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QUINDICI MOTIVI ovvero vale ancora la pena di pre-occuparsi di formazione?
(Alberto Raviola, febbraio 2006 / anche in formato audio)

1.                  La Formazione è un luogo-tempo altro dal lavoro, ma i cui effetti sono direttamente connessi ad esso. Il “delta” della Formazione è l’apprendimento: esso deve essere trasferibile, direttamente o con pochi aggiustamenti, sul “posto di lavoro”. Se non vi è apprendimento la Formazione non ha senso. Senza Formazione, l’apprendimento è casuale. La Formazione è un tentativo intenzionale di dirottare la casualità e l’imprevedibile della storia delle persone e della vita delle organizzazioni.

2.                 Ogni apprendimento è un cambiamento. Apprendere significa mettere dentro di noi qualcosa di nuovo o diverso, aggiungere o spostare parti delle nostre credenze, sviluppare certe parti invece che altre, scoprire porzioni interne o del mondo esterno la cui esistenza preme per alterare il nostro precedente equilibrio. 

3.                 Ogni apprendimento implica un cambiamento della nostra forma psicologica. Essa infatti è risultante dell’equilibrio adattivo fra esperienze concrete, bisogni, capacità di cui si dispone. Mediazione fra desideri e realtà, bisogni e capacità. Ciò che ognuno sa, pensa, è, si presenta come una forma compiuta risultante dall’incontro fra natura, storia, ambiente.

4.                 Apprendere significa alterare parti del nostro mondo: ciò implica cambiare la forma del nostro mondo interno. Questo è ciò che fa della Formazione un evento così delicato, così minaccioso, così desiderato e insieme così temuto. Apprendere significa far propria la novità che ci porta alla traumatica rottura col passato e al rischio della frantumazione del ‘mosaico’ interno.

5.                 Apprendere implica dunque cambiare, rischiando consapevolmente l’incertezza, la catastrofe, l’emarginazione, la colpa. La cifra della Formazione come cambiamento è l’ambivalenza: qualsiasi cambiamento oscilla tra la volontà di apprendere e di conservare.

6.                 Formazione, apprendimento, cambiamento, ambivalenza, difese: questa è la catena con la quale chiunque faccia il mestiere del formatore deve confrontarsi. Con l’ulteriore consapevolezza che il cambiamento non è caotico ma nemmeno lineare: è una sorta di passaggio di stato che, apparentemente continuo, nella realtà è traumatico, costellato di cesure, traumi.

7.                 La Formazione implica rotture, lacerazioni, cesure perché ogni passaggio di stato è critico per chi lo vive. Il passaggio implica la presenza di fattori esterni (processo di Formazione e formatore) ma il sistema-individuo ne è l’unico irriducibile protagonista che può/non può, vuole/non vuole lasciare aperta la porta (del cuore, della testa, delle mani) a ciò che l’ambiente esterno stimola.

8.                 La Formazione è nata dalla necessità di cambiamento della cultura e degli atteggiamenti individuali. Nell’epoca industriale era necessario insegnare la ripetizione del sapere e l’adattamento ai comportamenti tradizionali: la forte integrazione culturale consentiva il lento sviluppo della civiltà e della persona. E’ nella cultura post-industriale che si afferma la Formazione come tentativo di rispondere ai movimenti di trasformazione collettiva e alla corrispondente domanda di senso individuale, sia nella vita che nel lavoro.

9.                 Sviluppo di Sé, sensibilizzazione al mondo sociale, ricerca di senso sono il campo semantico nel quale la Formazione trova il suo profondo significato. La transizione ancora in atto tra moderno/post-moderno, industriale / postindustriale,  materiale / immateriale ne rappresenta la cornice.

10.              Ma all’alba del Terzo Millennio la Formazione stagna in una serie di equivoci che l'accompagnano e rischiano di condurla alla deriva. Nonostante un grande successo della pratica siamo di fronte ad una grande debolezza professionale.

11.             Il primo equivoco è la iperspecializzazione come continuità della scolarizzazione di massa. Accademia&Scuola di Stato tentano di rispondere alla chimera della piena occupazione attraverso la iperspecializzazione dei curricula e la moltiplicazione delle figure professionali. Invano si cullano nell’illusione che il giovane iperspecializzato sia un lavorare felicemente occupato.  La Formazione, purtroppo, si è auto eletta ancella di questa cultura dilagante. Solo la despecializzazione la salverà dalla subalternità alla odierna cultura di matrice premoderna.

12.             Il secondo equivoco è la riduzione della Formazione ad in-Formazione ed Addestramento.
Questa restrizione del “campo della pratica formativa” è un segno inequivocabile del ritorno ad una visione moderna della società e dei saperi. Conoscenze e competenze hanno avuto il sopravvento sulle abilità personali: informazioni e “saper fare” rappresentano la “stella polare” di chiunque vuole insegnare qualcosa a qualcuno. La Formazione e i formatori si sono “ridotti” sostanzialmente a “fare lezioni” e “far manipolare” oggetti, rinunciando a quella parte di mestiere che, agli albori della professione riguardava, la sensibilizzazione, il potenziamento, lo sviluppo delle abilità (sé) personali e sociali (le relazioni). Solo se si ritornerà a studiare, trattare, promuovere “scuole” che mettono al centro le capacità personali, la Formazione troverà la sua collocazione nella transizione contemporanea alla predominanza dei valori immateriali.

13.             Il terzo è la mercificazione di professionisti e gestori di Formazione.
Ruoli speculari del medesimo processo, la comunità dei formatori e quella dei Gestori (pubblici, privati, singoli, associati, istituzionali e non) della Formazione si trovano in un loop del quale non si intravede fine. Il mercato, colonizzato dal finanziamento pubblico, ha tolto la voglia di fare realmente Formazione. Il Gestore tratta l’apprendimento come un oggetto transizionale. Serve ad altro: guadagnare qualche soldo, manipolare i dipendenti, soddisfare le parti sociali, creare consenso, imbellettare l’organizzazione. La comunità dei formatori ha colluso se non addirittura provocato lo status quo. Ha scambiato la perdita di valore in cambio di fette di mercato: sempre più il formatore ha preso le sembianza del mutante, manager di agenzia o addirittura gestore esso stesso di fondi pubblici. E in  questo contesto poco importa chi è colui che va in aula: l’interesse è altrove, il cambiamento pure.

14.             Ma i soldi stanno finendo e la cosiddetta “Formazione assistita” non godrà più dei grandi benefici degli ultimi 15 anni. Resteranno le macerie (umane e strutturali) insieme a chi in questi anni ha testardamente, da una parte (gestore) e dall’altra (formatore) perseguito obiettivi di benessere individuale e collettivo, al di fuori delle regole suicide di mercato. L’aurora sarà per pochi, il tramonto per molti. Poiché, nella crisi, formatori e gestori saranno costretti a nuovi patti fondati sull’efficacia e l’efficienza delle loro scelte, senza inutile dispendio di energie e denari, ricercando l’essenziale interesse condiviso: l’apprendimento e il cambiamento di chi partecipa alla Formazione.

15.             Sarà il tramonto della ripetizione dei saperi e dell'adattamento dei comportamenti. Sarà la fine della Formazione come inFormazione e addestramento. Rivedrà la luce la Formazione come opportunità di sviluppo delle abilità, personali e sociali, risposta sensata alle necessità del nuovo mondo del lavoro immateriale, ma soprattutto all’obbligo etico di rispondere ai desideri ed ai progetti di uomini e donne, organizzazioni e comunità.

Le skills saranno il focus dell’apprendimento e il motore di ogni cambiamento. Il gruppo sarà di nuovo alla ribalta come contesto generativo. Il collettivo (organizzazione o comunità) sarà il palcoscenico dove la despecializzazione delle professioni finalmente potrà generare ben-essere sociale.