DIRIGERE PER FORMARE * (Alberto Raviola)

0. A priori

L’interesse di questo articolo è quello di mettere in evidenza alcune questioni che a mio parere si rivelano cruciali nel periodo di crisi e trasformazione che la  Scuola sta vivendo. Le riflessioni si articolano intorno alle problematiche dell’Organizzazione e dei Ruoli che, nel mondo della Scuola, si incrociano, rivelando la necessità di essere riconsiderate nel suo complesso e con particolare riferimento alla figura del Dirigente quale responsabile della gestione delle risorse umane.

Il mio interesse a questo proposito non riguarda gli aspetti burocratico amministrativi della Struttura quanto le variabili psicologiche e relazionali che influenzano l’Organizzazione nel suo complesso. Anche se non mi è possibile ignorare come l’evoluzione del quadro normativo nazionale sia un vincolo di macro sistema che ha influssi decisivi sui modelli organizzativi e gestionali che ciascuna scuola si può dare. L’ipotesi di riforma del Ministro Berlinguer, con l’elevamento del tempo di permanenza a Scuola a 10 anni e la nuova articolazione dei cicli scolastici, ma anche il Patto per il Lavoro del 24 settembre 1996, la proposta di revisione della Legge Quadro per la Formazione Professionale, la recente Legge delega n.59/1997 per la riforma della P.A., ivi comprese le istituzioni scolastiche, e infine la legge 196/97 meglio conosciuta come Legge Treu, definiscono uno scenario di vincoli ma anche opportunità di complessa decifrabilità in rapporto alle sue evoluzioni future. E siamo costretti a glissare, per motivi di spazio e di fruibilità di queste pagine, sul quadro normativo europeo che sta già influenzando in maniera forte il Sistema Scuola ma che a partire dalla soglia del Terzo Millennio sarà vincolo primario per chiunque voglia occuparsi di Istruzione e Formazione nel nostro Paese.

La mia idea (ma anche pratica professionale di qualche tempo fa) di Scuola è di un’organizzazione di relazioni orientata alla produzione di saperi e di metodi per sapere, che assolve al suo compito (istruire, formare, addestrare, etc.) realizzando anche un sapere su sè stessa e una conoscenza delle proprie metodiche e delle proprie procedure.

Come un mondo, all’interno del quale, uomini e donne, che hanno un compito centrato sul giovane perché impari, conosca, sappia fare ed essere, intendono migliorare la loro condizione (e di conseguenza quella dei propri ragazzi) auto-conoscendosi e auto riflettendo, in specifico, sui meccanismi organizzativi (psicologiche e relazionali) che sottendono le procedure, le metodiche, le prassi decisionali e operative.

E in questo senso la Scuola è oggi crocevia di aspettative e di critiche, di desideri e di poteri.

Il declino di contesti educativi forti e unici a favore di una loro moltiplicazione e di un parallelo  indebolimento, chiede all’istituzione scolastica di supplire e vicariare funzioni che la famiglia, il quartiere, la rete amicale non sanno (e/o non possono e/o non vogliono) più svolgere.

Il mondo del lavoro, ovvero dell’età adulta, esprime sempre di più richieste di propria sostituzione dal tradizionale compito di iniziazione nella prassi produttiva e si mostra sempre più incapace di rappresentare un valido contenitore all’esuberanza e all’energia giovanile, esprimendo aspettative contraddittorie e schizofreniche anche nei confronti della Scuola. Da una parte la richiesta di sviluppare protagonismo, capacità di apprendimento continuo, promozione di un nuova cultura del lavoro e delle abilità cosiddette trasversali (skills), dall’altra la domanda di preparazione tecnica e tecnologica, a livelli ultra specializzati soprattutto infor/tele-matica oppure a livelli esecutivi, di semplice mano d’opera, di scarso contenuto professionale e di bassissimo contenuto relazionale.

Quali effetti produce nei confronti della Scuola questo scenario? L’intreccio di aspettative e desideri personali, da una parte, di vincoli e di attribuzione di compiti e funzioni dall’altra, producono una “rete” all’interno della  quale i fili si intrecciano, sortiscono nodi, provocano strappi e lacerazioni, producono ulteriori intrecci. L’intreccio richiede una gestione della complessità, un governo del sistema; il che non significa semplificazione ne moltiplicazione all’infinito dei nodi, bensì individuazione di prassi (relazionali, piuttosto che strutturali) perché la conoscenza, la competenza, la consapevolezza, da parte di tutti gli uomini, le donne i giovani e le giovani che nella rete vivono e imparano, si sviluppi, migliori, sia condivisa e praticata.

1. Autonomia della Scuola: prerequisito oppure obiettivo?

Governare la complessità reticolare è una questione di fermezza, intuizione, competenza.

Il timone va governato altrimenti il rischio è la perdita del controllo e la deriva. E d’altro canto governare nella Scuola è un compito dichiaratamente affidato al Dirigente ma come realizzare questo compito, con che metodi, con quali strumenti, è questione soggetta a differenti e molteplici e possibili opzioni.

Ma facciamo un passo indietro.

Chi sono i protagonisti dell’intreccio? (Né in ordine di importanza, né in ordine di apparizione):

a- lo Stato, che dichiara per la Scuola il mandato istituzionale e ne rappresenta il committente primo,

b- gli allievi e le loro famiglie, fruitori del servizio scolastico, sempre di più Clienti, piuttosto che Utenti

c- gli insegnanti, i formatori, i dirigenti, gli ausiliari e i segretari; le cosiddette Risorse Umane che sempre di più in autonomia precisano in un contesto territoriale, con un target definito, in un determinato tempo, orientamenti, risultati, metodi e specificità.

E inoltre la Scuola come rete:

* si sviluppa all’interno di un Habitat (territorio e comunità) che rappresenta la espressione concreta della committenza, da una parte, e dall’altra sempre di più fruisce dei risultati della Scuola e/o li promuove economicamente e culturalmente;

* viene orientata dalla Norma (legislazione e apparato che la governa);

* abbisogna di un Budget per alimentarsi e produrre risultati.

E così inventa (o viene obbligata ad inventare) Procedure per funzionare e un’Organizzazione (di tempi, spazi, relazioni) per vivere e soprattutto perseguire la finalità (non dimentichiamocelo, cadendo nella rete!!) di favorire, promuovere, sviluppare processi di apprendimento per i suoi clienti.

Se la Scuola (rete) intende porsi come Organizzazione dell’Apprendimento deve essere governata come sistema complesso di Aspettative e Relazioni, che a loro volta rappresentano un Sistema complesso di soggettività che apprendono (in riferimento alle aspettative e alle relazioni).

E in questa direzione la possibilità di gestire la rete passa attraverso due possibili alternative di  Governo: da una parte l’ipotesi centralista, unitaria, piramidale, dall’altra quella periferica, plurale, diffusa. E in relazione a queste due ipotesi che non credo opportuno giudicare a priori, quanto piuttosto considerare per i risvolti organizzativi, gestionali, e di profilo di competenze del Dirigente, che si gioca l’idea (e la pratica) di fare scuola nel futuro prossimo.

In altre parole, l’opzione per un modello o per l’altro implica una differente attenzione rispetto alla promozione e allo sviluppo di auto-consapevolezza richiesto a ciascun soggetto (allievo, insegnante, dirigente, in termini di aspettative, comportamenti, interazioni), che all’interno della Scuola vive e lavora.

E in specifica relazione al nostro tema di come e quanto il Dirigente scolastico debba e possa favorire una cultura (psicosociale) dell’Apprendimento all’interno della Scuola, Organizzazione dell’Apprendimento per antonomasia. 

L’una o l’altra opzione apre differenti orizzonti di significato alla cosiddetta “Autonomia della Scuola”. Se tale espressione ha significato (o è stata intesa come) l’identificazione di un pre-requisito (giuridico, organizzativo, economico, didattico) da cui partire per un cambiamento complessivo, potrebbe (alla luce di quanto detto) essere considerata come assunto (normativo, qualificativo, etico) a priori che deve essere praticato “a prescindere” dalle realtà e dalle persone, oppure come finalità di processi relazionali (tra adulti, tra adulti e giovani, tra giovani). E cioè come obiettivo comune dichiarato di processi di attribuzione di significato alle regole, alle pratiche, alle procedure che connotano ciascuna singola organizzazione scolastica, intesa come “comunità” (luogo di scambi e di appartenenze) autonomamente costituitasi e legittimata a definirsi per la sua Autonomia.

2. Il Dirigente tra Potere ed Autorità

Dirigere ha molti significati: volgere verso un punto, un fine determinato, guidare e disciplinare attività e/o persone, indirizzare, e in questo senso il verbo non lascia ombre sulla sua transitività, mentre lascia adito ad ambiguità sul come l’azione possa essere portata a termine. Può aiutarci forse nel sciogliere questa ambiguità una riflessione che individui alcune caratteristiche di ordine psico sociale che possiamo attribuire alla Scuola in quanto luogo e spazio di incontro e relazione interpersonale.

La scuola come luogo di scambio di saperi ed esperienze, come spazio di espressione di appartenenze plurali, non esclusive e transitorie nel tempo, potrebbe essere descritta come una Comunità.

In questo senso mi interessa sottolineare uno degli aspetti qualificanti la comunità Scuola (e le comunità in generale) che è quello del Sentimento di Appartenenza che è strettamente correlato al Sentimento di Potere (di poter fare cose, proporre opinioni, esprimere sentimenti). In questo senso entrambi i sentimenti non sono innati o rappresentano prerequisiti per appartenere ad una comunità, bensì come tutti i nostri vissuti emozionali, possono esprimersi se messi in condizione di farlo e se favoriti da un clima e da un habitat relazionale adeguato.

Se Appartenenza-Potere-Autonomia rappresentano obiettivi da raggiungere per il Dirigente scolastico allora appare necessario qualificare il metodo del dirigere orientandolo verso un’attenzione costante alla promozione di processi (come ad es. quelli di informazione e comunicazione) relazionali  di gruppo, piuttosto che a modalità di relazione in “camera caritatis” a due che provocano una modalità privata (non pubblica e visibile, soggetta a controllo) di identificazione e soluzione dei problemi.

Ciò significa, per il Dirigente, porsi il problema della Costituzione dell’Istituzione scolastica di cui è responsabile e quindi della identificazione di procedure e contenuti, ruoli e funzioni, di metodiche decisionali e operative, ma soprattutto di scelta dei soggetti che devono o meno essere protagonisti di questo processo.

Io credo che solo pensando (ma anche progettando e praticando) una fase costituente dove, tutti i soggetti che vivono l’organizzazione scolastica, siano messi in condizione (o facciano di tutto per esserlo) di esprimersi, per la costruzione di un clima relazionale e di lavoro, ogni singola scuola possa aprire una via (propria e originale) allo sviluppo di una cultura dell’Autonomia.

Il problema per il Dirigente è come avviare tale processo; quale via percorrere tra le due ipotesi indicate sopra, quali tecniche utilizzare? Ciò non significa chiedere al Dirigente di abdicare al proprio ruolo di Autorità responsabile dell’Organizzazione, bensì ripensare ad un metodo di lavoro e di gestione dell’autorità che sia funzionale all’obiettivo.

La parola chiave per la promozione di tale fase ritengo possa essere “Gestione del Potere”: il sentimento di appartenenza che ciascun ragazzo o ragazza, insegnante o genitore, potrà esprimere nell’organizzazione è direttamente proporzionale a quanto di suo potrà ritrovare nella Costituzione della Scuola che frequenta o in cui lavora. Tanto più ciascuno di questi soggetti sarà messo in condizione di esprimere nella fase di fondazione delle norme, delle procedure, dei contenuti, che identificano la sua Scuola, altrettanto il suo sentimento di appartenenza lo porterà ad essere motivato al miglioramento della qualità del tempo e del percorso scolastico.

In questo scenario la scelta del Dirigente sta nell’individuare quali forme di potere (per l’avvio e la promozione del processo) sviluppare e a quali rinunciare. Ciò significa decidere tra alternative possibili nel ri-disegnare il modello organizzativo e mettere in campo strategie per la modificazione degli assetti strutturali ma anche psico sociali fondanti il modello precedente, dai più definito come gerarchico e burocratico, autoreferente ed elefantiaco.

E in questo senso il Dirigente può utilizzare differenti modalità di gestione del potere che rimandano ad altrettante modalità di costruzione del modello organizzativo. Individuo di seguito tre forme di potere che possono essere diffuse all’interno dell’organizzazione a partire dal ruolo Dirigente:

- il potere “legale ” che si caratterizza per il riferimento alla norma, alla posizione gerarchica, ad una pratica dell’autorità attribuita dal ruolo definito dal “di fuori” dell’organizzazione;

- il potere “ripartito” fondato su un’equa distribuzione del potere, orientato al riconoscimento ed alla valorizzazione delle competenze professionali codificate dal ruolo ricoperto (dirigente, docente, segretario, ausiliario, allievo, genitore);

-  il potere “diffuso”  che si caratterizza dal riferimento a valori (atteggiamenti e comportamenti) condivisi dalla comunità, dove i compiti vengono attribuiti in maniera partecipata e la gerarchia determinata da funzioni collegate a progetti e tempi definiti.

In rapporto a ciascuna di queste forme la qualità delle relazioni all’interno dell’organizzazione assume una differente fisionomia. Nel primo caso le relazioni si esprimono in maniera caotica e il vissuto prevalente è quello di estraneità nei confronti dell’organizzazione e di “riferimento” al ruolo Dirigente. Nel secondo caso le relazioni prevalenti sono di “coppia” e in genere esprimono indifferenza ed estraneità ai “territori” altrui, manifestando ostilità e/o sottomissione al ruolo Dirigente. Nel terzo caso le relazioni prevalenti sono “plurali”: la mobilità dei ruoli garantisce affidamento reciproco, decentramento degli ambiti di decisione ed incremento della  partecipazione, l’indipendenza è il comportamento prevalente nei confronti del Dirigente.

Naturalmente ciascuna forma di potere (e il relativo sentimento di appartenenza) non rappresentano un dato di fatto ineludibile e immodificabile all’interno di una organizzazione, ma possono altresì essere oggetto di riflessione e di modificazione da parte dell’organizzazione stessa. In questo senso lo spostamento da una forma all’altra può essere favorito o ostacolato, promosso o represso in ordine al modello che chi dirige l’organizzazione ritiene opportuno adottare.

3. Il Dirigente come “esperto di comunità”

Se la Scuola è una Comunità di uomini e donne e se la comunità è un Sentimento (di appartenenza e quindi di potere, di potere e quindi di appartenenza) che ciascuno esprime attraverso atteggiamenti e comportamenti, il Dirigente è responsabile in relazione a quanto e come questi sentimenti mutano, si evolvono, si ristrutturano nel tempo. Ma soprattutto è responsabile del loro cambiamento intenzionale e cioè della pianificazione esplicita di azioni per la modificazione di atteggiamenti e comportamenti che possono influenzare l’evoluzione e il miglioramento della qualità e del benessere all’interno dell’organizzazione.

Qualità e benessere, naturalmente, in relazione alla finalità specifica di questo tipo di organizzazione che è di “accostare il giovane a tre tipi di conoscenze relative alle varie discipline:

1. Notazioni sofisticate. ...L’obiettivo diventa quello di appropriarsi dei principali codici di scrittura della cultura d appartenenza e di imparare ad usarli efficacemente.

2. Concetti portanti delle varie discipline......

3. Forme espositive e di ragionamento all’interno delle varie discipline.” (H. Gardner, 1993).  

Ma mentre in rapporto alle cosiddette competenze professionali (culturali e didattiche) l’attenzione della Formazione nella Scuola è stata sempre viva, in relazione agli aspetti più squisitamente psicologici della relazione docente-allievo, docente-docente, allievo-allievo, l’organizzazione scolastica ha lasciato incautamente spazio all’improvvisazione ed alla buona volontà individuale. Gioco forza è stato che le esperienze in questo ambito raramente hanno tenuto conto della dimensione organizzativa, focalizzando l’attenzione (e quindi l’efficacia o meno) alla dimensione del piccolo gruppo (gruppo-classe o Consiglio di classe) raramente coinvolgendo, in modo esplicito dinamiche organizzative o meglio di Comunità.

Orientandoci invece ad una lettura della Scuola come comunità l’ottica che intendiamo proporre per una gestione efficace da parte del Dirigente è quella di favorire la riflessione e la promozione di interventi che coinvolgano tutte le componenti dell’organizzazione. E che abbiano come focus l’incremento delle cosiddette abilità psicologiche, trasversali alle discipline e aspecifiche, delle persone (le cosiddette skills) oramai considerate da tutti come centro intorno al quale ruotano le tre aree di apprendimento identificate dalla citazione di H.Gardner, sopra riportata.

Ciò significa operare all’interno dell’organizzazione per un progressivo spostamento dell’attenzione da problemi di “contenuto” a questioni di “processo”: se vogliamo che i giovani trovano motivazione e significato nella loro prassi quotidiana di studio e conoscenza, non possiamo esimerci dal chiederci costantemente quale sia il livello di motivazione e di attribuzione di significato che gli adulti possiedono nel momento dell’incontro (formativo e didattico) con i giovani.

In altre parole il Dirigente può sviluppare a livelli plurimi una costante attenzione, non solo alle procedure e ai metodi di lavoro in funzione di un miglioramento del contenuto delle discipline oggetto di studio, ma anche (e soprattutto) alle procedure e ai metodi di lavoro per il confronto, la discussione, la decisione relativa a tali procedure. Ciò significa immettere in maniera partecipata momenti di auto riflessione su “come” la comunicazione, i processi decisionali, l’attribuzione di compiti e ruoli, la verifica e valutazione, vengono realizzate e gestite. In termini operativi ciò significa utilizzare, valorizzandoli, i continui momenti di gruppo e di comunità, caratterizzanti la vita quotidiana della Scuola, per una riflessione sul loro funzionamento in rapporto all’apprendimento di capacità di socialità, di self empowerment, di consapevolezza personale, considerate oramai come fondamentali sia per i giovani che per gli adulti per un’efficace formazione o  sviluppo della propria soggettività e professionalità.

D’altro canto la Scuola sempre di più esprime “l’intento esplicito di [far acquisire ai giovani] una o più abilità apprezzate dalla più vasta comunità di appartenenza” (H.Gardner, 1993) e sempre di più queste abilità afferiscono ad ambiti della personalità che possono essere sviluppati, certo attraverso un insegnamento disciplinare ma orientato all’apprendimento di “metodo” piuttosto che di “contenuto”. Saper apprendere ad apprendere, saper decidere, scegliere e progettare, saper gestire rapporti interpersonali, comunicare, e quant’altro sono abilità aspecifiche e trasversali, insegnabili e apprendibili, attraverso la relazione interpersonale mediata all’interno dei contesti specifici di ciascuna discipline curricolare.

In questo senso se il Dirigente scolastico intende promuovere nella sua scuola una seria attenzione allo sviluppo di tali abilità nei giovani allievi, dovrà altresì sviluppare capacità analoghe in tutti gli adulti che all’interno dell’organizzazione operano e quindi anche (e in primo luogo!) a suo favore.

Gestire risorse umane orientate allo sviluppo delle skills significa, secondo il mio punto di vista, per il Dirigente porsi il problema di come poter apprendere (in maniera continua e permanente nel tempo) le medesime skills a partire dal proprio ruolo e da sè stesso.

Infatti capacità personali quali la consapevolezza di sè e della proprie emozioni, oppure competenze come quelle di gestione delle dinamiche di un gruppo di lavoro, possono essere apprese o migliorate E promosse all’interno dell’organizzazione in maniera intenzionale e pianificata, attraverso la valorizzazione delle risorse umane esistenti  e/o la promozione (non tanto la gestione diretta) di azioni formative ad hoc per insegnanti, ma anche genitori e allievi stessi.

D’altro canto questa area di apprendimento non viene toccata (nemmeno “tangenzialmente”) da nessun curricolo universitario e immessa nei curricula scolastici solamente in termini di incremento delle conoscenze, ma non delle abilità personali e/o delle competenze tecniche. A fronte però di una necessità dichiarata come ineludibile da parte delle comunità (sociali, economiche, professionali) a cui apparteniamo e che indicano come fondamentali apprendimenti che nessuna Scuola ha mai previsto e pianificato (J. Rifkin, 1995).

4. Sentimenti conclusivi

Non passa giorno nel quale la Scuola non venga messa sotto i riflettori della critica spesso con un atteggiamento di discredito, aprioristico e supponente. Il giudizio che parte dell’opinione pubblica e una certa classe di intellettuali esprime, trova fondamento su tre ordini di considerazioni:

a- i dati e le relative elaborazioni statistiche che, a ritmo regolare si abbattono come una mannaia sul sistema scolastico italiano, mettono in luce le carenze e la distanza dagli standards dei sistemi degli altri Paesi Europei, sia in termini di efficacia che efficienza;

b- i limiti e la scarsa qualità delle risorse umane che, risultato di decenni di mal governo e obsoleti meccanismi di selezione e incentivazione, sono maggiormente impegnate a fronteggiare le disfunzioni dell’apparato burocratico “centrale”, piuttosto che a garantire efficacia all’insegnamento e promuovere apprendimenti sempre aggiornati agli allievi;

c- l’assoluta mancanza di un sistema serio di Orientamento degli studenti che a prescindere dalle loro performance (e relativi desideri) riescono a assolvere l’obbligo scolastico (oramai virtualmente elevato ai 18 anni) senza impegno né differenziazione, provocando un intasamento delle aule universitarie con il conseguente spostamento dell’abbandono ai livelli superiori (solo 3 giovani su 10 concludono l’Università nei tempi previsti).

Sembra in altre parole che l’istanza di giustizia e di egualitarismo che negli anni ‘60 aveva ispirato la scommessa educativa di una “scolarizzazione di massa” oggi sia foriera solamente di fallimenti e trascini con sé nel baratro dell’oblio il modello culturale e se vogliamo politico, che la sosteneva e alimentava. Eppure quel modello rappresentava e forse rappresenta ancora oggi l’espressione di un grado di civiltà e di sensibilità raggiunto dalla nostra democrazia che possiamo definire come “capacità inclusiva” (Contessa, 1994) nei confronti dei più deboli (culturalmente, psicologicamente, socialmente, etc.) a fronte della logica “esclusiva” e di classe che negli anni ‘50 si esprimeva e che probabilmente tornerà in auge nel prossimo millennio attraverso una nuova rinascita del pensiero selettivo-meritocratico.

Avremo potuto in questa sede anche noi aggiungere qualche dato sulle inadempienze della Scuola o sui sintomi di ripresa della stessa, tratto da qualche ricerca del CENSIS o dell’OCSE, ma non lo faremo perché ci sembra poco interessante e privo di significato per il discorso che abbiamo inteso fare sul cambiamento (auspicato e in atto) che la Scuola sta praticando intorno alle modalità organizzative per il miglioramento dei processi di apprendimento di tutti i protagonisti che vi appartengono.

E in questo senso a conclusione del mio discorso mi pare opportuno ricordare come le generalizzazioni, i giudizi affrettati, le prese di posizione onnicomprensive, quasi mai rendono giustizia alle specificità e alle potenzialità dei protagonisti concreti di ogni singola scuola.

Perché nel contenitore semantico Scuola, quando si tratta di numeri, si perdono le differenze (di ruolo, di genere, di età) e le specificità (storiche, psicologiche, di esperienza) delle persone che vi appartengono: ragazzi e ragazze, genitori, insegnanti, ausiliari e dirigenti.

Perché di fronte alle “medie” e alle “percentuali” ciascuno di noi è portato a dire “non mi riguarda” mentre di fronte a chi (ragazzo o ragazza) che domanda il senso di ciò che studia, è possibile aprire orizzonti esistenziali che investono anche noi adulti e tendono a modificare il contesto concreto di relazione nel quale si vive. E quindi avviare un percorso di cambiamento reale e non dilatato nel tempo o delegato alla “riforma che verrà” (V.Cosentino e G.Longobardi, 1996).

E perché i dati non sono neutri e possono indurci legittimamente ad analisi differenti, talvolta divergenti, o ancora antitetiche. Come quella che attribuisce alla rapidità di  mutamento della società, nel suo complesso, la condizione di perenne inadeguatezza della Scuola ai bisogni (culturali e professionali) di chi la frequenta.

E seguendo questa strada ci si ritrova al punto di partenza: al dilemma di attribuire ragione o torti, alla necessità di evitare la neutralità e scegliere la parzialità dell’interpretazione fino alla definitorietà del giudizio. Per noi il problema non è stato (e non è, in sede conclusiva) quello di scegliere tra l’una o l’altra interpretazione, di riferirsi a quel numero o a quella statistica, quanto piuttosto di negare la necessità al riferimento a qualcosa di oggettivo per ricercare a partire da sé stessi (come adulti che si preoccupano dell’apprendimento dei giovani) nella realtà scolastica concreta e così facendo rendendo pubblica e visibile tale ricerca, quali siano i significati profondi del fare Scuola nel senso che si trasmette a coloro che stanno (per amore o per forza) dietro i banchi, sopra i libri.

E in questa ottica la Dirigenza scolastica in relazione ad un miglioramento del Benessere sia a livello delle relazioni organizzative (comunitarie) che di ogni concreta Soggettività (adulta e giovane) può rappresentare un potenziale punto di partenza per lo sviluppo di una “pedagogia del benessere” (Spaltro, 1995). Pedagogia che coinvolga sia adulti che giovani, promuovendone l’espressione di desideri (con la speranza del successo) piuttosto che l’analisi di bisogni (con la paura dell’insuccesso). Pedagogia che promuova il moltiplicarsi di luoghi e spazi plurali (gruppi e collettivi)  che maggiormente possono garantire l’incremento della motivazione ad apprendere e lo sviluppo di sentimenti di appartenenza, funzionali al capovolgimento del equivalenza scuola=dovere a favore di quella scuola=piacere.

L’impresa non è facile, gli ostacoli sono molti, il consenso da costruire. Ma l’alternativa qual è?

Forse continuare a pensare e a far pensare che “per imparare bisogna soffrire” ?

BIBLIOGRAFIA 

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Spaltro E., Qualità, Patron ED., Bologna, 1995

*pubblicato su Dirigenti Scuola, n.4 gennaio/febbraio 1999