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GLI HOMELESS TRA ESCLUSIONE SOCIALE ED ISTITUZIONALIZZAZIONE

Presentiamo qui una comunicazione presentata al VII Congresso Mondiale di W.A.P.R. (World Association For Psycosocial Rehabilitation) dal titolo “Riabilitazione psicosociale: incoraggiare le diversità e difendere l’uguaglianza”.
Il convegno, avvenuto a Parigi il 7-10 maggio scorsi, prevedeva un’area tematica su senza fissa dimora, precariato e disoccupazione

Uno stereotipo molto diffuso identifica i Senza Dimora, che da qui chiameremo homeless, con qualsiasi soggetto che non abbia una casa dove abitare, per potere soprattutto dormire con la minima protezione di un tetto.
L’immediato effetto di questo stereotipo è l’ambigua e fuorviante equazione dei senza casa con i senza dimora. Equivoco, questo, che sta generando gravi malintesi nelle strategie di valutazione ed accoglienza, in rapporto alle risorse di integrazione, dei flussi di migrazione in atto tra il Sud e il Nord del Mondo e, specialmente tra l’Est e l’Ovest nel Nord del Mondo.
L’essere senza tetto, infatti, rimanda ad una circostanzialità di casi che possono essere del tutto fortuiti. Dopo un terremoto la popolazione colpita rimane più o meno transitoriamente senza tetto, anche se il più delle volte molto lungo, ma non diventa necessariamente homeless. Può accadere, cioè di essere o rimanere senza casa per svariate e deprecabili ragioni: ma ciò non significa perdere il diritto di averle.
Gli homeless oltre che non avere una casa né sovente nemmeno un tetto, non hanno più un’identità anagrafica. E’ stata loro tolta la residenza per il fatto che è decaduta, oppure perché è stata fatta decadere, oppure perché hanno perso la capacità di mantenerla o non sono più in grado di usarla.
Nella stragrande maggioranza dei casi essi hanno perso la garanzia di una residenza anagrafica che consenta loro l’accesso ai Servizi per fruire anche delle più elementari risposte ai loro bisogni: un certificato di nascita, ad esempio.
Nonostante l’insorgenza, e con essa l’accentuarsi della visibilità qualitativa e quantitativa dei loro numerosi ed interconnessi problemi, sono istituzionalmente degli “Utenti Invisibili”.
Nonostante tale insorgenza, che sta acquistando una significatività senza precedenti nella società italiana e nel più ampio contesto europeo, anche a causa dell’intrecciarsi nell’ambito comune dell’emarginazione di homeless e di immigrati soprattutto clandestini, che finiscono con condividerne gli stessi dilemmi, seppure per motivi e competenze diverse, la complessa realtà dei bisogni degli homeless ha come prevalente e sostanziale sbocco l’aiuto e la solidarietà: aiuto e solidarietà però non sono una soluzione sostituibile al Diritto, ma una risposta che evoca l’intero potenziale di arbitrio e di violenza simbolica che può innescarsi quando si eclissa il diritto di cittadinanza per far posto alla più totale casualità normativa.

Il risultato di tutto ciò prospetta il paradosso degli homeless: quello cioè che tenteremo di spiegare e che li vuole o riduttivamente rappresentati come esclusi oppure che pensa di chiudere il cerchio attorno alla radicalità estrema della loro emarginazione attivando per loro solo spazi istituzionalizzati, centralizzati o diffusi.
In effetti, la rappresentazione degli homeless attraverso le categorie tradizionali di definizione dell’esclusione sociale non può soddisfare né la comprensione fenomenica né tanto meno l’attivazione di pratiche adeguabili al loro statuto per almeno tre diversi ordini di motivi tra loro concatenabili:

  • Il primo dato dalla progressiva identificazione linguistica e procedurale del concetto di povertà con quello di esclusione sociale
  • Il secondo è dato dal fatto che la definizione di esclusione sociale, declinabile su varie categorie di soggetti e gruppi a bassa contrattualità sociale, non rileva la specificità degli homeless
  • Il terzo perché la nozione stessa di esclusione sociale è da sottoporsi ormai ad una revisione critica dal momento che, forzando la rappresentazione cognitiva di una situazione, da una parte confonde e rimuove il suo contenuto processuale e dall’altra finisce con l’alimentare l’opposizione tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra “in e out“, rendendo un pessimo servizio non solo agli homeless ma a tutta la popolazione definibile a bassa contrattualità sociale e ai soggetti del tutto decontrattualizzati

    Viene qui proposto per gli homeless – e solo per convenzione linguistica - il concetto di esclusione sociale estrema. Ciò con la finalità di:

      1. Elaborarne la loro situazione non come uno stato fisso, ma come l’esito di una traiettoria psicosociale scandita da fratture progressive che nell’abbandono dato dall’isolamento sociale della strada hanno la loro condizione, e che il dominio vorrebbe irreversibile.
      2. Significarla per darci una prospettiva strategica soprattutto per rompere lo stereotipo della irreversibilità della loro condizione.
      Se è vero infatti che gli homeless sono anch’essi, seppure solo in parte, riconducibili a quella quota di popolazione definibile in termini di underclass, e in quanto tali inutilizzabili dall’accumulazione e perciò annientabili, è anche vero che questa lettura da una parte chiama in causa l’etica delle procedure che definiscono la legittimazione stessa delle rappresentazioni consolidate, dall’altra i limiti del welfare che, continuando a intervenire su categorie e non su persone, come molto bene descrive Pieretti, finisce con l’alimentare perversamente l’esclusione sociale estrema degli homeless

    Gli homeless propongono una soggettività ineducabile alle medesime opportunità offerte dal welfare. Se ciò è vero, il quesito che pongono è duplice: è perché non possono o perché non vogliono farsi includere?
    In ambedue i casi la risposta non può comunque essere né elusiva né economicistica, ma diventare antropologica. La connessione tra sistema sociale e sistema psichico investe cioè la spiegazione del perché la situazione degli homeless non sia interpretabile solo come un processo di povertà anche assoluta, ma piuttosto il perché un individuo diventi povero in generale e, nello specifico fino alla discapacitazione, come la definisce Sen, che è tipica della diseguaglianza nelle forme di povertà assoluta assunte dagli homeless.

    La maggiore complicazione che propone la situazione degli homeless deriva infatti dall’estrema diversificazione rappresentativa con cui vengono identificati nelle varie nazioni e nelle varie regioni e che non agevola una lettura omogenea dei loro bisogni né di conseguenza strategie omogenee di protezione sociale e di riabilitazione.
    Nel 1999, l’O.N.G. FEANTSA, emblematicamente rilevava attraverso l’osservatorio europeo attivato per conto del UE.:

  • 15 milioni di persone mal alloggiate e obbligate a vivere in alloggi sovrappopolati e di qualità nettamente insufficiente.
  • 2,7 milioni di senza fissa dimora ridotti ad oscillare tra amici, parenti, camere ammobiliate affittate per un breve periodo, centri di accoglienza, di pronto intervento e la strada.

    Le variabili di questa lettura, da una parte impediscono di caratterizzare quantitativamente l’esclusione sociale estrema degli homeless, dall’altra sottintendono una concezione del fenomeno soprattutto in termini di esclusione abitativa come effetto deficitario sia di politiche economiche che di politiche occupazionali e di pressione fiscale.
    Di fatto la condizione degli homeless, come si è accennato, non è riconducibile unicamente ad un paradigma causale socio-economico.
    Se è vero infatti che l’attuale andamento della questione sociale sta riproponendo un alto rischio diffuso di vulnerabilità è anche vero che per gli homeless si è già sfondato il livello della vulnerabilità medesima, e che propongono perciò un paradigma interpretativo dove la condizione psichica del loro stato diventi incardinante per la negoziazione della loro difesa attiva.

    Per la condizione degli homeless, accanto ad uno stretto intreccio con la scomparsa delle vecchie relazionalità occupazionali tipiche dell’organizzazione fordista del lavoro, e che alimentano l’epicentro del rischio di esclusione sociale di fasce sempre più ampie di precariato lavorativo legato all’organizzazione flessibile dei mercati, si strutturano realtà e rappresentazioni sempre più definibili in termini di isolamento sociale, che connota il quadro di personalità di tale situazione.
    Questo isolamento certamente si snoda attraverso la rottura dei legami con gli assi portanti dell’inclusione, la casa e il lavoro, ma è precisamente dalla rottura dei legami relazionali (familiari e comunitari) mediati attraverso il lavoro e la città che cortocircuita la loro soggettività, si deterritorializza e diventa nomade.
    Quanto questo stato sia simile ad uno stato psicotico, indipendentemente da quanti psicotici formali siano stimabili tra loro, è facilmente immaginabile.
    Ciò ha determinato l’odioso conflitto di competenze tra psichiatria ed homeless che, rifiutandosi reciprocamente, prospettano un possibile nuovo terreno di raccordo per il loro disagio psichico, non riconducibile più a trattamenti d’emergenza e prevalentemente farmacologici come bene si evidenzia dalla ricerca di D’Avanzo.
    Un terreno cioè, di ricomposizione del loro disagio psichico in sé e strutturalmente psichiatrico, configurabile attraverso una ridefinizione delle pratiche di salute mentale per come dovrebbero essere e come non sono a livello nazionale, regionale e soprattutto locale dove è più forte l’incapacità di coniugare tali pratiche con le culture dei territori.
    E’ dalla crisi del welfare locale che si snoda infatti il problema homeless ed è qui che deve ricostruirsi attraverso azioni partecipate di sviluppo programmatico, di certo non solo sanitarie, da cui possano recuperare empowerment non solo gli homeless, ma tutti i soggetti deboli, a bassa contrattualità sociale o decontrattualizzati. La situazione di homeless da una contrazione pressoché assoluta della capacità di accesso ai servizi, se da una parte dimostra la radicalità e la difficile traslazione con il loro isolamento, dall’altra denuncia però il rifiuto ad un’accessibilità adeguata alla loro morfologia da parte dei servizi soprattutto di salute mentale, in questo senso obsoleti e strategicamente inadeguati di fronte al rischio a cui è oggi sovraesposta la salute mentale come bene comune di fronte alla ricomponibilità dei territori (Frattura 1999) attraverso nuovi e sostenibili organigrammi del governo locale.
    Diritto al lavoro e diritto alla casa, seppure cardini della cittadinanza come riabilitazione, rischiano in sostanza di diventare una pletora, quand’anche non attivino controreazioni con esiti mortali, come è successo spesso nella nostra esperienza, se non sono supportati da reti relazionali soprattutto informali sostenute economicamente attraverso i governi centrali, dai governi regionali e locali.
    Il fatto è che l’identificazione progressiva tra povertà ed esclusione sociale, tipica dei Paesi sviluppati, pur diversificandosi, si è inserito anche nella ricerca scientifica, soprattutto negli anni novanta, distruggendo quel capitale simbolico sempre più frantumato dal dominio, presente nelle povertà tradizionali e rimandandoci, in questo senso economicisticamente a una visione soprattutto materiale dei percorsi di esclusione. Tale visione è quella che sta violentemente proponendosi nei processi di razionalizzazione tipici della globalizzazione e che sta dissolvendo le forme della politica attraverso la prevalenza assoluta dell’economia.
    La stessa Comunità Europea per definire i gruppi più svantaggiati presenti all’interno dei paesi membri nel primo e nel secondo programma di azioni socio-assistenziali (1975-80 e1984-88) ha utilizzato la nozione di povertà e nel terzo (1989-94) quello di esclusione sociale.
    Di fatto però, la povertà simbolica, che connota la centralità affettivo-relazionale nei legami che si rompono nelle traiettorie di vita degli homeless, evoca accanto al limite di tolleranza anche psichico imposto dalle competenze indispensabili per rimanere socialmente inclusi, la necessità di riformulare un’interpretazione veramente organica della situazione.
    Occorre un approccio dinamico e processuale allo studio della situazione degli homeless che superi lo stadio di colpevole confusione che esplode tutte le volte che si attivano confronti analitici e progettuali sulla loro situazione. Occorre superare la scissione che anche in ambito di ricerca ha sempre accuratamente diviso i concetti di diseguaglianza, di povertà e di esclusione sociale.
    Per gli homeless, ma anche per strati sempre più a rischio di traiettorie caratterizzate da rotture progressive dei legami di tenuta individuale e sociale, sempre più messi a dura prova dal ricomparire della vulnerabilità sociale nel Nord del Mondo.
    Con eccezionale lucidità esplicativa Castel ha coniato un neologismo per descrivere e interpretare operativamente questo approccio. E’ il concetto di désaffiliation.
    Cos’è la Désaffiliation? Teoricamente è la fase finale di un profilo sociologico che focalizza i passaggi involutivi della traiettoria sociale prodotti dalla ricomparsa, dopo un secolo, della vulnerabilità sociale e rilevata nel suo studio sulle “metamorfosi” della questione sociale. Il percorso di questo profilo parte da uno stato (A) di integrazione caratterizzato da integrazione lavorativa e inserimento sociale, rileva uno stato (B) di vulnerabilità caratterizzato da precarietà lavorativa e da fragilità relazionale e infine propone uno stato (C) di désaffiliation caratterizzato da assenza di lavoro e da isolamento sociale.
    A
    INTEGRAZIONE:
    - Integrazione lavorativa
    - Integrazione sociale
    B
    VULNERABILITA’:
    - Precarieta’ lavorativa
    - Fragilità relazionale
    C
    DESAFFILIATION:
    - Assenza di lavoro
    - Isolamento sociale
    Il carattere dinamico e processurale del percorso che culmina nella désaffiliation, consente, soprattutto considerando le caratteristiche dei due vettori che lo combinano, di ipotizzare e sperimentare pratiche che ritraducano il loro isolamento sociale in una più fluida transazionalità che demolisca il pregiudizio di irreversibilità del loro stato, simile per certi versi a quello della inguaribilità nella schizofrenia. Da un punto di vista transferale l’isolamento sociale inteso come disturbo o come tratto disturbato della personalità è infatti tecnicamente agganciabile con definite strategie e con specifici setting che, nel nostro ambito di lavoro stiamo sperimentando e alle quali rimandiamo per altre occasioni.
    Ritornando all’esclusione sociale e al suo rapporto concettuale con la povertà, va comunque detto che la nozione di povertà, soprattutto quella classicamente riferibile ai gap materiali “permette di circoscrivere diversi insiemi di popolazione caratterizzati in un contesto spazio temporale definito, da problemi di deprivazione nel sottosistema delle risorse economiche ma evidentemente nulla dice sul processo che ha favorito l’insorgenza di tali situazioni, sulla loro percezione e sugli eventuali handicap che segnano la biografia del soggetto” (Bergamaschi 1999).
    In sostanza la nozione di esclusione sociale:

      A. E’ progressiva come nozione rispetto alla riduttività economicistica della nozione di povertà per definire la situazione degli homeless.
      B. Risulta insufficiente e superata dalla nozione di désaffiliation nel momento in cui staticizza in termini rigidamente duali, come vedremo, il rapporto fra inclusione ed esclusione soprattutto per quanto concerne la riabilitazione possibile per gli homeless.

    Rosanvallon (1997) in particolare imputa alla nozione di povertà l’incapacità di spiegare la nuova questione sociale che non si colloca più ai margini della modernizzazione, ma al suo centro. Touraine (1992) ha descritto questa nuova dislocazione sociale come un passaggio da una società verticale dove il problema era quello di essere in alto o in basso, “up or down”, ad una orizzontale dove il problema è quello di essere “in or out”, fuori in un vuoto sociale: sarebbero la fragilità dei legami sociali e la mancanza di integrazione, gli elementi caratteristici della nuova situazione. In essa Touraine e Forrester (1996) vedono, attraverso l’analisi dell’attuale mercato del lavoro, il configurarsi dello spettro di una società duale in cui le differenze non si darebbero più in termini di diseguaglianza, ma che opporrebbero coloro che sono dentro la società e quelli che ne sono fuori.
    “La nozione di esclusione permetterebbe da una parte di rendere conto della multidimensionabilità e comulatività degli handicap che caratterizzano sempre più le nuove situazioni di integrazione, non riducibili alla mancanza di risorse economiche e nello stesso tempo di coglierne il carattere dinamico” (Bergamaschi 1999).
    La nozione di désafilliation di Castel non rimanda però solo alla dimensione economica o alla densità relazionale ma si riferisce simultaneamente ai due vettori combinati. In questo senso è per il nostro discorso sicuramente più avanzata.
    Qui il lavoro risulta vettore di integrazione non solo in quanto attività retribuita, ma in quanto valore sociale aggiuntivo di identità e di appartenenza: è precisamente nella caduta simultanea e interattiva di questi due fattori che decollano le derive biografiche degli homeless. Per altro Castel (1996), giustamente a parere mio, ritiene che dobbiamo liberarci dal concetto di esclusione perché nasconde un problema reale, nel momento stesso in cui tenta di definirlo. “In altri termini l’esclusione non è una nozione analitica e non permette di condurre indagini puntuali dei contenuti che essa vuole comprendere”. Ragionare in termini di esclusione finisce cioè col proporre una definizione puramente negativa di coloro a cui è applicata attraverso una rappresentazione umiliante che nega le domande reali delle persone che intende descrivere e la loro capacità di essere soggetti. Parlare di esclusione è, piuttosto, domandarsi come includere o ri-includere senza comprendere l’esperienza degli “esclusi”, le loro aspettative il loro desiderio di essere riconosciuti per quello che sono e non solamente per quello che non sono (Wievorka 1996). Dalla nozione di esclusione sociale emerge una medesima logica binaria nella costruzione dell’oggetto: da una determinata variabile (assenza di casa, disoccupazione di lunga durata, handicap e così via), il soggetto viene definito unicamente in rapporto ad essa e collocato di volta in volta al di qua o al di la del confine che separa l’inclusione dall’esclusione: sempre all’interno di una logica che rimane rigidamente binaria.
    Ciò che conta è la ricostruzione del continum delle posizioni che collegano gli in e out e, soprattutto, i meccanismi attraverso i quali gli in producono gli out: la ricostruzione operativa di questi collegamenti è ciò che consente di capire cosa si produce nella dimensione homeless, come ritradurla e soprattutto il potenziale di estendibilità a tutta la popolazione che è esposta alla possibilità di medesime derive. Ciò che oggi diciamo per gli homeless è un ragionamento paradossalmente estendibile a tutto il precariato nel momento in cui crollasse anche per lui la protezione delle reti primarie che si frantumano nelle traiettorie degli homeless. Integrati, vulnerabili e désaffilies, appartengono allo stesso insieme, la cui unità è altamente problematica (Castel 1996). La lotta all’esclusione sociale dirottando l’analisi della situazione sociale sulle situazioni limite, finisce per sostituirsi alla lotta alle diseguaglianze e alle politiche ridistributrici del reddito, con Gorrieri (1989). Tutto ciò propone la convinzione che attribuendo un valore secondario alla diseguaglianza, il concetto di esclusione, attraverso la sua rappresentazione tenda ad occultare le diseguaglianze proprio mentre, come infine sostiene Castel, si smette di parlarne.

    Da un punto di vista dinamico la situazione degli homeless è perciò lo sbocco di un processo di azione e reazione e conseguenza di una situazione, parafrasando Micheli, 1991.
    Tre meccanismi, in particolare, tendono a trasformare le traiettorie di vita nella parabola regressiva che attiva la désaffiliation.

      A. L’incapacità sostanziale delle reti di gestione pubblica nell’attivare adeguate risposte ai livelli di tolleranza richiesti dalla qualità dei bisogni che si propongono individualmente e socialmente
      B. La compartecipazione del soggetto che nello stato critico non si colloca nella propria elaborazione, anche per mancanza di supporti strategici a tale elaborazione, aumentando la gravità della propria deriva.
      C.L’intreccio nel momento disgregativo di quattro ordini di fattori non diversamente differibili:
        1. La catena di eventi critici che hanno già caratterizzato il corso della vita e le forme con cui essi sono stati superati
        2. Le coordinate di status sociale, culturale ed economico che fanno da retroterra strategico al soggetto
        3. La forma, la dimensione e l’intensità della rete di relazioni che incubano o fanno da supporto allo stato critico
        4. I meccanismi di feed-back che accentuano la deriva nei processi di cumulazione intergenerazionali.
    Questo ordine di fattori (Micheli 1997) risottolinea nuovamente il carattere riduttivo di un’interpretazione solo socio-economica degli homeless per configurarla con una più precisa e più complessa interpretazione antropologica. In particolare, è necessario ridefinire il significato delle reti di protezione primaria come fattore stabilizzante degli individui ai quali assicura una continuità di identità (Laè 1997), soprattutto nei momenti in cui il corpo psichico non è più capace di autogoverno e nel momento in cui è delegata per mandato alle politiche sociali la sostituzione parentale: sono esse coscienti del mandato di cui sono investite? A me pare di no. Tra esclusione, come risposta persino concettualmente rifiutabile, e proprio per questo da criticare come procedura di delegittimazione strategica per gli homeless, e istituzionalizzazione centralizzata o diffusa nel variegato sistema concentrazionalistico dell’accoglienza, occorre ripensare per gli homeless un intervento come se quelle persone dovessimo essere noi.
    Forse il segreto di un più autentico spettro analitico per avvicinare il rifiuto intrecciato al loro isolamento diventerebbe più comprensibile.
    Storicamente, infatti, la strada, con la grave emarginazione da diritti, identità, opportunità e bisogni, unitamente all’intervento compassionevole (non gradito agli homeless) sono state e rimangono la risposta dominante data a loro. Tutto questo accanto ad un disarticolato sistema di relazioni d’aiuto private o pseudo sociali, collegato all’emergenza come recentemente in Italia, che hanno nel sistema dell’accoglienza la forma più classica di caratterizzazione.
    Tutto questo evoca la necessità di rompere il circuito di cronicizzazione istituzionale a cui gli homeless sono legati nei diversi ambiti dell’accoglienza e che ha costruito intorno al vecchio dormitorio pubblico, parzialmente trasformato, un dormitorio territorialmente diffuso non di meno totalizzante.
  • Occorre trasformare l’accoglienza in un momento di riorganizzazione non omologante ma differenziante (Habermas 1996) dell’inclusione anche degli homeless.
  • Occorre attivare, parallelamente a adeguate politiche di ripristino dei diritti di cittadinanza per gli homeless, pratiche di destituzionalizzazione che arrivino fino alla chiusura giuridica del dormitorio.
  • Occorre attivare azioni partecipate territoriali di rivalorizzazione delle risorse anche residuali degli homeless, collocandone le strategie di reinserimento in progetti supportati dai governi centrali e presi in carico programmatico da quelli regionali e locali, finalizzati a misure di reddito, di abitazione e di ridistribuzione relazionale socialmente accompagnati, che costituiscano per gli homeless quantomeno la possibilità di scegliere di fronte ai diritti di cittadinanza da cui oggi sono deprivati.
  • Nel momento in cui il corpo, parafrasando Harvey, nel tempo e nello spazio della città post-moderna diventa una strategia centrale dell’accumulazione capitalistica, occorre subordinare al principio del bene comune le competenze istituzionali che questa strategia sta disintegrando.

    Maurizio Lombino (psicologo presso il NAP - Bergamo)


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