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Stimolo ERGOPOLIS autunno 2008

La morte del lavoro italiano: storia di un omicidio in tre mosse - Ektor Georgiakis

Il lavoro degli italiani, inteso come attività piena di senso finalizzata a produrre ricchezza, è morto. Sopravvive in piccole enclaves pronte ad emigrare. Nel secolo scorso dall'Italia emigravano gli ultimi, per sopravvivere e trovare un riscatto. Nel terzo millennio a scappare dall'Italia sono i primi, i più preparati, i più onesti, i più creativi. L'omicidio del lavoro non ha un colpevole singolo. E' un popolo con tutta la sua classe dirigente che ha ucciso il suo lavoro perdendo il treno della storia. Sono bastate tre mosse e meno di quindici anni per farci passare dal podio alla palude di metà classifica. Da dove è più facile scendere in serie B che combattere per i primi posti.

Mossa 1: 4.000.000 di immigrati regolari

La globalizzazione delle merci è andata di pari passo con quella degli uomini, come era già avvenuto negli Usa, in Australia, in Germania e in Svizzera (e persino in Italia, dal sud al nord). Solo che i fenomeni migratori del Novecento hanno favorito lo sviluppo e la crescita perchè i migranti si aggiungevano al lavoro locale. I migranti di oggi, almeno in Europa e soprattutto in Italia, sostituiscono il lavoro locale. Essi non servono allo sviluppo, per come stanno le cose, ma contribuiscono al mantenimento dello status quo.
Intorno agli anni Novanta la disoccupazione italiana era stimata dal 10% al 20% della popolazione attiva, cioè dai 4 agli 8 milioni di italiani erano senza un lavoro stabile. Tutti gli sforzi di politica del lavoro non sono stati rivolti alla diminuzione reale di questo fenomeno, bensì alla modifica dei sistemi di registrazione del lavoro. Con artifici linguistici, legislativi e statistici si è arrivati a inserire nelle statistiche degli occupati, milioni di italiani che disoccupati, precari e sfruttati erano prima e che tali sono ancora: solo che sono classificati diversamente.

Aldilà delle questioni umanitarie, l'immigrazione è stata santificata da molti come una risposta ai bisogni del sistema produttivo. Parecchie mansioni venivano rifiutate dagli italiani perchè scomode, faticose o poco socialmente apprezzate, e dunque gli immigrati salvavano le imprese italiane. Siamo arrivati a 4.000.000 di immigrati regolari (e forse altri 1 o 2 milioni di irregolari). Quattro milioni di posti di lavoro, oggi regolari, passati dalle mani degli italiani a quelle degli immigrati. Il 10% della popolazione attiva e il 20% degli occupati è costituito da immigrati. Quanti sono i disoccupati, sottooccupati, temporeani, in affitto, in nero, partite iva, cococo, a progetto, precarissimi italiani? Circa 4.000.000 cioè lo stesso numero degli immigrati occupati regolarmente, e lo stesso numero dei disoccupati degli anni Novanta.

Anche se poi la metà dei 4 milioni di immigrati fa la badante o il cameriere (professioni lontane dalla produttività industriale) non è un discorso sciovinista quello che voglio fare: l'immigrazione era ed è ineluttabile. Tutti gli sforzi per combatterla sono inutili oltre che ingiusti. L'omicidio del lavoro italiano non è stato causato dall'immigrazione, ma dall'assenza delle politiche industriali e del lavoro che dovevano essere messe in atto in questi anni di invasione migratoria. Le migrazioni del secolo scorso negli Usa non servivano a sostituire gli americani nella gestione dei chioschi di hotdogs, ma ad affiancarli nella codtruzione dei grattacieli. I calabresi che venivano a Torino non sostituivano i torinesi, che preferivano passeggiare sul Po, ma li affiancavano perchè non bastavano a dare vita alla grande Fiat.

Mossa 2: Sliding doors, perso il primo treno dell'immateriale

Gli Anni Novanta sono stati gli anni della diffusione di massa delle tecnologie informatiche. Tutte le scienze sociali hanno salutato l'avvento dell'Evo immateriale, che in gran parte del pianeta ha preso il via. L'Occidente ha puntato sulla comunicazione, la telematica e la qualità della vita. Il mondo arabo ha iniziato la transizione dal petrolio al turismo. Persino la Cina sta passando dai cannoni alle olimpiadi. Dagli anni Novanta ad oggi la globalizzazione ha dato vita ad una ristrutturazione della produzione, con una parte ricca ed avanzata che si concentra sull'immateriale, ed una parte in sviluppo che concentra sempre di più i suoi sforzi sulla produzione di beni materiali, entrando in una specie di neo-industrialesimo.

Il progetto imperiale degli Usa non parla col linguaggio vetero-coloniale delle strade, dei ponti, degli ospedali e delle scuole, cioè dei beni materiali tipici dell'industrialesimo. L'impero si presenta con un mito insieme pre e post industriale, il mito immateriale della "democrazia". I conquistadores colonizzavano le americhe per "salvare l'anima dei nativi". L'impero britannico ed il fascismo, nonchè il Piano Marshall (un neo-colonialismo dal volto umano), colonizzavano l'Africa, l'Asia e l'Europa promettendo costruzioni e sviluppo. Il terzo Millennio è talmente centrato sull'immateriale, da inventarsi addirittura delle guerre in nome della democrazia.

L'Occidente che ha preso la "sliding door" fortunata, si è orientato sui mercati della telematica, della finanza, dell'arte e del turismo, dello spettacolo, dell'ecologia, della salute. I quattro milioni di ottimisti che hanno rifiutato lavori scomodi, sgradevoli, malsani, insensati o umilianti (che infatti sono stati presi dagli immigrati) si aspettavano che l'Italia entrasse nell'onda dell'immateriale. Oggi si trovano a lavorare un mese sì ed uno no in un call center o una sera sì ed una no su un cubo in discoteca.

L'Italia non ha fatto nulla per rendere più appetibili i lavori sgraditi, magari migliorando i contratti, o le condizioni di vita e lavoro di quelli che li potevano accettare; ma (e questo è anche più grave) non ha fatto niente per entrare nell'Evo immateriale. Abbiamo la più scalcinata rete telematica d'Europa, un mercato informatico primitivo e senza regole, una alfabetizzazione informatica vicina allo zero. Possediamo la più ricca cassaforte di opere d'arte del mondo, ma non siamo capaci di tenere pulita nè Napoli nè (è anche più grave) Pompei. Dei "giacimenti culturali" si è parlato per l'ultima volta nei primi anni Ottanta. Abbiamo ridotto al lumicino un'industria cinematografica che era fra le prime 2 o 3 al mondo. Da anni si attende un grande piano di prevenzione contro il dissesto idrogeologico e a favore dell'ambiente, che è rimasto un esercizio di retorica televisiva. La sanità e l'università continuano a sbandierare i pochi "luoghi di eccellenza" trascurando il fatto che i "luoghi di normalità" stanno diventando sempre più simili a quelli del terzo mondo. Mentre le aree avanzate dell'Occidente (come di India, Russia, Stati arabi, Romania) creavano nuove professioni nei mille settori dell'infotelematica e del turismo, noi abbiamo perfezionato i sistemi di selezione delle "veline". In tutti gli altri campi le professioni sono state sostituite dalle cordate politico-religiose, o peggio familistico-mafiose.

Mossa 3: Europa e pseudo-volontariato, perso il secondo treno dell'immateriale

L'Italia ha una tradizione ragguardevole nel campo del benessere, della crescita e della cura, delle buone relazioni fra persone. Siamo il Paese di Montessori, don Milani, Danilo Dolci. Abbiamo una legge sui manicomi che è stata una delle più avanzate dell'Occidente. Siamo stati la seconda nazione del mondo ad sviluppare la psicologia del lavoro e l'animazione socio-culturale. Avevamo le scuole materne migliori del pianeta. Il lavoro sociale, educativo, terapeutico è stato nella seconda parte del Novecento un grande laboratorio di idee e professioni in Italia, e poteva essere un settore specifico di sviluppo di una società immateriale post-industriale.

Quello che invece oggi constatiamo è la progressiva sparizione di laboratori ideativi e di professioni qualificate, proprio in quel settore dell'immateriale che comprende i settori sociali, dell'educazione, della formazione, della cura. La Mossa 3 è stata favorita prima dalle famigerate azioni sociali e formative dell'Unione Europea che hanno trasformato le professioni sociali in mere azioni burocratiche e contabili. Poi dalla trasformazione dell'intero settore in un grande deposito di precariato e sfruttamento, equivocamente chiamato volontariato. Invece di sviluppare uno spazio di lavoro qualificato e di carriere, si è scelto di puntare sullo spontaneismo sottopagato, sul clientelismo, sulla retorica della solidarietà inserendo in un ambito precario e senza prospettive quasi 4 milioni di persone. Le quali si fanno chiamare "volontari", anche se vengono pagate e se lavorano per organizzazioni ricche e potenti che partecipano ad appalti milionari.

Naturalmente i cosiddetti volontari vengono pagati poco e male, in regime precario e senza garanzie. Raramente vengono assunti per le loro competenze, ma solo per sottomissione all'organizzazione. Le prospettive di carriera non sono legate al merito ma alla fedeltà, e sono comunque vaghe perchè l'organizzazione a sua volta non lega lo sviluppo alla qualità dei risultati ma al legame con qualche potentato. In questo sistema, la ricerca, la formazione permanente, l'autonomia professionale sono escluse.

Conclusione

L'omicidio del lavoro italiano è stato favorito dall'assenza di politiche attive verso i lavori di tipo vetero-industriale, nell'indifferenza di imprese e famiglie che hanno preferito accogliere immigrazione accondiscendente invece che italiani esigenti. Dall'assenza di ogni scelta decisa di sviluppo immateriale, nel settore informatico o turistico o artistico o ecologico. Dalla trasformazione di un intero comparto di conoscenze e professioni, potenzialmente adatto a favorire uno sviluppo socio-economico centrato sulla formazione, l'educazione e la cura (cioè la qualità della vita), in un deposito transitorio di dequalificazione e fidelizzazione ideologica.