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Franco Berardi Bifo (fonte)
Che significa oggi autonomia?

Non soggetto ma soggettivazione

Non intendo fare una ricostruzione storica del movimento di autonomia, ma solo cercar di comprendere la sua specificità storica atraverso una rivisitazione di conceti come rifiuto del lavoro e composizione di classe. I giornalisti usano la parola operaismo per definire un movimento politico e filosofico che apparve in Italia durante gli anni 60. A me non piace questo termine perché riduce la complessità della realtà sociale al mero dato di una centralità degli operai industriali nella dinamica sociale della tarda modernità.
La centralità della classe operaia è stato un grande mito politico del ventesimo secolo, ma il problema che ci dobbiamo pore è quello del'autonomia delo spazio sociale dal dominio capitalistico, e quello delle differenti composizioni culturali, politiche, immaginarie, che il lavoro sociale elabora. Perciò io preferisco usare l'espressione composizionismo, per definire questo movimento di pensiero.
Quel che mi interessa enfatizzare nel'operazione filosofica del cosiddeto operaismo italiano, è lo smontaggio della nozione di soggeto che il marxismo ha ereditato dala tradizione hegeliana. Al posto del soggetto storico, il pensiero composizionista cominica a pensare in termini di soggettiv/azione.
Il concetto di classe sociale non ha una consistenza ontologica, ma deve esere visto come un concetto vettoriale. La classe sociale è proiezione di immaginazioni e progetti, efetto di un'intenzione politica e di una sedimentazione di culture.
Il gruppo di pensatori che scrivevano su riviste come Classe operaia o Potere operaio non usavano questo tipo di linguaggio, non parlavano di investimenti sociali del desiderio, e si esprimevano in una forma molto più leninista. Ma il gesto filosofico da loro compiuto produse un mutamento importante nel panorama filosofico, spostando l'atenzione dala centralità del'identità operaia ala decentralizazione di un processo di soggettivazione. Félix Guatari, che incontrò l'operaismo dopo il 1977 e fu conosciuto dai pensatori del'autonomia italiana solo dopo il '77, ha sempre insistito sul'idea che non si dovrebbe parlare di soggetto, ma piuttosto di processo di soggettivazione.
Partendo da queste osservazioni possiamo cercar di capire cosa significa rifiuto del lavoro.
Questa espressione non significa tanto l'ovvio fato che gli operai non amano essere sfruttati, ma significa qualcosa di più: cioè che la ristrutturazione capitalista, il mutamento tecnologico e la generale trasformazione delle istituzioni sociali sono il prodotto di una azione quotidiana di sottrazione dallo sfruttamento, di rifiuto del'obbligo di produre plusvalore e di aumentare il valore del capitale riducendo il valore della vita.
Come ho deto non mi piace l'espressione "operaismo" per l'implicita riduzione a un ristreto riferimento sociale, e preferirei usare la parola composizionismo. Il conceto di composizione sociale o composizione di classe, largamente usato dai pensatori "operaisti" sembra aver qualcosa a che fare piutosto con la chimica che con la storia sociale.
Mi piace quest' idea che il luogo in cui si svolgono i processi storici non è il solido roccioso territorio storico di origine hegeliana, ma un ambiente chimico nel quale sessualità, malattia e desiderio combattono e si incontrano e si mescolano e continuamente mutano il panorama. Se usiamo il conceto di composizione possiamo capire meglio quel che è acaduto nel'Italia degli anni 70, e possiamo meglio capire cosa vuol dire autonomia: non la costituzione di un soggeto, non l'identificazione degli esseri umani in una figura sociale fissata, ma il cambiamento continuo delle relazioni sociali, la identificazione e la disidentificazione sesuale, ed il rifiuto del lavoro. Il rifiuto del lavoro è in effetti generato dalla complessità degli investimenti sociali del desiderio.
In questo quadro autonomia significa che la vita sociale non dipende solo dala regolazione disciplinare imposta dal potere economico, ma dipende anche dagli spostamenti, scivolamenti e dissoluzioni che sono il processo di auto-composizione della società vivente. Lotta, ritirata, alienazione, sabotaggio, linee di fuga dal sistema di dominio capitalista. Questo è il significato del'espressione "rifiuto del lavoro". Rifiuto del lavoro significa molto semplicemente: "non voglio andare al lavoro perché preferisco dormire". Ma questa pigrizia è la fonte del'inteligenza, della tecnologia e del progreso. Autonomia è l'autoregolazione del corpo sociale, nella sua indipendenza e nele sue interazioni con la norma disciplinare.

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Autonomia e deregulation

C'è un altro aspeto del'autonomia che è stato poco approfondito finora. Il processo di autonomizzazione di lavoratori dal loro ruolo ha provocato un teremoto sociale che ha a sua volta scatenato la deregulation capitalistica. La parola deregulation fa la sua comparsa sula scena ideologica alla fine degli anni Sessanta, e interpreta uno spirito destruturante che discende dal pensiero libertario e antiautoritario dei decenni precedenti. C'è tuta una tradizione del de-reglement che core lungo le filiere della cultura hippy libertaria californiana, del pensiero autonomo italiano e del'epistemologia desiderante francese che predica l'autonomia della dinamica sociale dal dominio statale e autoritario. Il liberismo raccoglie la spinta di queste culture e la trasforma in fanatismo del'economia. L'autonomia sociale ha scatenato le potenze
del sapere e del'immaginazione coletiva, ma il liberismo traduce questa liberazione sul tereno paranoico della competitività.
La deregulation che apparve sula scena mondiale nel'epoca di Thatcher e di Reagan si può vedere come la risposta capitalistica al'autonomizzazione dal'ordine disciplinare del lavoro industriale. Gli operai chiedevano libertà dala regolazione capitalista, e poi il capitale ha fato la stesa cosa, ma in maniera rovesciata. La libertà dala regolazione di stato è diventata in efeti dispotismo sul tessuto sociale, sula vita quotidiana delle persone concrete. I lavoratori chiedevano libertà dala prigione del lavoro a vita della
fabbrica industriale, e la deregulation rispose atraverso la flessibilizzazione del lavoro e la fratalizzazione del lavoro.

Il movimento di autonomia negli anni 70 mise in moto un proceso pericoloso, ma indispensabile. Un proceso che si sviluppò dal rifiuto sociale del dominio capitalista ala vendeta capitalista che prese forma di deregulation, libertà del'impresa da ogni controlo statale, distruzione delle protezioni sociali, riduzione ed esternalizzazione della produzione, taglio della spesa sociale, detassazione, e, finalmente, flessibilizzazione. Il movimento di autonomia mise in moto efetivamente la destabilizzazione del contesto sociale uscito da un secolo di pressioni sindacali e di regolazione statale. Commettemmo noi forse un terribile errore? Dovremmo pentirci delle azioni di disenso e di sabotaggio, di autonomia, di rifiuto del lavoro che sembrano aver provocato la deregulation capitalista? Assolutamente no.
Il movimento di autonomia effettivamente anticipò la tendenza, ma il fenomeno della deregulation era iscritto nelle linee di sviluppo del capitalismo postindustriale, ed era naturalmente implicito nella ristrutturazione tecnologica della globalizzazione produtiva.
C'è una stretta relazione tra rifiuto del lavoro informatizzazione delle fabbriche, riduzione degli organici ed esternalizzazione delle commesse, e flessibilizzazione del ciclo complessivo del lavoro. Ma questa relazione è molto più complesa di quel che può essere una catena di cause e di efetti. Il processo di deregulation era iscrito nelo sviluppo delle nuove tecnologie che permetevano alle corporation capitaliste di lanciare il proceso di globalizazione. Un processo simile è acaduto anche nel campo dei media, nelo stesso periodo.
Pensate ale radio libere italiane negli anni 70. In quegli anni in Italia c'era un monopolio statale della telecomunicazione, e l'emitenza privata era proibita. La sinistra politica, particolarmente il PCI denunciava i mediativisti di Radio Alice perché li acusava di rompere il sistema pubblico di comunicazione e di aprire così la strada ai media privati. Dovremmo pensare che avesse ragione la sinistra statalista che si opponeva ala proliferazione comunicativa in nome della difesa del sistema pubblico? Non credo proprio. Penso che la sinistra tradizionale si sia sbagliata per varie ragioni. Prima di ttuto perché la fine del monopolio di stato era iscritto nelle evoluzioni delle tecnologie di comunicazione, in secondo luogo perché la libertà di espressione è meglio che la centralizzazione statale dei media. In quel momento la sinistra rappresentava una forza di conservazione statalista, in Italia come nei paesi del'est europeo. Essa rappresentava una cornice culturale che non poteva sopravvivere nella transizione postindustriale. La stessa cosa potremmo dire a proposito della fine del'impero sovietico.
Sappiamo che oggi la popolazione russa sta peggio di come stava venti anni fa, e la cosiddetta democratizzazione della società russa ha portato sopratutto distruzione delle protezioni, scatenamento di un incubo di competizione aggressiva, violenza, coruzione e msieria esistenziale.
Ma la dissoluzione del regime socialista era inevitabile, perché quel'ordine bloccava la dinamica del desiderio sociale, e perché impediva la innovazione culturale. La dissoluzione dei regimi comunisti era iscrita nella composizione sociale del'inteligenza coletiva, nel'immaginario creato dai nuovi media globali, e negli investimenti coletivi di desiderio. Ecco perché l'inteletualità democratica, e le forze culturali disidenti presero parte ala lota contro il regime socialista, anche se speso sapevano che il capitalismo non sarebbe stato un paradiso. Ora la deregulation sta devastando quela che un tempo era
la società sovietica, e si sperimenta lo sfrutamento e la miseria e l'umiliazione a un punto forse mai raggiunto, ma questa transizione era inevitabile e in un certo senso è stato un mutamento progressivo.

Deregulation non significa solo emancipazione del'impresa privata dala regolazione di stato e riduzione della spesa pubblica e delle protezioni sociali. Significa anche flesibilizazione del lavoro. La realtà della flessibilità del lavoro è l'altra facia di questo tipo di emancipazione dala disciplina capitalista. Non dovremmo sotovalutare il colegamento tra il rifiuto del lavoro e la flessiblizzazione che lo ha seguito.
Una delle idee forti del movimento di autonomia era "precario è belo". La precarietà del lavoro è una forma di autonomia dal lavoro regolare che dura per tuta la vita. Negli anni '70 era comune lavorare per qualche mese, poi licenziarsi per andare a farsi un viaggio, tornare e riprendere il lavoro per pochi mesi e così via. In condizioni di quasi pieno impiego ed in presenza di una difusa cultura egualitaria, non competitiva, non consumista, uno stile di vita di questo genere è possibile, e fa bene alo spirito e al
corpo. L'ofensiva neoliberista degli anni otanta puntava a rovesciare il rapporto di forza.
Deregulation e flesibilizazione del lavoro sono stati l'efeto ed il rovescio del'autonomia operaia.
Dobbiamo capirlo non solo per ragioni storiche. Se vogliamo capire cosa dobbiamo fare oggi, nel'epoca della piena flessibilità del lavoro umano che però è anche fase della crisi del neoliberismo, dobbiamo capire come poté verificarsi la ocupazione del campo del desiderio sociale in quel pasaggio dagli anni setanta agli anni otanta da parte di un immaginario economicista e competitivo.

Negli ultimi decenni l'informatizzazione del machinario ha giocato un ruolo cruciale nella flessibilizzazione del lavoro insieme ala inteletualizzazione e immaterializzazione dei principali cicli di produzione.
L'introduzione delle nuove tecnologie eletroniche e l'informatizzazione del ciclo produtivo ha aperto la strada ala creazione di una rete globale di infoproduzione, deteritorializzata, delocalizata e spersonalizzata. Soggetto del proceso lavorativo sociale è divenuto sempre più la rete globale di info-produzione, e il tessuto umano delle persone che lo compongono si è frammentato fino a dissolversi. Non ci sono più esseri umani che lavorano, ma frammenti temporali assoggetati al processo di valorizzazione, atomi di tempo ricombinati nel ciclo produttivo globale. I lavoratori industriali avevano rifiutato il loro ruolo nella fabbrica, e in questo modo avevano guadagnato libertà e autonomia dal dominio capitalista, dal controlo sul loro tempo di vita. Ma questa situazione ha condoto i capitalisti a investire in tecnologie che risparmiano lavoro, ed a cambiare la composizione tecnica del processo lavorativo, per poter espellere gli operai industriali e le loro forme di organizzazione autonoma, per poter creare una nuova organizzazione del lavoro che potesse essere più flessibile.
autonomia.

Ascesa e caduta del'alleanza di lavoro cognitivo e capitale ricombinante

Intelletualizzazione e immaterializzazione del lavoro sono una faccia del mutamento delle forme di produzione sociale. L'altra faccia è la globalizazione planetaria. Immaterialità e globalizzazione sono due facce complementari. La globalizzazione è un processo che implica aspetti di pesante materialità, perché il lavoro industriale non sparisce nel'epoca postindustriale, ma emigra verso le zone geografiche in cui è possibile pagare bassi salari, e in cui la legislazione non protegge il lavoro e favorisce la libera impresa anche a scapito del'ambiente e della società. La prospetiva del'estensione planetaria del processo di produzione industriale era stato previsto da Mario Tronti in un articolo uscito nel'ultimo numero della rivista Classe operaia, nel 1967. Tronti aveva scrito: il fenomeno più importante dei prossimi decenni fino ala fine del secolo ventesimo sarà lo sviluppo della classe operaia su scala planetaria globale. Questa intuizione non era fondata sul'analisi del processo di produzione capitalistico, ma era basato sulla comprensione delle trasformazioni nella composizione del lavoro. La globalizzazione e l'informatizzazione potevano essere previsti come un efetto del rifiuto del lavoro nei paesi industriali del'occidente.
Durante gli ultimi due decenni del ventesimo secolo abbiamo assistito a una sorta di alleanza tra il capitale ricombinante e il lavoro cognitivo. Chiamo ricombinante il capitale che non è strettamente conneso a una particolare applicazione industriale, ma è rapidamente trasferibile da un posto al'altro, da un'applicazione industriale al'altra, da un setore di atività economica a un altro. Si può definire ricombinante il capitale finanziario che prende un ruolo centrale nella politica e nella cultura degli anni ‘90. L'aleanza di lavoro cognitivo e capitale finanziario ha prodoto efeti culturali importanti, come la identificazione ideologica del lavoro e del'impresa. I lavoratori sono stati spinti a vedersi come auto-imprenditori, e in questa visione c'è una parte di verità, nel periodo di fioritura delle dotcom, quando il lavoratore cognitivo poteva creare la sua impresa investendo la sua forza inteletuale (un'idea, un progetto, una formula) come un bene valutabile in termini finanziari.
Era il periodo che Geert Lovink, nel suo importante libro "Dark Fiber" ha definito dotcommania. Cosa è stata la dotcommania? La partecipazione di massa al ciclo del'investimento finanziario negli anni '90 mise in moto un proceso di auto-organizazione dei produtori cognitivi. I lavoratori cognitivi investivano la loro esperienza, sapere e creatività, e trovarono nel mercato azionario i mezzi per creare imprese. Per parecchi la forma impresa divenne il punto in cui si incontrarono il capitale finanziario e il lavoro cognitivo ad alto potenziale produtivo.

L'ideologia libertaria e liberale che dominava la cibercultura (soprattuto americana) negli anni 90 idealizzava il mercato presentandolo come un ambiente puro. In questo ambiente, naturale come la lotta per la sopravvivenza del più forte che rende possibile l'evoluzione, il lavoro trova i mezzi necesari per valorizzarsi e per divenire impresa. Una volta lasciato ala sua dinamica, il sistema economico di rete era destinato a ottimizzare i profiti economici per tuti, proprietari e lavoratori, anche perché la distinzione tra proprietari e lavoratori diveniva sempre più impercetibile quando si entra nel circuito produtivo virtuale.
Questo modelo, teorizato da autori come Kevin Kely e trasformato dala rivista Wired in una sorta di Weltanschauung digital-liberista, arogante e trionfalista, ha fato bancarota al'inizio del nuovo milennio, insieme ala new economy e insieme a una larga parte del'esercito di imprenditori cognitivi che avevano abitato il mondo delle dotcom. La ragione della bancarota sta nel fato che il modelo di un mercato perfettamente libero è una menzogna teorica e pratica. Quel che il neoliberismo ha rafforzato nel lungo periodo non è il libero mercato, ma il monopolio.
nella seconda metà degli anni '90 si è sviluppata una vera e propria lota di classe al'interno del circuito produttivo delle alte tecnologie. Il divenire della rete è stato segnato da questa lota, di cui oggi non è chiaro l'esito. Certamente l'ideologia di un mercato libero e naturale si è rivelata un inganno. L'idea che il mercato funzioni come un ambiente puro di confronto tra idee progeti, qualità e utilità dei servizi è stata spazzata via dal'amara verità della guera che i monopoli hanno condoto contro la moltitudine dei lavoratori auto-imprenditori e contro la patetica masa dei micro-traders. La lotta per la sopravvivenza non è stata vinta dal migliore e dal più fortunato, ma da quello che ha tirato fuori il cannone: il cannone della violenza, della rapina, del furto sistematico, della violazione di ogni norma etica e legale. L'aleanza Bush – Gates ha sanzionato la liquidazione del mercato, e a quel punto la fase della lotta interna della classe virtuale è finita. Una parte della clase virtuale è entrata nel complesso militar-industriale, un'altra parte (la larga maggioranza) è stata espulsa dal'impresa e spinta ai margini di una esplicita proletarizzazione. Sul piano culturale stanno emergendo le condizioni per la formazione di una coscienza sociale del cognitariato e questo potrebbe essere il fenomeno più importante degli anni a venire, la sola chiave che possa ofrire soluzioni al disastro.

Le dotcom sono state il laboratorio di sperimentazione di un modelo produtivo e di un mercato. Ala fine il mercato è stato conquistato e soffocato dale corporation monopolistiche, e l'esercito degli auto-imprenditori e dei microcapitalisti di ventura è stato rapinato e dissolto. Così una nuova fase è cominciata: i gruppi che sono divenuti predominanti nel ciclo della net-economy forgiano un'alleanza con il gruppo dominante della old-economy (il clan mafioso di Bush o di Berlusconi, l'industria militare o
quela del petrolio ec.), e in questa fase si manifesta un blocco del processo di globalizzazione produtiva. Il neoliberismo ha prodoto la sua negazione e coloro che erano i suoi più entusiasti sostenitori sono diventate le vitime marginalizzate.

Con il dotcom-crash il lavoro cognitivo si è separato dal capitale. Gli artigiani digitali, coloro che negli anni novanta si sono sentiti imprenditori del proprio lavoro, si accorgeranno poco ala volta di esere stati raggirati, derubati, espropriati, e questo creerà le condizioni di una coscienza di tipo nuovo dei lavoratori cognitivi. Questi si renderanno conto che pur possedendo tuta la potenza produtiva, sono stati espropriati dei suoi fruti da una minoranza di speculatori ignoranti ma abili a maneggiare gli aspeti
legali e finanziari del proceso produtivo. Il ceto improdutivo della clase virtuale, gli avvocati e i ragionieri, si appropriano del plusvalore cognitivo prodoto dai fisici dagli informatici, dai chimici dagli scritori e dai mediaoperatori. Ma questi posono separarsi dal castelo giuridico e finanziario del semiocapitalismo, e costruire un rapporto direto con la società, con gli utenti: E alora inizierà forse il processo di autorganizzazione autonoma del lavoro cognitivo. Un processo che del resto è già in ato come dimostrano le esperienze del mediativismo, e la creazione di reti di solidarietà per il lavoro
migrante.

Era per noi necessario atraversare il purgatorio delle dotcom, l'ilusione di una fusione tra lavoro e impresa capitalista, e anche l'inferno della recesione e della guera infinita, per poter veder emergere in problema in termini chiari. Su un piano il sistema inutile e ossessivo del'acumulazione finanziaria e la folia della privatizzazione della conoscenza pubblica, l'eredità della vecchia economia industriale.
Dal'altra parte il lavoro produtivo sempre più iscrito nele funzioni cognitive della società. Il lavoro cognitivo comincia a vedersi come cognitariato, e comincia a costruire istituzioni di conoscenza, di creazione, di cura, di invenzione e di educazione che sono autonome dal capitale.

Frattalizazione psicopatia suicidio

nella net-economy la flessibilità si è evoluta in una forma di frattalizzazione del lavoro. Frattalizzazione significa frammentazione del tempo di attività. Il lavoratore non esiste più come persona. E' soltanto un produtore intercambiabile di micro-frammenti di semiosi ricombinante che entra nel flusso continuo della rete. Il capitale non paga più la disponibilità del lavoratore ad essere sfrutato per un lungo periodo di tempo, non paga più un salario che copra l'intero campo dei bisogni economici di una persona che lavora.
Il lavoratore (macchina che posiede un cervelo che può essere usato per frammenti di tempo) viene pagato per la sua prestazione puntuale, occasionale, temporanea. Il tempo di lavoro è frattalizzato e celularizzato. Le celule di tempo sono in vendita sula rete, e le aziende possono comprarne tanto quanto ne vogliono senza impegnarsi in nessun modo nella protezione sociale del lavoratore. Il lavoro cognitivo è un oceano di microscopici frammenti di tempo, e la celularizazione è la capacità di ricombinare frammenti di tempo nella cornice di un singolo semio-prodoto. Il telefono cellulare può essere visto come la catena di montaggio del lavoro cognitivo.
Questo è l'efetto della flesiblizzazione e della fratalizzazione del lavoro: quel che era autonomia e potere politico del lavoro è divenuto totale dipendenza del lavoro cognitivo dal'organizazione capitalistica della rete globale. Questo è il nucleo centrale della creazione del semiocapitalismo. Quel che era rifiuto del lavoro è divenuto dipendenza completa delle emozioni e del pensiero dal flusso di informazione. E l'efeto di questo è una specie di crolo nervoso che colpisce la mente globale e provoca quel che abbiamo preso l'abitudine di chiamare dotcomcrash. La crisi del capitalismo di masa finanziario si può vedere come un efetto del colasso del'investimento economico del desiderio sociale. Uso la parola collasso in un senso che non è metaforico ma piutosto una descrizione clinica di quel che sta accadendo nella mente occidentale. La parola collasso esprime un crolo patologico vero e proprio del'organismo psico-sociale. Quel che abbiamo visto nel periodo seguito ai primi segni di crollo economico, nei primi mesi del nuovo secolo è un fenomeno psicopatico, è il colasso della mente globale.
Vedo la depressione economica attuale come un efetto colaterale di una depressione psichica. L'intenso e prolungato investimento lavorativo del desiderio e delle energie mentali e libidinali ha prodotto l'ambiente psichico ideale per un colasso che ora si sta manifestando nel campo del'economia con la recessione e il crolo della domanda, nel campo politico in forma di aggressività militare, e nel campo culturale nella forma di una tendenza suicidaria di massa.
L'economia del'attenzione è divenuta un soggetto importante negli ultimi anni. I lavoratori virtuali hanno sempre meno tempo di atenzione disponibile, perché sono coinvolti in un numero crescente di compiti mentali che occupano ogni spazio del loro tempo di atenzione, e non hanno più il tempo da dedicare alla loro vita, al'amore, ala tenerezza, al'afeto. Prendono Viagra perché non hanno il tempo per i preliminari del sesso. La celularizzazione ha portato una specie di occupazione permanente del tempo di vita. L'efetto è una psicopatologizzazione della relazione sociale. I sintomi sono evidenti: milioni di scatole di psicofarmaci si vendono nele farmacie, l'epidemia di disturbi del'atenzione si difonde tra i bambini e gli adolescenti, la difusione di farmaci come il Ritalin nele scuole diviene normale, e un'epidemia di panico sembra difondersi.
Lo scenario dei primi anni del nuovo milennio sembra dominato da una vera e propria ondata di comportamento psicopatico. Il fenomeno suicidario si difonde molto al di là dei confini del fanatismo islamico. Dal'11 setembre 2001 il suicidio è divenuto l'ato politico cruciale sula scena politica globale. Il suicidio aggresivo non deve esere visto solo come un fenomeno di disperazione e di aggresione, ma va visto come una dichiarazione della fine. L'onda suicidaria sembra suggerire che il genere umano è fuori tempo massimo, e la disperazione è divenuta il modo prevalente di pensiero sul futuro.

E alora? Non ho risposte da dare. Quel che possiamo fare è solo quello che stiamo effettivamente già facendo: L'autorganizzazione del lavoro cognitivo è la sola via per andare oltre il presente psicopatico.
Non credo che il mondo possa esere governato dala ragione. L'utopia del'Illuminismo è fallita. Ma penso che la disseminazione di conoscenza autorganizzata psosa creare la cornice sociale di un numero infinito di mondi autonomi. Il proceso di creazione della rete è così compleso che non può essere governato dala ragione umana. La mente globale è troppo complesa per esere conosciuta e padroneggiata da menti localizzate subtotali. Non posiamo conoscere, non possiamo controlare, non posiamo governare l'intera forza della mente globale.
Ma possiamo governare il processo singolare di produzione di un mondo singolare di socialità. Questo è oggi