Contributi sul lavoro di strada come lavoro di comunità
SVILUPPO DI COMUNITA’ A LISSONE-MI (Stefano Carbone, ASSCOM)

Quattro anni fa nella periferia di Milano è iniziato un progetto che si colloca nel filone delle esperienze descritte questa mattina. E’ un progetto sperimentale di prevenzione al disagio attraverso lo sviluppo di comunità che la Regione ha proposto a Lissone, un comune di 30.000 abitanti nell’immediato hinterland milanese. Si tratta di un tappeto di palazzi che da Milano ininterrottamente arriva fino a Monza, senza soluzione di continuità tra un paese e l’altro.

L’idea del progetto era di capire se fosse possibile:

1. coinvolgere i servizi sociali in un lavoro con il territorio, visto che il servizio sociale è abituato a lavorare all’interno del proprio ruolo e all’interno del proprio ufficio, senza vedere il territorio come una risorsa possibile;

2. attivare in qualche modo il territorio per far fronte alle proprie esigenze e realizzare i propri desideri, attraverso l’animazione di comunità.

L’aspetto principale di questa "scommessa" era relativo alla capacità dei servizi di cambiare il proprio ruolo. E’ stato fatto un lavoro di ricerca partecipata per arrivare a definire i problemi e le risorse facendoli individuare dalla comunità stessa, nella convinzione che la gente si muove soltanto per risolvere i problemi che riconosce come propri, e non partendo dalle letture fatte da altri. La strategia è stata quella di intervistare in gruppo tutti quelli che in qualche modo erano legati alla questione del disagio, dai consigli di circolo alle parrocchie, alle scuole, agli obiettori di coscienza, insomma tutte quelle realtà associative, istituzionali e informali che in qualche modo fossero a contatto diretto con le situazioni più problematiche. Il progetto chiedeva di partire dal piano istituzionale ed associativo per poi arrivare alle situazioni di bisogno.

In questo modo si sono raccolte molte informazioni sul disagio, e si è cercato di coinvolgere direttamente la popolazione rispetto a questo intervento.

La prima fase del progetto si è conclusa con la formazione di quello che è stato chiamato il "Gruppo Guida". L’idea era che da questa prima fase del lavoro nascesse un gruppo formato da soggetti associativi, istituzionali o anche informali del territorio, disposti a fare qualcosa, con l’obiettivo condiviso di prevenire il disagio. L’importanza di questo elemento della condivisione degli obiettivi è già emersa negli interventi precedenti, e di fatto è l’unica maniera che permette di mettere a lavorare insieme gente diversa, soprattutto il pubblico col privato istituzionale e con il mondo associativo. Questa collaborazione è difficile perché ci sono problemi di linguaggio, di obiettivi e di valori non condivisi, e dietro queste difficoltà molte volte ci si nasconde e non si riesce ad individuare mete raggiungibili, anche molto semplici, per le quali basterebbe trovare modalità d’intervento comuni.

La prima nota interessante è quindi la nascita di questo Gruppo Guida che sceglie, indirizza, si attiva su quelle che possono essere le azioni verso le quali la comunità si orienta in termini di prevenzione. Ovviamente c’è anche l’idea di condividere le risorse, cioè che ciascuno, a partire dalla propria associazione, ne metta in campo l’apporto specifico. Può essere che, rispetto ad alcuni temi, alcune associazioni non possano fare assolutamente nulla se non dare un sostegno morale, altre invece possono mettere a disposizione i propri locali, il tempo di alcuni associati oppure le proprie risorse economiche.

Mi sembra interessante il fatto che, sul tema della prevenzione al disagio, il Gruppo Guida decida di lavorare sul fronte della scuola e del territorio, per cercare di migliorare il rapporto tra questi due contesti che di solito sono molto scollegati. In particolare la scuola è molto chiusa, molto autonoma e poco legata al territorio.

Il Gruppo Guida ha deciso di intervenire nel quartiere popolare LS1, perché è il posto in cui ci sono tutti i bambini in affidamento e in cui si concentrano i problemi di devianza. In realtà ai Lissonesi fa comodo avere un quartiere-ghetto in cui identificare tutti i problemi, in modo da scaricare lì anche le proprie colpe con una facile scusante.

Un aspetto interessante è che a Lissone c’è un sindaco della Lega, ed i servizi sociali temevano che un sindaco leghista non avrebbe mai accettato di sostenere un lavoro in un quartiere di forte immigrazione non solo meridionale ma anche extracomunitaria. Ebbene, il Gruppo Guida è riuscito a fare da "altro polo", in quanto, proponendo questo progetto, ha "stanato" l’amministrazione, costringendola ad appoggiarlo in pieno, o ad assumersi di fronte a tutta la collettività la responsabilità di rifiutarlo. E’ stata una mossa che in questo caso ha funzionato, anche perché adesso il sindaco leghista è in conflitto con i suoi elettori per questo motivo. Ciononostante, dato che personalmente ritiene che andare a fare animazione nel quartiere sia una buona strategia, ha accettato di sostenere l’intervento.

E’ quindi iniziato questo lavoro, con l’idea che risolvere i problemi dall’esterno è ancora più difficile che dall’interno. Si è dato inizio a un lavoro di animazione nel quartiere, cercando in primo luogo di trovare donne e uomini disposti a tentare di fare qualcosa. La mia collega ed io abbiamo iniziato a sondare il terreno, a intervistare, a parlare con la gente, a cercare di capire se fosse possibile intervenire. Alla fine abbiamo fatto una proposta, affiggendo cartelli che dicevano: "Sarebbe bello fare qualcosa per il quartiere, invitiamo tutti e tutte a partecipare". Così abbiamo organizzato una prima assemblea infuocatissima, con grida, con tanta aggressività e rabbia, perché i partecipanti ci identificavano con quelli del Comune o dello IACP, proprietario e colpevole nei loro confronti di grosse inadempienze. Tuttavia al termine della prima assemblea siamo riusciti ad individuare otto persone con cui discutere il tipo di attività da fare.

A questo punto abbiamo iniziato il nostro lavoro. In un primo momento è consistito proprio nel fatto di creare un clima di ascolto e di comunicazione tra queste persone, che erano a un tale livello di frustrazione e di rabbia da non riuscire a riconoscere l’altro come interlocutore, anche quando si dicevano le stesse e identiche cose. Quindi, il primo intervento importante, che ha dato dei risultati, è stato sulla comunicazione.

A monte, l'obiettivo sostanziale che ci si è dati era la classica animazione di comunità. Da una parte, riguardava l’assunzione di responsabilità rispetto alle proprie azioni, dato che la deresponsabilizzazione è molto presente in queste situazioni. Dall’altra parte si è lavorato sulle abilità di risposta, sull’essere in grado di dare le risposte adeguate a certe situazioni. Il livello di organizzazione era nullo, le esperienze in merito (tipo capi-scala, riunioni di scala, ecc.) erano cose dimenticate da una decina d’anni, quindi si trattava di riprendere questo discorso a partire da momenti immediati di convivenza civile e sociale.

Allora è accaduta una cosa importantissima, che ha dato la misura della differenza tra donne e uomini, sempre sottovalutata all’interno del lavoro sociale. Gli uomini hanno abbandonato presto questo gruppo perché hanno visto che non era in grado di danneggiare lo IACP come loro auspicavano, e questa era l’unica motivazione della loro presenza nel gruppo. Invece siamo riusciti a lavorare molto con le donne, che partivano dal lavoro di cura dei luoghi dove vivono. Così il primo risultato visibile che siamo riusciti a ottenere è stato proprio un cambiamento simbolico di senso rispetto al lavoro di pulizie dei caseggiati, che queste donne hanno fatto nonostante nessuno le pagasse. Prima, siccome avrebbero dovuto farle altri, nessuno le faceva e quindi le case restavano sporche. A questo proposito è molto significativo il fatto che mentre prima gli uomini dicevano: "Mia moglie non pulisce perché è una signora", questa frase si è trasformata in "Signora è chi tiene pulita la propria casa".

Questo cambiamento è avvenuto attraverso una grande conflittualità con gli uomini, i quali si arrabbiavano per il fatto che le loro mogli si impegnassero in compiti che riguardavano altri. Al contrario le donne hanno acquisito autorità, mettendo in campo il loro sapere, consistente appunto nel tenere pulito il luogo in cui si vive, quindi hanno dimostrato la capacità di identificazione anche attraverso il modo col quale si tiene pulita la propria casa. Lo stesso vale per la cura, l’interesse e l’attenzione per la crescita dei propri figli. Mentre gli uomini dicono che deve occuparsene la scuola o il Comune, le donne preferiscono partire da quello che sanno fare, cercando di far nascere delle iniziative. Il percorso è stato concluso con una grande festa, per rendere visibili questi lavori fatti nel quartiere.

Sostanzialmente adesso le grandi direzioni di lavoro sono due:

  1. Organizzazione all’interno del quartiere, cioè rielezione dei capi-scala e riunioni periodiche di scala E’ difficilissimo convincere queste persone che è possibile ritrovarsi, che è possibile ascoltare gli altri. Il tentativo è di individuare, al termine di questi incontri, un obiettivo anche minimo ma raggiungibile, che quindi faccia sperimentare il successo. Il problema è che tutti ci hanno provato una volta, tutti in piena buona fede hanno fatto dei tentativi, ma questi sono falliti e dunque nessuno più ci crede. Si tratta proprio di tentare ancora una volta. Questa modalità che consiste nell’individuare un obiettivo piccolo, raggiungibile, che può essere anche solo tenere chiusa una porta per un mese, permette di sperimentare il successo per poi darsi un obiettivo più ambizioso. In effetti alcune scale sono riuscite a fare grossi passi avanti, come imbiancare, darsi dei turni di pulizia, e comunque modificare anche esteticamente il luogo in cui si vive.
  2. Autogestione, da parte dei proprietari delle case IACP, per la manutenzione ordinaria, che è un’altra operazione difficilissima perché richiede un basso livello di morosità e soprattutto l’accordo tra le persone. Vuol dire fidarsi di un comitato, fidarsi del proprio vicino, e quando si tratta di duecento famiglie che non si sono mai viste, che non si conoscono, questa cosa diventa sicuramente molto complicata.

Ovviamente sul versante del lavoro con il Comune e con lo IACP, spesso si cozza contro un muro di gomma. E’ anche vero che a volte, a furia di premere e soprattutto a furia di avanzare delle proposte, soprattutto se concrete, gli interlocutori restano spiazzati, perché così evidenzi la loro inadeguatezza nei tuoi confronti. Quello che si sta verificando adesso a Lissone è che lo IACP si sente in colpa e avanza delle proposte di accordo con il Comune. Noi stiamo lavorando per sviluppare la capacità progettuale, soprattutto delle donne e dei pochi uomini che fanno a pieno titolo parte del gruppo, che si è dato il nome di "Gruppo Speranza", e per aumentare la loro capacità di proporre e di mettere alla prova le proposte realizzabili.

Ecco un esempio concreto. Tra due settimane ci sono le elezioni comunali, e questa volta tutti i candidati a sindaco riconoscono nella comunità di quartiere un soggetto a cui andare a chiedere voti e a cui fare le proprie proposte. Dunque domani sera abbiamo questo incontro, con la presenza di tutti e a quattro i candidati a sindaco, ed è la prima volta che ciò avviene. Il fatto interessante è che gli abitanti hanno deciso di anticipare i candidati, facendo loro delle proposte e chiedendogli di pronunciarsi in merito.

Un altro elemento significativo è l’attenzione all’aspetto educativo rispetto ai ragazzi e alle ragazze del quartiere. Come dappertutto, immagino, i quartieri popolari sono un coacervo dei problemi più diversi, le cui cause si perdono chissà dove. La matassa si dipana cercando di tirare pochi fili alla volta, anche se non è una cosa facile. L’attenzione ai ragazzi e alle ragazze è maturata all’interno del "Gruppo Speranza", sia perché purtroppo è morto un ragazzino che, rubando una bicicletta, è finito sotto una macchina, sia perché alla lunga ci si chiedeva concretamente cosa si potesse fare dall’interno del quartiere. Visto che molte decisioni d’intervento dipendono da fuori, non si ha al momento il potere necessario e sufficiente per modificare la realtà. Attorno a questo desiderio di attenzione per la crescita dei figli, si sono proposti dei volontari, ma soprattutto dei residenti. Con molta soddisfazione da parte nostra anche due uomini hanno manifestato questo desiderio di crescita sana dei figli. C’è stata un’attivazione di iniziative interessanti. La più classica è quella del doposcuola, che è estremamente faticoso, ma che ha il grosso vantaggio di coinvolgere i genitori.

Questo è un passaggio in più rispetto agli interventi di strada classici. Noi abbiamo la fortuna di coinvolgere i genitori, che sono l’anello mancante in questo tipo d’iniziative ed è quello più difficile, perché di solito i genitori non si curano dei figli e non si fidano dell’istituzione scolastica. L’attività è iniziata nel luogo che i ragazzi chiamano "il Locale", che adorano perché è pensato per loro. E’ nato il gruppo di studio per la patente, perché nel quartiere una delle situazioni più classiche è che questi ragazzi, bocciati a scuola, spendono due milioni per avere la patente, vengono bocciati, e allora vanno nel Meridione e se la comprano. Il tentativo è stato quello di andare incontro all’esigenza di "empowerment", che consiste nell’aumento di capacità e competenze. Questi ragazzi non sono affatto stupidi, non sono capaci di studiare perché nessuno li ha mai motivati o aiutati, ma poi per la patente sono in grado di utilizzare notevoli risorse.

La domenica siamo riusciti a far partire con un gruppetto di genitori un’animazione in quartiere; i ragazzini giocano a pallone o a pallavolo, e ci sono degli adulti che finalmente scendono in piazzetta a giocare con loro. Queste sono le cose a cui stiamo cercando di dare continuità, sia all’interno del quartiere, sia fuori, poiché i ragazzi devono anche imparare a uscire e a relazionarsi con la gente fuori del quartiere. Infatti essi sanno perfettamente come muoversi nel loro ambiente; il problema è che fuori a volte sono "non competenti", vengono ripetutamente bocciati o sgridati, poiché ci sono molti comportamenti che all’esterno non funzionano.

Oltre a questo, abbiamo organizzato un corso di 150 ore con gli adulti per il conseguimento della terza media, che sta funzionando abbastanza bene. Rispetto ai ragazzi più grandi, a lungo abbiamo pensato come e cosa fare con loro, senza riuscire a trovare un’attività, a parte i corsi per la patente.

Ci siamo trovati di fronte ad un’altra grossa questione, che è la frattura fra gli adulti ed i ragazzi. Quando gli adulti parlano dei problemi degli adolescenti, in realtà parlano dei propri problemi con loro. Quindi, proprio per una questione di potere, sono sempre gli adulti a definire qual è la realtà, quali sono i problemi, e i ragazzi sono messi dalla parte del torto. Siamo riusciti a fare da mediatori, quindi ad aiutare i due soggetti a entrare in relazione. E’ necessario arrivare al riconoscimento delle reciproche esigenze per riuscire a contrattare degli obiettivi anche minimi di convivenza. In questi incontri di mediazione i più competenti, i più corretti sono sempre i ragazzi, che in queste situazioni si comportano in maniera estremamente attenta e rispettosa. Il vero problema sta nell’aiutare gli adulti a capire che con questi ragazzi si possono iniziare a fare molte cose, ad esempio l’autogestione di un locale all’interno del quartiere.

Questo è l’unico percorso che, a mio parere, permette di cambiare la situazione: dare degli spazi e dei momenti di autogestione, in cui i ragazzi sono liberi di scegliere cosa fare assumendosi la responsabilità degli eventuali danni. Dobbiamo lasciare a loro degli spazi in cui non ci sia il nostro controllo costante, salvo un minimo di contrattazione iniziale.

Concluderei concordando con l’affermazione di Roberto Maurizio, relativa all’esigenza di investire in questi ambiti perché a livello economico "rende". Un bambino in affido in comunità costa settanta milioni all’anno a un Comune, cioè quanto un intero progetto di animazione della stessa durata, che vede però coinvolti un maggior numero di soggetti in maniera più o meno diretta.

E’ vero che l’animatore deve pensare a "scomparire", cioè a non essere più indispensabile per la situazione, ma è necessario sostenere questi processi fino a quando non sono realmente autonomi.