Dalla Thailandia alla Corea del Sud, passando per il
Giappone, il sisma monetario e finanziario continua a destabilizzare l'Asia.
Ma dopo i milioni di lavoratori licenziati, la crisi ha fatto la prima vittima
illustre: il generale Suharto. Presidente da più di trent'anni, Suharto
pretendeva di conservare il monopolio di un potere fondato su prebende e
corruzione. Ma incapace di realizzare le riforme imposte dal Fondo monetario
internazionale e di impedire lo scoppio della rivolta popolare, è
stato costretto alle dimissioni il 21 maggio del 1998. Il successore, Bacharuddin
Jusuf Habibie, uomo del serraglio, ha dato alcuni segnali di apertura: promessa
di elezioni, liberazione dei prigionieri politici, ricambio al vertice delle
forze armate. Ma è un cambiamento profondo quello che chiede l'Indonesia,
precipitata in pochi mesi allo status di paese povero. Per un regime che
si è insediato al potere dopo un terribile bagno di sangue, compiuto
con il consenso degli Stati uniti, il bilancio è davvero poco glorioso.
di NOAM CHOMSKY*
Il 20 maggio del 1998 il segretario di stato americano, Madeleine Albright,
ha chiesto al presidente Suharto di rassegnare le dimissioni per aprire
la strada a una "transizione democratica". Poche ore dopo il generale trasferiva
i poteri al vice-presidente, che lui stesso aveva designato. Anche se i
due eventi non sono in uno stretto rapporto di causa-effetto, illustrano
bene la natura delle relazioni tra gli Stati uniti e l'Indonesia negli ultimi
cinquant'anni.
Quattro mesi prima delle dimissioni, una pubblicazione australiana aveva
riportato la seguente scena: davanti al "direttore del Fondo monetario internazionale
(Fmi), Michel Camdessus, in piedi con le braccia conserte, alla coloniale,
Suharto firmava un nuovo accordo con il Fmi". La foto che illustrava "l'umiliazione
di Suharto" fu "pubblicata l'indomani dalla stampa indonesiana" (1).
La sua valenza simbolica non sfuggì a nessuno. Suharto ha potuto contare
sull'appoggio degli Stati uniti e degli altri governi occidentali da quando
ha preso il potere, nel 1965. Per sostenere il suo regime fondato sulla
violenza, la Casa bianca ha costantemente aggirato le restrizioni del Congresso
americano agli aiuti militari e all'addestramento delle forze armate. L'amministrazione
Clinton ha pure sospeso il monitoraggio delle spaventose condizioni di lavoro
nelle fabbriche indonesiane che producono per gli Stati uniti. Anzi, si
è complimentata con Jakarta per avere reso tali pratiche "più
conformi alle norme internazionali"! La caduta del generale Suharto si inserisce
nel solco di una tradizione ormai familiare: Mobutu Sese Seko, Saddam Hussein,
Ferdinando Marcos, Anastasio Somoza, la famiglia Duvalier. In generale,
gli americani abbandonano i loro protetti perché disobbediscono o
perdono il controllo della situazione. Nel caso di Suharto le due spiegazioni
convergono: prima il rifiuto di obbedire agli ordini del Fmi, che imponevano
un nuovo giro di vite alla popolazione. Poi, l'incapacità di contenere
la rivolta sociale. Il dittatore aveva semplicemente smesso di essere utile.
Dopo la seconda guerra mondiale, l'Indonesia aveva svolto un ruolo importante
per gli Stati uniti, impegnati nella costruzione di un nuovo ordine planetario.
A ogni regione era stato assegnato un compito specifico; quello del Sud-Est
asiatico era di procurare alle società industriali risorse e materie
prime. L'Indonesia era una delle poste in gioco più importanti. Nel
1948 George Kennan, lo stratega che "inventò" la dottrina del contenimento,
vedeva "nel problema indonesiano (...) la questione più importante
del momento nella lotta contro il Cremlino".
Questa formula, in realtà, celava la volontà di lottare contro
ogni nazionalismo indipendente, quale che fosse il sostegno fornito a esso
da Mosca (molto tiepido nel caso indonesiano).
George Kennan avvertiva: una Indonesia "comunista" sarebbe stato un focolaio
di "infezione" capace di "estendersi a Ovest" e di intaccare tutta l'Asia
meridionale. Allora si pensava che l'infezione si propagasse più con
la forza dell'esempio che con la conquista.
La "questione indonesiana" rimase aperta a lungo. Nel 1958 il segretario
di stato americano John Foster Dulles informò il Consiglio nazionale
di sicurezza che l'Indonesia era una delle tre maggiori aree di crisi del
pianeta le altre due erano l'Algeria e il Medioriente. Inoltre, fortemente
sostenuto dal presidente Eisenhower, Foster Dulles riteneva che in quelle
crisi l'Unione sovietica non svolgesse alcun ruolo. In Indonesia il "problema"
principale veniva dal Partito comunista (Pki), che continuava ad "estendere
la sua influenza, non in quanto partito rivoluzionario, ma come organizzazione
che difende i poveri nel quadro del sistema vigente", costruendosi "una
base di massa tra i braccianti" (2).
L'ambasciata degli Stati uniti a Jakarta annunciò che non sarebbe
stato possibile sconfiggere il Pki "con gli strumenti democratici ordinari".
Bisognava ricorrere all'"eliminazione" con l'aiuto dell'esercito. I comandanti
delle forze armate insistevano perché "si facesse qualcosa, anche
un'azione di forza, per assicurare il successo dei dissidenti o la soppressione
degli elementi comunisti in seno al governo di Sukarno". I "dissidenti"
guidavano una ribellione nelle isole periferiche dell'arcipelago indonesiano,
dove si trovavano quasi tutti i giacimenti petroliferi e gli investimenti
americani. Secondo due specialisti del Sud-Est asiatico, il sostegno dato
al movimento secessionista è stato "di gran lunga il più importante
e misconosciuto intervento militare clandestino dell'amministrazione Eisenhower"
(3). Dopo il fallimento della ribellione
che avvenne non prima di avere trascinato con sé quel che rimaneva
delle istituzioni parlamentari gli Stati uniti ricorsero ad altri metodi
per "eliminare" la principale forza politica del paese. L'obiettivo fu raggiunto
quando, con l'appoggio americano, il generale Suharto prese il potere nel
1965. I massacri, organizzati dall'esercito, liquidarono il Pki e sfociarono
su "una delle peggiori stragi del XX secolo", come ammise la stessa Cia,
paragonabile alle atrocità di Hitler, Stalin e Mao. Un rappporto dell'agenzia
di spionaggio americana ricordava che "il colpo di stato in Indonesia" fu
"sicuramente uno dei principali eventi del secolo" (4).
In pochi mesi circa 500.000 persone furono massacrate.
Eppure l'evento fu salutato con grande euforia. Per descrivere l'"impressionante
carneficina", il New York Times (5) parlò
di un "raggio di luce sull'Asia" e si complimentò con Washington per
essere rimasta dietro le quinte e non avere imbarazzato i "moderati indonesiani"
che purificavano la società e si apprestavano a ricevere il generoso
aiuto americano. Il settimanale Time (6),
salutò la "tranquilla determinazione" del generale Suharto e le sue
procedure "scrupolosamente costituzionali, fondate sul diritto e non solo
sulla forza", nel momento in cui assumeva la presidenza di un paese trasformato
in un "ribollente bagno di sangue". Il quale, nonostante le apparenze, costituiva
"per l'Occidente la più bella notizia dall'Asia negli ultimi anni".
L'Indonesia ritrovò i favori della Banca mondiale. I governi e le
società occidentali si precipitarono nel "paradiso degli investitori",
ostacolati soltanto dalla rapacità della famiglia Suharto al potere.
Per vent'anni il presidente indonesiano sarà descritto dal settimanale
britannico The Economist come "un moderato, in fondo un uomo benevolo",
nel momento in cui accumulava un numero record di omici e generalizzava
le pratiche del terrore e della corruzione a sistema di governo. il "pragmatismo"
dell'Occidente L'Occidente si è anche complimentato con Suharto per
i risultati economici del regime. Ma Clive Hamilton, uno specialista australiano
che ha contribuito a elaborare i modelli macroeconomici dell'Indonesia,
definisce le statistiche ufficiali "gravemente inesatte". Hamilton spiega,
ad esempio, che il tasso di crescita annua ufficiale del 7% è stato
inventato di sana pianta su ordine del governo, e non risponde affatto ai
calcoli degli economisti (7). La crescita
economica c'è stata davvero, ma grazie alle riserve di petrolio e
alla rivoluzione verde, due cose che "neppure la grande inefficienza del
sistema di corruzione ha potuto impedire". Tali vantaggi si sommano a quelli
derivanti dall'estrazione di altre risorse naturali e dal basso costo della
mano d'opera, sottoposta a livelli di sfruttamento che hanno impressionato
persino gli Stati uniti. Gli altri risultati economici sono un puro miraggio,
evaporato con la fuga degli investitori stranieri.
Il grosso del debito privato indonesiano è nelle mani di poche decine
di creditori. Il patrimonio della famiglia Suharto corrisponde più
o meno alla somma del piano di salvataggio deciso dal Fmi. Tale confronto
suggerirebbe un modo abbastanza semplice per superare la "crisi finanziaria",
ma naturalmente se ne scieglierà un altro... I 200 milioni di indonesiani
che non hanno debiti pagheranno, così come i contribuenti occidentali,
conformemente alle regole del capitalismo reale.
Nel 1975, l'esercito indonesiano invadeva Timor est, i cui abitanti si stavano
organizzando politicamente dopo il crollo del colonialismo portoghese (8).
Pur essendo informati che si preparava l'invasione, Stati uniti e Australia
non hanno fatto niente per impedirla. Richard Woolcott, ambasciatore australiano
a Jakarta, ha incoraggiato il suo governo a seguire un atteggiamento "pragmatico",
ispirato al "realismo alla Kissinger" (allora segretario di stato sotto
la presidenza di Gerald Ford). Woolcott spiegava che per l'Australia era
più vantaggioso che le riserve petrolifere di Timor orientale finissero
in mano all'Indonesia "invece che al Portogallo o a un Timor indipendente".
Quasi il 90% delle armi dell'esercito di Suharto proveniva dagli Stati uniti
e doveva servire soltanto all'autodifesa. Ma nessuno si è preoccupato
di questa restrizione. Washington ha addirittura intensificato i rifornimenti
di armi poco dopo averne annunciato la sospensione.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ordinò all'Indonesia
di ritirarsi da Timor est, ma invano. Come ha spiegato nelle sue memorie
Daniel Patrick Moynihan, all'epoca ambasciatore americano alle Nazioni unite,
il dipartimento di stato gli aveva dato istruzione di rendere l'Onu "completamente
inefficace, qualsiasi iniziativa prendesse": "Gli Stati uniti desideravano
che le cose andassero come sono poi andate e si sono comportati di conseguenza".
Moynihan ha precisato come sono andate le cose: in pochi mesi 60.000 timoresi
furono uccisi, "quasi la stessa percentuale di vittime che ebbe l'Unione
sovietica durante seconda guerra mondiale".
Ma il massacro è proseguito, raggiungendo la punta massima nel 1978,
grazie alle nuove armi americane fornite dall'amministrazione Carter. Il
bilancio totale sfiora i 200.000 morti; in proporzione i timoresi sono la
popolazione più massacrata dopo il genocidio degli ebrei. Nel 1978,
gli Stati uniti non erano più i soli a sollecitare i favori del regime,
Gran Bretagna, Francia e altri stati si erano aggregati. Sotto la presidenza
di Valéry Giscard D'Estaing, il ministro francese degli esteri, Louis
de Guiringaud, si recò a Jakarta per promuovere la vendita di armi
del suo paese. Giudicò la visita "soddisfacente da tutti i punti di
vista", precisando che la Francia avrebbe cessato di "imbarazzare" l'Indonesia
nei fori internazionali (9). Nei paesi
occidentali le proteste furono molto rare. E la stampa non si preoccupò
quasi mai di Timor.
Le atrocità nell'isola continuano, con il concorso degli Stati uniti
e dei loro alleati. Ma si moltiplicano le manifestazioni di protesta, anche
all'interno dell'Indonesia, dove dissidenti coraggiosi, di cui i nostri
media non parlano quasi mai, fanno pressioni sull'Occidente affinché
metta in pratica i bei discorsi sulla democrazia. Per imporre la fine di
questa tragedia non c'è bisogno di nessun bombardamento o sanzione:
il semplice rifiuto di collaborare alla "pacificazione" indonesiana può
bastare.
Nel 1989 l'Australia ha firmato un trattato con Jakarta per estrarre petrolio
nella "provincia idonesiana di Timor est", che secondo molti "realisti"
non avrebbe mai potuto avere un'economia funzionante e perciò era
inadatta all'autodeterminazione, nonostante questa fosse ribadita dal Consiglio
di sicurezza e dalla Corte internazionale dell'Aja. Il trattato è
entrato in vigore poco dopo che l'esercito idonesiano aveva massacrato altre
centinaia di timoresi riuniti per commemorare un precedente eccidio. Le
compagnie occidentali si sono associate nello sfruttamento petrolifero di
Timor est, senza per questo suscitare alcuna riprovazione.
Così sono andate le cose fino al giorno in cui il generale Suharto
commise i suoi primi errori...
note:
* Professore al Massachussetts Institute of Technology.
torna al testo (1) Inside Indonesia (Australia),
aprile-giugno 1998, e Business Week, primo giugno 1998.
torna al testo (2) In Harold Crouch, Army
and Politics in Indonesia, Cornell University Press, Ithaca, 1978.
torna al testo (3) Audrey e George Kahin,
Subversion as Foreign Policy, New Press, New York, 1995.
torna al testo (4) Central Intelligence
Agency, Directorate of Intelligence, "Intelligence report column, Indonesia,
1965, the coup that backfired", Washington, 1968.
torna al testo (5) The New York Times,
22 dicembre 1965, 17 febbraio 1966 e 19 giugno 1966.
torna al testo (6) Time, 15 luglio 1966.
torna al testo (7) Australian Financial
Review, 18 marzo 1998.
torna al testo (8) Vedere Noam Chomsky,
Powers and Prospects, reflexions on Human Nature and the Social order, capitoli
7 e 8, Pluto Press, Londra, 1996.
torna al testo (9) Cfr. l'articolo di
Roland-Pierre Paringaux, Le Monde, 14 settembre 1978.
(Traduzione di R.L.)
Noam Chomsky articolo tratto da: Le Monde Diplomatique
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