '80 la situazione si capovolse. Quella regione doveva divenire un 'laboratorio' per le dottrine economiche liberiste che, rifiutate da quei paesi che erano riusciti a svilupparsi con successo, erano state applicate con effetti disastrosi nel Sud, sotto la tutela dell'Occidente. Un simbolo di questa tendenza è l'economista di Harvard Jeffrey Sachs il quale, dopo aver "negli anni '80 contribuito a distruggere l'economia boliviana in nome della stabilità della moneta", osserva con precisione Feffer, si spostò poi in Polonia per somministrarle l'amara medicina di solito prescritta alle 'aree subordinate' del Sud.

Seguendo le sue regole, la Polonia, osserva l'acuto analista Abraham Brumberg, ha visto "la nascita di molte imprese private di successo", insieme ad "un calo della produzione di quasi il 40%, enormi stenti e fermenti sociali" e "la caduta di due governi". Nel 1991, il prodotto interno lordo (PIL) polacco diminuì dell'8-10%, gli investimenti dell'8% e la disoccupazione quasi raddoppiò.

Quest'ultima, all'inizio del 1992, in seguito ad una diminuzione ufficiale del PIL del 20% in due anni, era arrivata all'11% della forza-lavoro. Un rapporto del 1992 della Banca Mondiale sull'economia polacca, presentato da Anthony Robinson sul "Financial Times", concludeva: "La situazione economica è peggiorata al punto che l'iperinflazione è diventata un pericolo reale. La disoccupazione ha raggiunto livelli che non possono essere tollerati a lungo.

Gli investimenti nello sviluppo delle infrastrutture e delle risorse umane si sono ridotti a tal punto da compromettere, se questa tendenza dovesse continuare, le prospettive di crescita a lungo termine". Robinson avvertì inoltre che "nessuna delle riforme di lungo termine dal lato dell'offerta" patrocinate dalla Banca Mondiale "avrà possibilità di successo se la Polonia ricade nell'iperinflazione, o se l'economia continua a declinare come negli ultimi due anni". "I risparmi privati sono stati praticamente eliminati dall'iperinflazione e dal piano di stabilizzazione economica del 1990", aggiunge Robinson, mentre i problemi si sono aggravati per la fuga di capitali pari a varie decine di milioni di dollari al mese. Mentre si 'tocca il fondo', le prospettive per la maggior parte della popolazione polacca sembrano piuttosto nere.

La Russia sta andando nella stessa direzione. "Secondo alcune stime", osserva Michael Haynes, "la fuga di capitali [provocata sia da ragioni congiunturali che strutturali] dall'Urss nel 1991 si aggirava intorno ai 14-19 miliardi di dollari". Nel 1991 la produzione della Russia diminuì drasticamente. All'inizio del 1992, il ministro delle Finanze e dell'Economia Yegor Gaidar preannunciò un altro calo del 20% sostenendo che il "momento peggiore" doveva ancora venire. La produzione dell'industria leggera del paese diminuì del 15-30% nei soli primi 19 giorni del gennaio del 1992 e contemporaneamente la distribuzione della carne, dei cereali e del latte calò più di un terzo. In Polonia dall'inizio del 1989 alla metà del 1992, secondo le statistiche della Banca Mondiale e del F.M.I., la produzione industriale sarebbe calata del 45%, i prezzi saliti di 40 volte ed i salari reali quasi dimezzati; i dati economici nel resto dell'Europa Orientale non sembrerebbero migliori.

Gli ideologi occidentali sono molto soddisfatti dei risultati ottenuti, ma anche un po' preoccupati che forme di irrazionalità economica possano impedire ulteriori progressi. Sotto il titolo "I dinosauri dell'industria mettono in pericolo il progresso economico della Polonia", il corrispondente del "New York Times" Stephen Engelberg esamina "un caso limite che dimostra come l'eredità industriale del sistema comunista rischi di impedire i piani di riforma economica in Polonia ed in altri paesi dell'Europa Orientale": la città di Rzeszow, completamente dipendente da una fabbrica di aerei per quanto riguarda i posti di lavoro, le entrate fiscali e persino il riscaldamento, ricavato dai sottoprodotti industriali. Secondo Engelberg le politiche del libero mercato, raddoppiando il numero di imprese private, hanno "riportato in città come Varsavia e Cracovia la vitalità del commercio" (anche se la gente non è in grado di comprare generi di prima necessità e vive al di sotto della soglia di povertà). Ma questo gradito progresso è insidiato dalle pressioni in favore di un intervento governativo che possa soddisfare le esigenze primarie della popolazione e salvare le imprese che risentono della perdita di mercati, di rifornimenti e dei crediti non riscossi in seguito allo sfascio dell'Urss.

Non meno inquietanti, osserva Engelberg, sono "le agitazioni sociali dei lavoratori", che hanno ormai un certo controllo nelle fabbriche e scioperano persino per impedire la chiusura di impianti chiedendo che siano salvati da "prestiti garantiti dal governo per ricostruire le fonderie". Il sindacato "Solidarnosc" ha chiesto al governo di "condonare le tasse arretrate e commissionare nuovi aerei per l'esercito polacco". Un leader sindacale ha poi precisato: "Il governo deve decidere se gli serve un'industria aeronautica, se questa debba essere ristrutturata o in parte riconvertita". Ma gli analisti occidentali sanno bene che queste decisioni non spettano più ai polacchi: sono di competenza del 'libero mercato' - o, più precisamente, delle potenti istituzioni che lo dominano. Del resto nessuno da noi pone quesiti imbarazzanti, come quelli formulati dal sindacalista polacco, su quale sarebbe il futuro dell'industria aeronautica Usa, o dell'industria avanzata in generale, senza gli enormi finanziamenti pubblici che l'hanno creata e la mantengono in vita; come del resto avviene in tutti i settori trainanti dell'economia. Né ci si interroga sul salvataggio della "Chrysler" o sul soccorso prestato da Reagan alla "Continental Illinois Bank"; o sulle centinaia di miliardi di dollari dei contribuenti usati per risarcire i dirigenti e gli investitori delle casse di risparmio, senza più controlli e rischi grazie al genio dell'economia reaganiana.

Ma lasciamo da parte le domande su come questa 'irrazionalità economica', che noi neghiamo al Terzo Mondo, abbia creato un'economia in cui gli americani non sono più alle prese con i problemi dei primi coloni relativi all'esportazione delle pellicce.

La questione della prepotenza dei lavoratori polacchi è sottolineata anche dal corrispondente del "Financial Times" Anthony Robinson quando scrive che molte comunità dipendono da "grossi stabilimenti dove i consigli di fabbrica esercitano una forte influenza su dirigenti del tutto inesperti di come funzioni il mercato". Questa inopportuna influenza dei lavoratori diminuirebbe quindi l'efficacia di quelle lezioni di razionalità economica e di democrazia che noi americano stiamo pazientemente tentando di impartire ai polacchi. La razionalità economica esige che i 'mezzi' della produzione (come i lavoratori, N.d.C.) superino la loro riluttanza di fronte alla distruzione delle loro comunità e delle loro famiglie. "La merce non deve decidere dove sarà messa in vendita, come sarà usata, a quale prezzo sarà venduta, e in che maniera sarà consumata o distrutta", sosteneva Karl Polanyi nella sua ricerca sull'esperimento di "laissez faire" che ebbe luogo nell'Inghilterra dell'800; fu la stessa borghesia industriale a porvi termine appena realizzò che i suoi interessi sarebbero stati danneggiati dal libero mercato e che questo "non può sopravvivere a lungo senza annientare l'essenza umana e naturale della società, distruggere fisicamente l'uomo e ridurre il suo ambiente ad un deserto".

Per quanto riguarda la democrazia, nel senso ufficiale del termine, essa non lascia spazio alle ingerenze popolari nella struttura totalitaria dell'economia d'impresa, con tutto ciò che ne consegue nelle altre sfere della vita sociale. Il ruolo della popolazione è di seguire gli ordini, senza intromettersi.
Sul "New York Times" Gabrielle Glaser ci racconta di una delle conseguenze dell'"apertura della Polonia alle forze occidentali del mercato" sotto il titolo "Un fiorente mercato polacco: bambini biondi con gli occhi azzurri". Un "effetto collaterale imprevisto" del libero mercato, scrive Glaser, è "un intenso traffico" di questa merce, perché "le giovani madri sono costrette a cedere i diritti sui loro figli". Il numero di questi casi sarebbe nell'ordine delle decine di migliaia. "Mi rincresce dirlo", afferma il capo di un'agenzia statale di adozioni, "ma sembra che la Polonia costituisca uno dei più importanti mercati di bambini bianchi". Le riviste polacche tendono a essere reticenti sul ruolo della chiesa, scrive Glaser, ma un'inchiesta ha rivelato che la madre superiora di una casa di adozione riceverebbe 15 mila dollari per ogni bambina e fino a 25 mila per un maschietto. Intervistata sui risultati dell'inchiesta, la religiosa ha commentato: "Non ho nulla da dire. Arrivederci". Però, afferma Glaser, mentre parlava aveva ben in mostra il riconoscimento papale per 'la difesa della vita', "un'onorificenza conferita da papa Giovanni Paolo Secondo ai crociati anti-abortisti nella sua natia Polonia".

Ma la giornalista non spiega perché questo 'effetto collaterale' dovrebbe essere 'imprevisto'. In realtà, come lei stessa scrive, casi simili "sono frequenti nell'Europa Orientale e nel Terzo Mondo: la Romania diventò famosa per questa pratica dopo la rivoluzione del 1989". Significativa la citazione della Romania post-'89. Fenomeni di questo tipo si accompagnano sempre all'integrazione del Sud nell'Ordine Mondiale in posizione subalterna; le notizie sulla tratta dei bambini in effetti non sono peggiori di altre che giungono alle orecchie di coloro che vogliono sentire. Gli 'effetti collaterali' dell'assoggettamento del Sud alle forze di mercato non sono affatto imprevisti, se non ovviamente per gli ideologi ben addestrati.

Del resto 'gli inaspettati effetti collaterali' provocati dalla 'mano invisibile' del mercato sono stati riscontrati anche in Russia, suscitando ancora una volta un ipocrita stupore. Alcuni mesi fa, un titolo sulla prima pagina del "New York Times" annunciava: "La nuova regola dei russi: se ci si guadagna, va tutto bene". "Non si tratta solo di delitti, corruzione, prostituzione, contrabbando e abuso d'alcool e di droghe", tutti in aumento, "ma anche dell'idea che... ognuno pensa a se stesso e che tutto è lecito" - a differenza degli Stati Uniti, dove la ricerca della 'spregevole regola dei padroni' è sconosciuta, o dei paesi assoggettati del Terzo Mondo che hanno beneficiato dei nostri aiuti. "Le truffe e le tangenti non sono un fenomeno nuovo in Russia", scrive la corrispondente Celestine Bohlen, ed erano diffuse anche nel 'vecchio sistema comunista' - sottolineando la differenza con quanto avviene negli Stati Uniti e nei paesi loro alleati dove queste sono sconosciute.

Più o meno negli stessi giorni, il "New York Times" riportava la saga del presidente Fernando Collor del Brasile, il favorito di Washington e della comunità internazionale degli affari, che ha battuto ogni record di corruzione in un paese ricco di risorse e 'zona di esperimenti' per gli esperti economici Usa da mezzo secolo a questa parte (vedi cap. 7). Inoltre si potrebbero anche ricordare alcuni esempi di corruzione nazionale, dall'epoca dei 'padri fondatori', che non erano certo inesperti in materia, fino ai reaganiani ed alla Wall Street degli anni '80. La corruzione è un elemento intrinseco del 'vecchio sistema comunista', proclamano con 'correttezza' le istituzioni ideologiche del sistema: nella 'democrazia capitalista' si tratta invece di una semplice aberrazione, presto corretta.

In Russia la nuova "ostentata ricchezza irrita la maggioranza dei cittadini", continua Bohlen, descrivendo le solite conseguenze dei rimedi neoliberisti, "la criminalità è aumentata nel paese dopo il collasso del comunismo, come nel resto dell'Europa Orientale", inclusi i reati commessi dai membri delle classi medie che sono "aumentati in modo rilevante". Ma, conclude l'articolo, "la criminalità è ancora di gran lunga inferiore a quella di New York". Certo la Russia deve ancora fare molta strada per potersi avvicinare all'ideale capitalista.

Se nel corso degli anni '80 le economie dell'Europa Orientale erano in una fase di ristagno o di declino, la loro caduta libera iniziò solo dopo che esse nel 1989, finita la guerra fredda, adottarono il regime del Fondo Monetario Internazionale. Nel quarto trimestre del 1990, ad esempio, la produzione industriale della Bulgaria (prima costante) ebbe un calo del 17%, l'ungherese del 12%, la polacca più del 23%, la rumena del 30%. La Commissione Economica per l'Europa dell'Onu sostenne alla fine del 1991 che la produzione della regione era diminuita dell'1% nel 1989, del 10% nel 1990, e del 15% nei primi mesi del 1991, preannunciando un calo ulteriore del 20% entro la fine dell'anno e probabilmente lo stesso, o peggio, per il 1992 ed il 1993. Come risultato si è avuta una generale delusione rispetto all'apertura democratica e, in taluni casi, un certo sostegno ai vecchi partiti comunisti. In Russia il collasso economico ha portato molte sofferenze e privazioni, ed anche "fatica, cinismo, e rabbia, nei confronti dei politici, da Eltsin in giù" - scrive Brumberg - in particolare contro la ex nomenclatura la quale, come previsto, sta diventando una tipica élite del Terzo Mondo al servizio dei nuovi padroni stranieri. Un sondaggio d'opinione su cosa pensassero i russi del putsch dell'agosto del 1991, arrivò alla conclusione che una metà degli intervistati lo considerava illegale, un quarto lo approvava ed il resto non esprimeva in merito alcuna opinione.
Il sostegno alle forze democratiche è limitato, non perché esista un'opposizione alla democrazia, ma per quel che essa diventa sotto il dominio occidentale.

Infatti quando una democrazia non assume quel significato molto particolare dettato dagli interessi dei ricchi, diventa oggetto di tentativi di destabilizzazione, sovversione, strangolamento economico e violenze fino a quando non torna a comportarsi secondo le regole. Le eccezioni sono rare (20).

La perdita di fede nella democrazia del resto non preoccupa l'Occidente, anche se il 'capitalismo burocratico', eventualmente introdotto dai comunisti diventati yuppie, potrebbe costituire un problema. Nel sistema dottrinario occidentale, le forme della democrazia vanno bene fintanto che non minacciano il potere delle imprese, ma in ogni caso sono secondarie: la vera priorità è l'integrazione dei vari paesi nell'economia globale con le opportunità che questa offre di poterli sfruttare e saccheggiare.
Con l'appoggio del F.M.I., la Cee ha sempre sottoposto l'Europa Orientale ad un vero e proprio esame di buona condotta. Prima i russi dovevano dimostrare di non 'accarezzare neppure l'idea' di sostenere le aspirazioni 'dell'uomo comune' ad una vita migliore. Oggi, l'Europa dell'Est deve invece dimostrare che la "liberalizzazione economica, con la relativa introduzione dell'economia di mercato, è irreversibile". In questo quadro non possono esservi all Est tentativi per attuare una 'terza via' con degli elementi di socialdemocrazia giudicati inaccettabili, né tantomeno passi sostanziali verso la democrazia e la libertà come, per esempio, forme di controllo da parte dei lavoratori. Il principale consigliere economico della Cee, Richard Portes, definì accettabile un 'cambio di regime' non perché ciò portasse a delle riforme democratiche, ma in quanto costituiva una "uscita definitiva dall'economia socialista pianificata - in modo irreversibile". Una recente relazione del F.M.I., nota Peter Gowan, "sottolinea il ruolo dell'Unione Sovietica come produttrice di energia, materie prime e prodotti agricoli, lasciando pochissime possibilità alle repubbliche della ex Urss di giocare alcun ruolo importante come potenze industriali sul mercato mondiale". Il passaggio della proprietà azionaria delle aziende ai dipendenti, nota Gowan, "ha avuto un forte sostegno popolare sia in Polonia che in Cecoslovacchia", ma non è accettabile per i controllori occidentali, poiché è in contrapposizione con il capitalismo del libero mercato cui deve essere sottoposto il Sud del mondo.

Il Sud, appunto, al quale l'Est è sempre più assimilato. In conformità alla prassi tradizionale, la Cee da parte sua ha innalzato barriere di vario tipo, doganali e non, per proteggere la propria produzione industriale ed agricola, chiudendo quindi all'ex blocco orientale quel mercato d'esportazione che potrebbe aiutarlo a ricostruire le sue economie. Quando Varsavia tolse ogni barriera alle importazioni, la Cee si rifiutò di fare altrettanto, continuando a discriminare una metà dei prodotti esportati dalla Polonia. Inoltre la lobby europea dell'acciaio lanciò un appello per una 'ristrutturazione' del complesso produttivo dell'Europa Orientale in funzione degli interessi del sistema industriale occidentale; la chimica europea si premurò di far presente che la costruzione di economie di libero mercato nel vecchio impero sovietico "non deve avvenire a spese della nostra industria chimica in Europa Occidentale". E, come abbiamo visto, nessuna delle società capitaliste di stato accetta quello che può definirsi una "conditio sine qua non" della teoria del libero mercato: la libera circolazione della manodopera. L'Europa dell'Est, o almeno gran parte di essa, nel Nuovo Ordine Mondiale deve tornare a svolgere un ruolo subalterno, tipico del Terzo Mondo (21).

La posizione Usa sull'Europa ricorda quella che Washington assunse negli anni '30 nei confronti del Giappone o, più recentemente, in occasione dell'iniziativa Reagan-Bush per un bacino economico comune nei Caraibi. Si tratta delle proposte per la creazione nella regione di economie aperte ed orientate alle esportazioni, alle quali si contrappone il mantenimento delle barriere protezionistiche Usa che ne vanifica così gli eventuali vantaggi per i paesi dell'area (22). I modi attraverso cui ciò avviene sono così soffocanti quanto noti.

I drammatici sviluppi registratisi alla fine dello scorso decennio nell'Europa Orientale suscitarono negli Usa una certa apprensione. Non dobbiamo dimenticare come, nel corso degli anni '80, Washington avesse tentato di impedire lo stringersi di solidi legami commerciali tra Est ed Ovest ed una rapida dissoluzione dell'impero sovietico. Ad esempio nell'agosto del 1991, proprio alla vigilia della dichiarazione d'indipendenza, George Bush consigliò all'Ucraina di non procedere alla secessione. Uno dei motivi dell'atteggiamento di Washington era dovuto al fatto che gli Usa, in seguito alla politica reaganiana di indiscriminato sostegno ai ricchi, non potevano reggere la concorrenza sia dell'Europa a guida tedesca che del Giappone nello sfruttamento dei settori del Sud che si erano da poco aperti all'Occidente. I democratici liberali così insistettero affinché gli 'aiuti all'estero' fossero dirottati dal Centroamerica all'Urss, affermando che senza i tradizionali strumenti di sostegno alle esportazioni Usa, la Cee ed il Giappone "potrebbero sfruttare a loro vantaggio le enormi possibilità per i commerci e gli investimenti che si sono create in Europa Orientale" mentre "noi siamo presi dalle discussioni sui nostri precedenti fallimenti in politica estera" (senatore Patrick Leahy); e a proposito di questi ultimi qualcuno avrebbe potuto anche ricordargli che gli Usa potevano almeno dare una mano a lavar via i fiumi di sangue che avevano versato.

Nel 1992, per risolvere il problema, il presidente Bush propose il suo "Freedom Support Act" (la Legge per il Sostegno della Libertà), un provvedimento in favore del quale, scrive Amy Kaslow, scese in campo una "fiumana di alti funzionari Usa e di grossi dirigenti del settore privato". L'ambasciatore Robert Strauss incitò ad una sua rapida approvazione "affinché le imprese Usa non fossero battute dalla concorrenza... nell'enorme mercato della ex Unione Sovietica". Il Decreto offrirà "nuove opportunità" per "gli agricoltori e gli industriali manifatturieri" americani, ed "aprirà la strada alle imprese Usa per esplorare nuovi vasti mercati". Non c'è possibilità di sbagliarsi su quale fosse la 'libertà' che quella legge si proponeva di 'sostenere' (23).


Note:

N. 20. Feffer, "Shock Waves", p. 22, 112, 129. Brumberg, "The New York Review of Books", 30 gennaio. "Financial Times", 3 febbraio. Robinson, "Financial Times", 28 aprile 1992. Haynes, "European Business and Economic Development", settembre 1992. Per gli indici economici, vedi "Financial Times", 28 settembre 1992. Engelberg, "New York Times", 9 febbraio. "The Wall Street Joumal", 4 febbraio. Glaser, "New York Times", 19 aprile. Bohlen, "New York Times", 30 agosto 1992. Per la Continental Illinois vedi capitolo 2. Per i bambini, vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 7; cap. 9.5. Polanyi, "Great Transformation". Miller, "Founding Finaglers". Sull'eccezione rappresentata dal Costa Rica e gli atteggiamenti Usa dagli anni '40 in poi, vedi Chomsky, "Necessary Illusions", 111n., App. 5.1; "Deterring Democracy", 221n., 273n.n.
N. 21. Gowan, "World Policy Journal", inverno 1991-92.
N. 22. Vedi Deere, "In the Shadows", p. 213. McAfee, "Storm Signals".
N. 23. Vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 1.6, 3.3. Kaslow, "Christian Science Monitor", 12 agosto 1992.


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Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.