COMMUNITY DEVELOPMENT
Una strategia di intervento sociale con i "cittadini del mondo"

1. Lo Sviluppo di Comunità e la "Società Globale"

Christian P. Casparis, Hans Peter Meier-Dallach e Peter Schübeler sostengono in apertura dell’articolo che "lo sviluppo di comunità nelle periferie della "società globale" è una metodologia di intervento sociale di notevole successo". Tale affermazione viene suffragata da "numerosi casi di progetti già realizzati" e conclusisi in maniera positiva per le comunità interessate.

E in relazione a ciò si pongono la domanda se "questa modalità di intervento possa valere solamente per situazioni ‘disperate’ in aree di massima povertà oppure se questo approccio sia significativo anche per il mondo occidentale industrializzato". Alcuni casi del Centro e dell’Est Europeo sembrerebbero indicare una risposta negativa al quesito: l’esperienza di Chernobyl dove i cittadini hanno per lungo tempo atteso l’intervento dello Stato ‘paternalista’ sovietico e rimandato all’infinito la mobilitazione delle risorse esistenti in loco sembra dimostrare, secondo gli autori, piuttosto "una situazione di ‘debolezza appresa’" e l’assoluta mancanza di "conoscenza degli sforzi per risolvere questo tipo di problemi attraverso la metodologia dello sviluppo di comunità", che l’impossibilità di applicare lo Sviluppo di Comunità efficacemente.

Essi infatti insistono nel descrivere il Mondo Occidentale come società connotata dalla difficoltà di convivenza all’interno delle nostre città di realtà contraddittorie (quali zone di ricchezza e zone di emarginazione e devianza) che mal si conciliano e talvolta sfociano in fenomeni di violenza e in politiche di esclusione o espulsione. Questa situazione è frutto di una fiducia smisurata nell’idea di progresso che si sostanzia nella fine del lavoro per milioni di persone: "l’High Tech sta uccidendo una quantità sterminata di lavori mentre la popolazione e la domanda di lavoro è in crescita in ogni parte del globo. Facendo una rassegna dei documenti delle organizzazioni responsabili del futuro sviluppo (come ad es. i documenti della Comunità Europea) emerge l’agghiacciante realtà che la legge della società globale produrrà" fame e desolazione in parte del mondo.

Se il problema della disoccupazione su scala planetaria è un esempio della "globalizzazione delle relazioni" ad esso è possibile secondo gli autori, aggiungerne altri come la questione ambientale, la salute, il cibo, la finanza, le comunicazioni, la droga, la criminalità, e così via.

E in questo senso la domanda che ci dovremmo porre è " perché e come lo sviluppo di comunità possa non essere solo una modalità di intervento per le aree sottosviluppate deve essere attentamente indagato con l’obiettivo di diventare una strategia globale". L’opinione degli autori è che "possiamo considerare lo sviluppo di comunità come un’iniziativa consapevolmente opposta o al limite complementare alla filosofia del libero mercato considerata oggi come l’unica e assoluta forza di regolamentazione della società globale".

2. Lo Sviluppo di Comunità in città del Terzo Mondo - Due esempi

Le osservazioni di carattere generale e le convinzioni di ordine teorico presentate si sostanziano nella presentazione di due casi, che riportiamo integralmente di seguito.

Caso 1: Lo sviluppo del self-help all’interno di un grande insediamento spontaneo: Nylon, Douala, Camerun

Negli anni ‘50 cominciò l’occupazione abusiva di ciò che è ora diventata un’area paludosa di 700 ettari alle porte di Douala, popolata da più di 300.000 persone. I principali problemi: inondazioni regolari, mancanza di strade, di acqua potabile, di strutture igieniche e di trasferimento dei rifiuti, sicurezza. I leaders locali organizzarono 13 comitati di zona. Gruppi di "autodifesa" formati da residenti cominciarono a lottare contro il banditismo, e intraprendere "investimenti nelle risorse umane" per migliorare le fognature, i passaggi, i ponti e le più elementari strutture sociali: nel 1971 una "Commissione Centrale di Animazione" fu fondata allo scopo di coordinare e dare supporto alle attività in fase nascente e promuovere nuovi servizi (gestire una banca, mantenere una casa, tenere i rapporti con l’esterno, risolvere conflitti).

Il supporto delle Organizzazioni Non Governative (ONG) fu successivo e contribuì a porre sotto l’attenzione ufficiale l’area di Douala. Nel 1979 il Governo del Camerun raggiunse una accordo con la Banca Mondiale per intraprendere un programma di forte ristrutturazione e sviluppo dell’intera area. Tale programma si impegnò nel coinvolgimento continuo della comunità per le decisioni riguardanti le priorità da perseguire e l’implementazione delle strutture di base, assicurando così una buona riuscita di molte anche se non di tutte le azioni previste dal programma.

Caso 2: Il Progetto Pilota di Orangi, Karachi, Pakistan

Orangi è un’area a basso reddito di 8.000 ettari fuori Karachi popolata da 900.000 persone, prevalentemente abusive. Il Progetto Pilota di Orangi (OPP) prese avvio nel 1980 attraverso i supporti di un famoso scienziato sociale e finanziato attraverso una ONG dello stato pakistano.

Il lavoro non iniziò attraverso un’indagine, bensì con innumerevoli incontri di discussione con i residenti e i leaders locali. In questo modo, emerse come prioritaria l’esigenza di un programma di carattere sanitario. Fu così scelta la strategia "bottom up" (dal basso), per realizzare un sistema di fogne, che avrebbe in seguito obbligato il governo a collegare definitivamente la rete attraverso connessioni "top-down" attraverso una spesa complessivamente molto bassa.

La struttura fu realizzata con il coinvolgimento dei residenti organizzati in gruppi di vicinato (da 20 a 30 famiglie) che si mostrarono capaci di costituirsi in "unità di lavoro" auto-organizzate con interessi in comune. L’OPP offerse il supporto tecnico per quanto riguardò la progettazione e lo studio delle condizioni economiche di fattibilità, ma non diede alcun contributo economico per la realizzazione concreta della rete fognaria. Tutti gli investimenti economici furono reperiti "sul luogo" dalle organizzazioni di strada attraverso i contributi dei membri stessi. L’OPP non si immischiò nelle questioni interne delle organizzazioni locali, come la pianificazione del lavoro o la gestione del denaro.

Entro il 1993, 72.000 case su 90.000 erano provviste di latrine, 4.700 su 6.200 erano raggiunte dalla rete fognaria. L’autofinanziamento superò complessivamente i due milioni di dollari. La spesa dell’OPP non superò i 127.000 dollari. Il programma sanitario diede incentivo per successivi programmi, con il supporto dell’OPP, come quelli per l’assistenza alle donne, la produzione di reddito, l’ospitalità a basso prezzo e i programmi per la salute e per l’educazione. La mortalità infantile calò in maniera significativa.

Durante la fase di avvio del progetto, le relazioni con il Governo del paese non erano state incoraggianti per non dire decisamente di ostacolo. Sulla scia del successo dell’OPP, l’interesse e il coinvolgimento del Governo pakistano presenta un graduale incremento fino al punto che oggi tale progetto viene riconosciuto come "l’unica via fattibile" per garantire sviluppo alle aree a basso reddito. La metodologia dello "sviluppo di comunità" sta oggi trovando applicazione in altre aree della regione di Karachi e dell’intero Pakistan.

I casi descritti sono riportati nella pubblicazione di Peter Schübeler (1995) e da tali esperienze Schübeler fa derivare una teoria dinamica dei modelli partecipativi e analizza i punti deboli e di forza di ciascuna esperienza con particolare riguardo alla composizione dei partners impegnati nella realizzazione delle iniziative (cittadini, ONG, Governo ed impresa privata).

Secondo lo stesso Schübeler alcune indicazioni derivate dalle esperienza dovrebbero rappresentare i "principi per i managers delle città":

"1. Realizzare politiche adatte allo sviluppo e alla facilitazione del "self help" e di attività partecipative da parte dei cittadini e delle organizzazioni di base appartenenti alla comunità.

2. Sostenere le condizioni nelle quali possa essere praticato un "approccio di auto apprendimento" esperienziale.

3. Costituire speciali agenzie ad hoc per la realizzazione di programmi pilota per lo sviluppo di infrastrutture partecipative e/o riproporre i modelli realizzati con successo dalle ONG.

4. Decentrare la responsabilità delle funzioni organizzative relative alla sanità e all’ambiente, allo scopo di facilitare approcci di tipo "domanda-risposta" in tempo reale.

5. Introdurre maggior flessibilità e metodi di pianificazione e programmazione a breve termine.

6. Assicurare che la decisione di perseguire un approccio partecipativo venga accompagnata da un indispensabile immissione di tempo, competenze, risorse.

7. Promuovere lo sviluppo dei modelli partecipativi di organizzazione delle infrastrutture su vasta scala." (P. Schübeler, 1995)

3. Indicazioni pragmatiche per un Approccio di Comunità

La tesi degli autori si spinge fino ad allargare il campo di possibile impiego di tali principi fino a territori non solo in via di sviluppo ma anche nelle cosiddette "città globali" sostenendo l’ipotesi che "non ci sia altra via strategica di quella del coinvolgimento attivo del cittadino nello sviluppo della comunità". Infatti "la condizione di base per lo sviluppo delle comunità è molto semplice: ... , uno spazio che un gruppo piuttosto grande di persone consideri come proprio habitat. Tale gruppo rappresenta il fattore umano per qualsiasi approccio di Sviluppo di Comunità" e la strategia deve essere ‘locale’ e relazionale piuttosto che ‘globale’ o strutturale.

Tale strategia può essere praticata perché le comunità locali hanno un diretto interesse e una forte motivazione nell’affrontare e risolvere i propri problemi, sono in grado di apprendere forme di partecipazione e cooperazione, possono essere efficacemente monitorate e in questo senso possono rappresentare ‘laboratori di ricerca’ e di sperimentazione per modelli di intervento che vedano coinvolti partners collettivi (Stato, regione, Organizzazioni Non Governative -ONG-, cittadini singoli o associati).

L’ipotesi sul futuro che giustifica tale strategia è che "ci sono evidenti segnali che indicano, nei prossimi anni, il settore pubblico sempre più in una situazione di radicale crisi. I fondi stanno scarseggiando. Il libero mercato è improbabile modifichi le proprie strategie basate sulle famose ‘sei regole’ (Petrella, 1995) che tendono a limitare la funzione assistenziale dello stato. Quindi, lo Sviluppo di Comunità sembra possa rappresentare l’unica alternativa ad una visione cinica del futuro".

Un nuovo approccio viene richiesto sia alla comunità scientifica (dei ricercatori sociali) che ai governi nazionali e locali dei nostri Paesi e cioè di abbandonare l’attesa messianica di una nuova Grande Filosofia (tra Welfare e Libero Mercato) che possa essere in grado di risolvere i problemi sopraindicati e invece "di sperimentare e consolidare un approccio pragmatico che si sviluppi e realizzi operativamente all’interno di contesti locali e situazioni specifiche, nelle differenti parti del mondo, e costruisca soluzioni operative attraverso le risorse locali".

Questa strategia ritiene necessario che il Settore Pubblico si ritiri dal suo ruolo paternalistico e sia attivo nel ruolo di mediazione ed attivazione di sinergia tra gli altri attori, per es. i cittadini, le ONG, le imprese private, e i centri di ricerca. Il Settore pubblico in questa ipotesi dovrebbe prioritariamente preoccuparsi di creare un "clima" per lo sviluppo della comunità che si realizzerà in seguito attraverso la partecipazione dei cittadini e la loro autorganizzazione.

Ciò significa attribuire al settore Pubblico il compito di "stabilire le modalità relazionali strategiche tra i differenti attori" e cioè stimolare i cittadini ad esprimersi sui propri problemi, regolamentare l’impiego di agenzie di consulenza in rapporto ai servizi che i cittadini stessi non sono in grado di gestire, valutarne l’efficacia (rapporto tra obiettivi e risultati) e l’efficienza (rapporto tra costi, umani ed economici e benefici). In altri termini il Settore pubblico potrebbe promuovere nuove partnership con il mondo "privato" in un’ottica di acquisizione di un "valore aggiunto" sociale come potrebbe essere l’incentivo a partecipare alla soluzione di problemi collettivi (cfr. l’idea delle "imprese orientate al contesto"; Walser 1994). E infine il ruolo degli Istituti di Ricerca Sociale dovrebbe essere quello di focalizzare il loro interesse a questioni aperte e ad oggi di difficile soluzione quali la verifica e valutazione o l’analisi dei successi o dei fallimenti, in un’ottica di ricerca di nuove modalità procedurali e di misurazione.

Traduzione e adattamento a cura di Alberto Raviola

Riferimenti bibliografici presenti nell’articolo

  • - Boilève, Marianne (1995), Das einzige Heilmittel für den Menschen ist der Mensch, Le Monde dipl., nr.6/1 (German ed.), p.4.
  • - Bornschier, Volker, Lengyel, Peter, (Hrsg.) (1990), World Society studies, Volume 1, Frankfurt/New York: Campus Verlag; Notions of World Society, pp.3-15.
  • - Churilov, Nicolaj et al. (1995), The disaster of Chernobyl and Global Society, Report to the World Society Foundation, Zürich.
  • - Meier-Dallach, Hans Peter, Jacob Juchler (1993), Osteuropäische Entwicklungen und weltgesellschaftliche Perspektiven, Bern und Zürich, Schweiz. Nationalfonds/Stiftung World Society.
  • - Meier-Dallach, Hans Peter (1994), Urbane Indifferenz, in:Brandner et al. (Hrsg.), Kulturerlebnis Stadt, Wien:Picus, pp.81-94.
  • - Petrella, Riccardo, Die neuen Gesetzestafeln, Le Monde dipl., nr.6/1 (German ed.), p.2.
  • - Roskis, Edgar, Die verfänglichen Bilder der Armut, Le Monde dipl. nr. 6/1 (German ed.), p.6.
  • - Schübeler, Peter (1995), Partecipation and Partnership in the Management of Urban Sanitation, Paper delivered at the International Colloquium "Creative Habitat, Culture and Partecipation", Lausanne 27-29 Sept.
  • - Taylor, Peter, Christian P. Casparis (1994), Empowerment and Community Development, Zürich: Schweiz, Nationalfonds/British Council, final report on a Swiss-British project.
  • - Walser, Bruno (1994), Gegen das Nebeneinander!, Vision, nr.2, pp.42-49.