L'intera opera di Albert Camus -- per stessa ammissione dell'autore
-- può essere considerata un vero e proprio percorso filosofico «a
tappe»: nel presente lavoro ci occuperemo di mostrare nel dettaglio
soltanto un parte di tale percorso -- quella che va dall'assurdo alla
rivolta -- per poi mostrare i possibili risvolti etici di tale ultimo
approdo concettuale. Cominciamo dunque subito con l'analisi della
condizione assurda.
1. L'assurdo come punto di partenza
Anche l'assurdo ha le sue origini: esse vanno ricercate in quel concetto
ad esso immediatamente precedente costituito dall'estraneità. La sua
prima e più completa trattazione la ritroviamo sotto forma di romanzo
ne Lo straniero1,
ma senza ombra di dubbio è ne Il mito di Sisifo che tale concetto
viene affrontato esplicitamente da un punto di vista filosofico. Se
dovessimo tentare una prima ed elementare definizione, potremmo provare
con la seguente: «condizione esistenziale nella quale l'uomo è straniero
al mondo in cui vive». Ma a ciò andrebbe subitamente aggiunto l'aspetto
più importante di tale condizione: in essa, l'uomo non è consapevole
della sua stessa estraneità; egli si limita a viverla sulla sua pelle,
appunto inconsapevolmente. Proprio questa inconsapevolezza è ciò che
distingue tale condizione da quella assurda, a tal punto che una prima
e complementare definizione di assurdo potrebbe essere proprio la
seguente: una «estraneità consapevole». A conferma di tale intuizione
ci viene incontro un passaggio interessante del Mito:
E avviene così che la scena si sfasci. La levata, il tram, le quattro
ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro
ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì
mercoledì giovedì venerdì e sabato sullo stesso ritmo... questo
cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo.
Soltanto, un giorno, sorge il "perché" e tutto comincia in una stanchezza
colorata di stupore. "Comincia", questo è importante. La stanchezza
sta al termine degli atti di una vita automatica, ma inaugura al
tempo stesso il movimento della coscienza, lo desta e provoca
il seguito, che consiste nel ritorno incosciente alla catena o nel
risveglio definitivo. Dopo il risveglio viene, col tempo, la conseguenza:
suicidio o ristabilimento. In sé, la stanchezza ha qualche cosa
di disgustoso, ma, in questo caso, devo concludere che è vantaggiosa.
Infatti, tutto comincia con la coscienza e nulla ha valore se
non per mezzo di questa. Le presenti osservazioni non hanno
nulla di originale, ma sono evidenti: bastano per un certo tempo,
quando si tratti di studiare sommariamente le origini dell'assurdo.2
In questo lungo passaggio -- caratteristico per la sua disarmante
ma efficace semplicità -- troviamo dunque confermata l'idea secondo
la quale l'assurdo si origina dall'estraneità: esso sorge a seguito
di quella riflessione su se stesso del soggetto estraniato che determina
un passaggio dall'inconsapevolezza nella quale si è immersi nel vivere
quotidiano alla consapevolezza che necessariamente richiede la domanda
sul «perché» del proprio stesso vivere.3
Ma l'estraneità, presa in sé stessa, rappresenta però molto di più
di un semplice precursore dell'assurdo. Essa significa in realtà la
radicale e permanente «differenza ontologica» che intercorre tra l'uomo
e il mondo, differenza che contrappone razionalità ed emotività umane
all'inscalfibile indifferenza del mondo.4
Sicché possiamo definire a pieno titolo l'estraneità come una categoria
esistenziale originaria, al pari della Geworfenheit heideggeriana.5
A tale condizione esistenziale di smarrimento -- nella quale si è
esposti ad una sofferenza interiore più o meno latente -- l'uomo tenta
di far fronte attraverso un processo di «mascheramento», per mezzo
del quale il vero volto del mondo viene occultato con immagini (teologiche,
scientifiche, metafisiche, etc.) atte a renderlo più familiare ed
ospitale. Ma il mondo in sé è nudità e mutismo: tali immagini non
sono altro che categorie antropomorfiche, «sustruzioni concettuali»
che mal si applicano alla realtà del tutto irragionevole del mondo:
Scendiamo ancora di un gradino (rispetto all'assurdo, n. d. A.)
ed ecco l'estraneità: accorgersi che il mondo è "denso", intravedere
fino a che punto una pietra sia estranea e per noi irriducibile,
con quale intensità la natura, un paesaggio possano sottrarsi a
noi. Nel fondo di ogni bellezza sta qualcosa di inumano, ed ecco
che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono,
nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo,
più distanti ormai che un paradiso perduto. L'ostilità primitiva
del mondo risale verso di noi, attraverso i millenni. Per un secondo
non lo comprendiamo più, [sia] perché per secoli non avevamo capito
in esso [nient'altro] che le figure e i disegni che gli avevamo
antecedentemente attribuiti, sia perché ormai ci mancano le forze
per servirci di tale artificio. Il mondo ci sfugge poiché ritorna
sé stesso. Le scene travisate dall'abitudine, ridiventano ciò che
sono e si allontanano da noi.6
Arrivati a questa consapevolezza della sfuggevolezza del mondo al
tentativo «umano, troppo umano» di razionalizzazione del medesimo,
si è ad un passo dal senso dell'assurdo. Manca ancora un consolidamento
ultimo di tale coscienza: occorre infatti renderla lucida e definitiva.
Bisogna cioè riconoscere che se nel mondo non è possibile rintracciare
alcunché, non è a causa di un'insufficienza della «vista», bensì di
una radicale assenza di qualsiasi senso da cogliere.
Qual è, dunque, quell'imponderabile sensazione che priva lo spirito
del sonno necessario alla vita? Un mondo che possa essere spiegato,
sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa,
in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l'uomo
si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché
privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una
terra promessa. Questo divorzio tra l'uomo e la sua vita, fra
l'attore e la scena, è propriamente il senso dell'assurdo.7
L'uomo assurdo è dunque l'uomo di una certa impossibilità. Egli ha
riconosciuto che l'estraneità non è una condizione contingente: egli
afferma che non la sua singola vita, ma la vita in generale è estraneità.
La sua peculiare impotenza è allora quella di non poter più possedere
il mondo come prima,8
all'interno di quella accogliente familiarità che ne caratterizzava
l'esistenza. In questo definitivo e inconciliabile divorzio, in questo
interminabile e insolvibile confronto, risiede l'intero dramma umano:
da una parte l'uomo, con la sua coscienza ora desta ora assopita,
la sua instabilità emotiva, il suo pensiero e la sua razionalità ardenti
di chiarezza; dall'altra un mondo totalmente indifferente, irragionevole,
incosciente, muto.
L'assurdità nasce da un confronto. È dunque con fondamento che
dico che il senso dell'assurdo non nasce dal semplice esame di un
fatto o di un'impressione, ma scaturisce dal paragone fra uno stato
di fatto e una certa realtà, fra un'azione e il mondo che la supera.
L'assurdo è essenzialmente un divorzio, che non consiste nell'uno
o nell'altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto.
[...] Distruggere uno dei termini, è distruggerl (o) interamente.
Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Così l'assurdo
finisce, come tutte le cose, con la morte. Ma non può neppure esistere
assurdo al di fuori di questo mondo.9
Uomo e mondo si trovano paradossalmente «uniti nella loro inconciliabilità»:
l'assurdo è ora l'unico legame che intercorre tra di loro. Per millenni
il mondo era apparso all'uomo familiare e trasparente: da una parte
la teologia, affermandone la diretta discendenza dalla volontà divina,
ne salvaguardava il primo aspetto; dall'altra la metafisica e ogni
tipo di filosofia speculativa -- nonché, nel suo campo meramente descrittivo,
la scienza10 -- ne
garantivano la piena intelligibilità. La tragedia contemporanea è
allora al tempo stesso la «morte di Dio» e la «fine della metafisica»:
una certa onesta intellettuale, se vuole mantenersi tale,11
non può più avvalersi né della trascendenza divina né di qualsiasi
entità metafisica per spiegare il reale. A partire da questa impossibilità
sorge e si consolida il divorzio tra uomo e mondo:
Dicevo che il mondo è assurdo; ma andavo troppo presto. Il mondo,
in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che
è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio
violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo
dell'uomo. L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo, ed
è, per il momento, il loro solo legame.12
Secondo una certa lettura13
l'assurdo è allo stesso tempo un'esperienza e un concetto. Camus stesso
all'inizio del capitolo Il suicidio filosofico ragiona in questi
termini: «Il senso dell'assurdo non equivale alla nozione dell'assurdo:
la fonda e basta; e non è contenuto in quella, se non il breve istante
in cui esso pronuncia il proprio giudizio sull'universo».14
Finora ci siamo limitati a descrivere il senso dell'assurdo. A partire
da adesso invece ci concentreremo nell'analisi del suo concetto: cercheremo
-- per ritornare all'etimologia greca del termine «analisi» -- di
«sciogliere» e «scomporre» tale concetto nelle sue parti costitutive,
la prima delle quali è quella riguardante il suo sentimento fondante.
L'assurdo ha infatti le sue radici più profonde nell'animo dell'uomo,
in una sua aspirazione intima e primordiale apparentemente ineliminabile.
Camus la definisce con più di un'espressione: «esigenza di familiarità»,
«brama di chiarezza» e «di assoluto», «nostalgia di unità». In sostanza
si tratta del bisogno umano tanto forte quanto insoddisfabile di «costituire
in unità il mondo»:
Il profondo desiderio dello spirito, anche nei suoi più evoluti
processi, si ricongiunge al sentimento incosciente dell'uomo di
fronte al proprio universo: è esigenza di familiarità, brama
di chiarezza. Comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre
quello all'umano, imprimergli il proprio suggello. L'universo del
gatto non è l'universo del formichiere. La lapalissiana verità che
«tutti i pensieri sono antropomorfici» non ha altro significato.
Parimente, lo spirito che cerca di capire la realtà, non può ritenersi
soddisfatto se non quando la riduca in termini di pensiero. Se l'uomo
riconoscesse che anche l'universo può amare e soffrire, si riconcilierebbe
con questo. Se il pensiero scoprisse, nei mutevoli specchi dei fenomeni,
eterne relazioni che potessero sintetizzarli e sintetizzarsi esse
stesse in un unico principio, si potrebbe parlare di una felicità
dello spirito, di cui il mito dei beati sarebbe soltanto una ridicola
contraffazione. Questa nostalgia di unità, questa brama
di assoluto spiega lo svolgimento del dramma umano nella sua
essenza.15
In sostanza, la scena concettuale è la seguente: l'uomo, perseguendo
il suo desiderio di unità, interroga il mondo riguardo al suo principio
unitario, ma esso gli risponde con un enigmatico silenzio: dov'è l'errore?
va forse riformulata la domanda? No, l'errore è la domanda stessa.
Essa non può materialmente essere posta, poiché manca l'interlocutore.16
Il filosofo razionalista che ancora oggi si sforza di costruire un
qualche sistema metafisico è figlio dell'ostinazione. L'assurdo non
insegna altro che questo: il mondo non ha nulla da dirci, qualsiasi
ricerca di un senso in esso è vana -- di un senso che sia indipendente
dalla coscienza umana, unica fonte di significato possibile. L'incomprensibilità
del mondo è nel mondo stesso -- nell'assenza di un senso in esso e
di qualsiasi ragione che lo motivi -- e non in un mio difetto di comprensione.
Voglio che mi sia spiegato tutto o nulla. E la ragione è impotente
di fronte a questo grido del cuore. Lo spirito, risvegliato da questa
esigenza, cerca e non trova che contraddizioni e sragionamenti [dèraisonnements]
. Ciò che io non comprendo è senza ragione. Il mondo è popolato
da questi irrazionali, ed esso stesso, di cui non capisco il significato
unico, non è che un immenso irrazionale.17
Nostalgia di unità e esigenza di familiarità umane sono dunque destinate
irrimediabilmente a rimanere insoddisfatte. È questo il prezzo dell'onestà
assurda, nella quale non tutti hanno la forza di mantenersi. Dirà
a riguardo Camus:
A questa svolta estrema, in cui il pensiero vacilla, molti uomini,
e proprio fra i più umili, sono giunti. Costoro hanno rinunziato
allora a ciò che avevano di più caro: la vita. Altri ancora, principi
nel campo dello spirito, hanno pure fatto tale rinunzia, ma hanno
proceduto al suicidio del loro stesso pensiero, nella più pura rivolta.
Il vero sforzo consiste, al contrario, nel rimanervi per quanto
ciò è possibile, ed esaminare da vicino la barocca vegetazione di
queste contrade lontane. La tenacità e la perspicacia sono spettatori
privilegiati in questo giuoco inumano, dove l'assurdo, la speranza
e la morte scambiano le loro repliche. Lo spirito può allora analizzare
le figure di questa danza al tempo stesso elementare e sottile,
prima di illustrarle e di riviverle in se stesso.18
L'uomo assurdo, arrivato in questi «luoghi deserti ed aridi in cui
il pensiero giunge ai propri confini»,19
deve trarre le sue conseguenze, e non può che farlo nel modo più radicale
possibile. Le conseguenze dell'assurdo: questo è ciò che intimamente
interessa a Camus.20
Egli vuole cioè che la sua riflessione si concentri in ultima analisi
sui risvolti pratici ed esistenziali dell'assurdo, poiché è questo
ciò che conta veramente. Una verità che non abbia delle conseguenze
pratiche non ha una reale importanza. «Io non ho mai veduto alcuno
morire per l'argomento ontologico», dirà nella prima pagina del Mito,
sottolineando che il criterio per determinare l'importanza di un problema
è proprio nelle sue conseguenze pratiche: «se mi domando da che cosa
si possa giudicare che un problema sia più urgente di un altro, rispondo
che lo si può fare dalle azioni che implica».21
L'uomo di fronte all'assurdo deve rispondere, ed in fretta: «il vivere
sotto tale cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga.
Si tratta di sapere come se ne esca nel prima caso e perché si resti
nel secondo».22 Per
quanto riguarda la prima evenienza, Camus intravede essenzialmente
due possibilità: il suicidio -- la negazione di se stessi -- e il
suicidio filosofico -- la negazione dell'assurdo. Nei prossimi due
paragrafi ci occuperemo proprio di analizzare schematicamente queste
due possibilità, mostrandone le ragioni della loro illegittimità.
1.1. Significato e condanna del suicidio e del suicidio filosofico
Uccidersi, in un certo senso e come nel melodramma, è confessare:
confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa.
[...] È confessare che "non vale la pena". Vivere, naturalmente,
non è mai facile. Si continua a fare i gesti che l'esistenza comanda,
per molte ragioni, la prima delle quali è l'abitudine. Morire volontariamente
presuppone che si sia riconosciuto, anche istintivamente, il carattere
inconsistente di tale abitudine, la mancanza di ogni profonda ragione
di vivere, l'indole insensata di questa quotidiana agitazione e
l'inutilità della sofferenza.23
Il suicidio, per quanto sia la maggior parte delle volte un atto
impulsivo e irrazionale, non può certo definirsi un gesto insignificante.
Come si evince dal passo appena citato, il suicidio ha infatti un
suo preciso significato: esso afferma la propria sconfitta nei confronti
del mondo -- che ci supera con la sua sproporzionata insensatezza
-- e della propria vita -- alla quale non si è stati capaci di dare
una «direzione di senso».
Ma al tempo stesso, per quanto significante, il suicidio -- diciamolo
sin da ora -- non è un «gesto assurdo», nel senso che non è né una
conseguenza logica dell'assurdo né un gesto da esso legittimato.24
L'attenzione dedicata da Camus al tema del suicidio è esclusivamente
funzionale al tema della vita e del suo senso: per dirla in parole
semplici e volutamente paradossali, Camus si concentra sul tema della
morte (volontaria) per parlare del suo opposto, la vita. Infatti,
nell'ineguagliabile incipit del Mito, suicidio e senso
della vita sono posti in diretta successione, proprio a sottolineare
tale loro intima connessione:
Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del
suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere
vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il
resto -- se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia
nove o dodici categorie -- viene dopo. [...] Giudico dunque che
quella sul senso della vita è la più urgente delle domande.25
Detto ciò, veniamo ora a ciò che più ci interessa, cioè alle ragioni
della condanna del suicidio da parte dell'assurdo. Nel primo paragrafo
avevamo mostrato come l'assurdo si origini a partire da un determinato
movimento della coscienza che, riflettendo su se stessa e sulla sua
vita personale, diviene consapevole della propria estraneità. Ma la
coscienza non è in realtà solo l'elemento genetico dell'assurdo, non
si limita cioè ad «attivarlo» -- a «produrlo» -- per poi allontanarsene:
essa è invece lo stesso elemento che ne permetta la durata e la persistenza.
La coscienza è, dunque, condizione di possibilità dell'assurdo. O,
volendo condensare il tutto in una massima: non si dà assurdo senza
coscienza dell'assurdo. Questo perché l'assurdo non è un realtà
a sé -- qualcosa in sé sussistente nel mondo, trascendente la coscienza
-- bensì una tensione originantesi proprio dal confronto tra la coscienza
e il mondo, «fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del
mondo».26
Domandiamoci allora: in questo ordine di cose, qual'è il ruolo del
suicidio? Esso coincide evidentemente con la soppressione volontaria
della coscienza e quindi di conseguenza -- stando a quanto abbiamo
detto -- dell'assurdo stesso. Ma è proprio qui il problema: per Camus
«l'assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso»,27
e il suicidio è proprio tale consenso all'assurdo. Di qui scaturisce
la sua illegittimità:
È qui che si vede fino a qual punto l'esperienza assurda si scosti
dal suicidio. Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma
a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa,
ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso
che presuppone. Il suicidio, come il salto, è l'accettazione
del proprio limite. [...] A suo modo il suicidio risolve l'assurdo,
perché lo trascina nella stessa morte. Ma io so che per mantenersi,
l'assurdo non può risolversi. Esso sfugge al suicidio nella misura
in cui è al tempo stesso coscienza e rifiuto della morte.28
L'assurdo dunque non comanda il suicidio, ma anzi lo condanna fermamente,
perché esso «è un disconoscimento».29
L'uomo di fronte all'assurdo, sempre se vuole conservarsi all'interno
di una certa onestà, deve mantenere la propria coscienza salda e vigile,30
così da affermare contro l'assurdo la propria rivolta -- che però
non è ancora la rivolta di cui ci occuperemo successivamente. È lo
stesso Camus ad usare proprio tale termine, anticipando in qualche
modo quella che sarà poi la sua tematica fondamentale:
Coscienza e rivolta: questi rifiuti sono il contrario della
rinunzia. [Conscience et révolte, ces refus sont le contraire
du renoncement] Tutto ciò che vi è di irriducibile e di appassionato
in un cuore umano li anima, al contrario, della propria vita. Si
tratta di morire irreconciliati e non già di pieno accordo. Il suicidio
è una sconoscenza. L'uomo assurdo non può far altro che tutto esaurire
ed esaurirsi. L'assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli
conserva costantemente con uno sforzo solitario, poiché sa che in
questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli attesta
la sua sola verità, che è la sfida. Questa è una prima conseguenza.31
Tale passo ci consente di introdurre una distinzione fondamentale
nella filosofia camusiana che è quella tra rifiuto e rinuncia:
in sostanza tale distinzione afferma che rifiutare la condizione nella
quale si è calati non significa automaticamente rinunciare a vivere
in essa, e così è -- e deve essere -- per l'assurdo. Camus, nell'incipit
de L'uomo in rivolta, insisterà proprio su tale «rifiuto senza
rinuncia» quando, domandandosi «che cos'è un uomo in rivolta? », risponderà
che esso è «un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia:
è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». Anche
all'uomo assurdo spetta dunque una certa positività, sicché la rinuncia
per eccellenza -- il suicidio -- gli è estranea. A conferma di tale
affermazione, nell'introduzione dell'appena citato testo del 1951,
Camus dichiara esplicitamente:
la conclusione ultima del ragionamento assurdo consiste infatti
nel respingere il suicidio e nel mantenere quel confronto disperato
tra l'interrogazione umana e il silenzio del mondo. Il suicidio
significherebbe la fine di questo confronto e il ragionamento assurdo
ritiene di non potervi sottoscrivere se non negando le proprie premesse.
Per esso, tale conclusione sarebbe fuga o liberazione. Ma è chiaro
che con ciò il ragionamento assurdo ammette la vita come il solo
bene necessario, in quanto essa permette appunto il confronto: senza
vita, la scommessa assurda non avrebbe appoggio alcuno.32
Per le stesse motivazioni, all'uomo assurdo è estraneo anche il cosiddetto
«suicidio filosofico»: se il suicida di fronte all'assurdo negava
se stesso, con questo particolare suicidio è invece l'assurdo stesso
ad essere negato «in nome dell'eternità». La parola «abnegazione»
descrive al meglio tale gesto: lì dove l'unica vera evidenza -- la
più scottante e innegabile -- è l'assurdo, il «suicida filosofico»
sacrifica tale evidenza e il pensiero che la attesta in nome di una
paradossale fede in una indimostrabile eternità. Egli compie un «salto
mortale» verso la trascendenza. Ma così facendo non sta che cedendo
il passo alla speranza e all'illusione. Camus utilizza una splendida
metafora a tal proposito:
Nei musei italiani, si trovano, a volte, piccoli schermi dipinti,
che il prete teneva davanti il viso dei condannati, per nascondere
loro il patibolo. Il salto, in tutte le sue forme, il precipitarsi
nel divino o nell'eterno, l'abbandonarsi alle illusioni del quotidiano
o dell'idea, tutti questi schermi celano l'assurdo.33
Anche qui, dunque, ci troviamo di fronte ad una «sconoscenza». Ma
la logica assurda insegna che bisogna attenersi alla verità e all'evidenza,
bisogna -- lo ripetiamo ancora una volta -- mantenersi onesti. Quando
Kierkegaard, o il meno conosciuto Chestov, nonché gli esistenzialisti
e addirittura la fenomenologia di Husserl34
proclamano il salto, stanno in realtà rimettendosi alla trascendenza.
Vi è in questo una seconda umiliazione della ragione -- lì dove la
prima umiliazione era quella della ragione di fronte alle «muraglie
assurde». Il salto, lungi dall'essere una nuova affermazione della
ragione, è in realtà un suo totale abbandono. Chestov, ad esempio,
afferma che
la sola vera via di uscita è proprio là dove, secondo il giudizio
umano, non v'è alcuna. Altrimenti, perché avremmo bisogno di Dio?
Non ci si rivolge a Dio che per ottenere l'impossibile. Quanto al
possibile, gli uomini soli vi bastano.35
Ma quale logica coerente vi può mai essere ancora in funzione in
un pensiero del genere? Nessuna, perché si è ormai compiuto quello
che Ignazio di Loyola definiva «il sacrificio dell'intelletto». Camus
rifiuta nettamente un simile sacrificio. Lutero sosteneva che la ragione
«nei credenti dev'essere uccisa e sepolta». Ma per l'uomo assurdo
è vero il contrario: la ragione ha un suo preciso dominio di validità,
nel quale è uno strumento legittimo di conoscenza ma oltre
il quale non può andare. Proprio oltre tali limiti si affrettano
ad andare gli uomini della speranza e del salto: ma essi, lungi dal
risolvere il problema dell'assurdo, lo distruggono. In tale distruzione,
la nostalgia di unità prevale sulle evidenze della ragione: sia il
filosofo razionalista che quello religioso hanno fretta di concludere
e di risolvere, ma in realtà tutto ciò che vogliono fare è saltare.
La ragione e l'irrazionale conducono alla stessa predicazione.
Il fatto è che, in verità, il cammino ha poca importanza e la volontà
di arrivare basta a tutto. Il filosofo astratto e il filosofo religioso
partono dallo stesso smarrimento e si sostengono nella stessa angoscia.
Ma l'essenziale è dare una spiegazione. Qui la nostalgia è più forte
della scienza. [...] questo divorzio (l'assurdo, n. d. A.) è soltanto
apparente. Si tratta di giungere ad una conciliazione e, in entrambi
i casi, basta il salto.36
Il loro è un naufragio dissimulato. Ancora una volta tutto si riduce
ad una questione di onestà: «sapersi mantenere su questa cresta vertiginosa
(che precede il salto, n. d. A.), ecco l'onestà: il resto è sotterfugio».37
Riconosciuti i limiti della ragione, nulla ci legittima a oltrepassarli
-- neanche la nostra irrefrenabile nostalgia di unità e brama di chiarezza.
L'esistenza di tali ansie ineliminabili non ne attesta la legittimità:
esse sono destinate a rimanere senza requie per loro stessa essenza.
Colui che crede di poter fare il contrario si nutre soltanto delle
«rose dell'illusione».38
La perspicacia e l'insistenza camusiana ci insegnano semplicemente
di attenerci alle evidenze:
il mio ragionamento vuol essere fedele all'evidenza che lo ha destato.
Tale evidenza è l'assurdo. È il divorzio fra lo spirito che desidera
e il mondo che delude, è la mia nostalgia di unità; l'universo disperso
e la contraddizione che lega l'una all'altro. [...] si trattava
di vivere e di pensare con questo strazio, di sapere se bisognava
accettare o rifiutare, ma non certo di mascherare l'evidenza, di
sopprimere l'assurdo, negando uno dei termini della sua equazione.39
Camus non nega la trascendenza o l'eternità.40
Nega invece che si possa vivere in essa e per essa. Tutto ciò che
la ragione ci dice è che l'uomo è una finitudine, che ha dei limiti
oltre i quali non può andare:
Questo -- si dice -- passa la misura umana, bisogna dunque che
sia sovrumano. Ma questo "dunque" è eccessivo. Qui non vi è affatto
certezza logica e neppure probabilità sperimentale. Tutto quanto
posso dire è che, in realtà, ciò passa i miei limiti. Se anche non
ne traggo una negazione, almeno non voglio fondare nulla sull'incomprensibile.
Voglio soltanto sapere se posso vivere con ciò che so e con ciò
soltanto. Mi si dice ancora che l'intelligenza deve sacrificare
il proprio orgoglio e che la ragione deve inchinarsi. Ma se pure
riconosco i limiti della ragione, non la nego fino a tal punto,
poiché ammetto i suoi poteri relativi. Voglio solamente restare
in quella via di mezzo, in cui l'intelligenza può mantenersi chiara.
Se è quello il suo orgoglio, non vedo una sufficiente ragione per
rinunciarvi.41
Come si potrà notare, la differenza sostanziale tra i filosofi del
salto e l'uomo assurdo è nel loro diverso approccio alla trascendenza
-- inteso come quel dominio di indeterminabilità che supera la ragione:
i primi corrono sicuri a dare voce a tale trascendenza, a riempirla
di forme e parole, a «determinarla» insomma; il secondo invece riconosce
che una trascendenza che sia veramente tale non può che essere nulla
per lui, che è l'elemento trasceso. I due atteggiamenti sono ben riassunti
nella seguente citazione: «per Chestov la ragione è vana; ma, al di
là di questa, vi è qualche cosa. Per uno spirito assurdo, la ragione
è vana; ma non vi è nulla al di là di essa».42
Dunque, in definitiva, anche il suicidio filosofico subisce la condanna
da parte dell'assurdo: esso, lungi dal risolvere l'assurdo, lo cela,
lo nasconde. E invece tale scottante evidenza va mantenuta, poiché
è da essa che si origina la stessa riflessione umana: risolvere con
un salto il problema da cui si è partiti, è in realtà evitare di rispondere;
è un annientare il problema, non risolverlo; è, in sostanza, un'«elisione».
Le parole di Camus chiariscono meglio di qualsiasi nostra spiegazione
il problema in questione:
Si tratta di vivere entro lo stato di assurdo. So su che cosa sono
fondati questo spirito e questo mondo, puntellati uno contro l'altro,
senza riuscire ad abbracciarsi. Domando una regola di vita per questo
stato, e ciò che mi viene proposto ne trascura il fondamento, nega
un termine dell'opposizione dolorosa, mi ordina una rinunzia. Domando
ciò che porta con sé la condizione che riconosco come mia, so che
questa implica l'oscurità e l'ignoranza, e mi viene assicurato che
tale ignoranza spiega tutto e che codesta notte è la mia luce. Ma
non si risponde qui al mio pensiero, e quel lirismo esaltante non
può nascondermi il paradosso.
1.2. Le ricadute pratiche ed esistenziali dell'assurdo
Condannati definitivamente il suicidio e il suicidio filosofico,
viene ora il tempo di mostrare la via per mantenersi nell'assurdo.
Analizzeremo dunque in sequenza i caratteri di questa permanenza,
cioè ci sforzeremo di indicare cosa significa e cosa comporta vivere
nell'assurdo -- e solo successivamente, nella parte conclusiva, entreremo
nel merito della validità etico-esistenziale di tale posizione. Quali
sono quindi le prime caratteristiche rintracciabili di una vita assurda?
È lo stesso Camus a dircelo:
spingendo fino all'estremo questa logica assurda, devo riconoscere
che tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che
non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo
(che non deve essere confuso con la rinuncia) e l'insoddisfazione
cosciente (che non dev'essere assimilata all'inquietudine giovanile.43
Riassumendo: non-speranza, rifiuto e insoddisfazione (che, come mostreremo,
è in realtà una «insoddisfabilità»). Partiamo dal primo elemento:
abbiamo già detto che con il salto mortale l'uomo sfugge all'assurdo,
nella misura in cui ricorre ad una travisata trascendenza e ad una
sovrumana eternità. Ora, in questo ricorso disperato ciò che si instaura
nella vita del singolo è il dominio tanto misero quanto inconfutabile
della speranza. Essa rappresenta la procrastinazione ultima e l'elisione
definitiva, poiché ritiene di trovare il senso della vita -- di questa
vita che ora avvertiamo come reale e pulsante -- in un'«altra vita»
-- quella ultraterrena e ultrasensibile dopo la morte:
Eludere, ecco il giuoco costante. L'elisione tipo, l'elisione mortale,
che costituisce il terzo tema di questo saggio, è la speranza, speranza
di un'altra vita che bisogna «meritare», o inganno di coloro che
vivono non per la vita in se stessa, ma per qualche grande idea
che la supera, la sublima, le dà un senso e la tradisce.
L'uomo della speranza è dunque l'uomo votato all'eternità. Agli antipodi
di tale devozione,44
l'uomo assurdo è invece «colui che, senza negarlo, nulla fa per l'eterno».45
Il suo tempo è il presente. Il suo campo di azione è la terra. Egli
vive qui ed ora, poiché riconosce che l'espressione «una vita dopo
la morte» è semplicemente ossimorica e paradossale.46
«Non che la nostalgia gli sia estranea; ma egli preferisce il proprio
coraggio e il proprio ragionamento. Il primo gli insegna a vivere
senza richiami e a contentarsi di ciò che ha; il secondo gli fa conoscere
i suoi limiti». Nella sua non-speranza egli accetta la massima nietzschiana
-- citata da Camus -- secondo la quale «ciò che importa non è la vita
eterna, ma l'eterna vivacità».47
Proprio per questo egli, messo di fronte ad una bivio improcrastinabile,
prediligerà sempre l'azione alla contemplazione:
viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione
e l'azione. Ciò si chiama diventare un uomo. Questi strappi sono
sempre terribili, ma per un cuore fiero non può esservi via di mezzo.
C'è Dio o il tempo, la croce o la spada. O il mondo ha un senso
più alto che supera le sue agitazioni, o nulla è vero al di fuori
di tali agitazioni. Bisogna vivere con il tempo e con lui morire
o sottrarsi ad esso per una vita più grande. So che si può venire
a transazioni e vivere nel secolo, credendo nell'eterno. Questo
compromesso si chiama accettazione. Ma a me ripugna tale termine
e voglio essere tutto o nulla. Se scelgo l'azione, non crediate
che per questo la contemplazione sia per me una terra sconosciuta.
Soltanto essa non può tutto darmi, e, privato dell'eterno, voglio
allearmi al tempo. Non voglio far figurare sul mio conto la nostalgia
né l'amarezza, e voglio solamente vederci chiaro.48
L'uomo del presente e dell'azione, dunque. Il tutto in nome di un
rifiuto continuo che non rinuncia ad affermarsi contro il mondo. Ma
in cosa consiste precisamente tale rifiuto -- il secondo dei tre elementi
prima elencati? In una negazione dell'opprimente irragionevolezza
del mondo e, allo stesso tempo, in una affermazione del proprio essere
desideroso di chiarezza pur sempre attenentesi soltanto alle evidenze
reali e concrete dell'esperienza terrena -- compresa quella dell'assurdo:
«tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza
di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla».49
Dunque, oltre a vivere nel presente, l'uomo assurdo vivrà
per il presente. Cosa soddisferà allora il suo animo? Nulla,
assolutamente nulla: una insuperabile «insoddisfabilità» cosciente
-- «che non dev'essere assimilata all'inquietudine giovanile» -- gli
appartiene intimamente, poiché egli sa che nessuna teleologia -- e
di conseguenza nessuna possibile apocatastasi riconciliatrice -- opera
nel mondo. Anche egli, come l'uomo nietzschiano, «giunto alla libertà
della ragione, non può sentirsi sulla terra nient'altro che un viandante
-- non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa
non esiste».50
Egli non deve mettersi al pari con nulla, nasce e vive senza debiti
verso il divino: la sua condizione è quella del «peccato senza Dio»,51
quella in cui l'unico giudice, lungi dall'essere un entità superiore
e sovrumana, è in realtà ogni altro uomo che con lui condivide questo
destino fatale. Egli non deve né guadagnarsi una salvezza ultraterrena,
né scongiurare l'inferno: egli è innocente, perché nato senza nessun
peccato originale. Ma «questa innocenza è terribile»: perché l'uomo
assurdo -- è questo un punto fondamentale da tenere a mente -- non
si compiace affatto di tale nichilismo assoluto, di tale «divina equivalenza».
Egli è consapevole che «la certezza di un Dio, che darebbe il proprio
senso alla vita, supera di gran lunga in attrattiva il potere impunito
di mal fare», ma è altrettanto consapevole che un Dio in questo
mondo è impossibile o inutile: «la scelta non sarebbe difficile; ma
non vi è scelta e comincia allora l'amarezza. L'assurdo non libera:
vincola. E non autorizza ogni atto. Tutto è permesso non significa
che nulla sia proibito».52
Una certa libertà e indipendenza gli appartiene, ed è quella -- terribile
e carica di responsabilità -- che spetta ad un abitante di un mondo
senza Dio. Egli riconosce il nichilismo del reale ma non per questo
se ne compiace -- come fece mezzo secolo prima Nietzsche, «la coscienza
più acuta del nichilismo». Egli -- lo ripetiamo ancora una volta --
è l'uomo dell'onesta, e tutto ciò che richiede è di attenersi all'evidenza:
Posso tutto confutare, in questo mondo che mi circonda, mi urta
o mi trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e questa
divina equivalenza, che nasce dall'anarchia. Non so se il
mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco
questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo.
Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione?
Io posso comprendere soltanto in termini umani. Ciò che tocco e
che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la
mia brama di assoluto e di unità e l'irriducibilità del mondo a
un principio razionale e ragionevole, so anche che non posso conciliarle.
Quale altra verità posso conoscere senza mentire, senza far intervenire
una speranza che non ho e che non significa nulla entro i limiti
della mia condizione?
Come si noterà da questo passo, è impossibile pensare che la filosofia
camusiana sia -- anche solo a questo stadio -- una filosofia
del libero compiacimento del nichilismo e del non-senso del mondo.
La «divina equivalenza» -- l'anarchia, l'essere-senza-principio, an-archia
-- è un fatto terribile, ma è appunto un fatto, e con esso occorre
fare i conti senza mezze misure né mascheramenti mitici, fronteggiandolo
attraverso quella coscienza ormai salda sorta con l'assurdo. Non si
vive per l'assurdo ma sempre contro di esso:
insistiamo ancora sul metodo: si tratta di ostinarsi. A un certo
punto del cammino, l'uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva
di religioni né di profeti, anche senza dei. Gli si chiede di saltare.
Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché
ciò non è evidente. Egli, appunto, non vuol fare quello che non
capisce. Lo si assicura che è peccato di orgoglio (ma egli non afferra
la nozione di peccato); che forse, alla fine, c'è l'inferno (ma
egli non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi questo strano
avvenire); che perderà la vita immortale (ma questo gli sembra futile).
Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza, ma egli si sente
innocente. A dire il vero, egli non sente che questo: la propria
innocenza irreparabile. È questa che gli permette tutto. Cosicché,
ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con
ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che
sia certo. Gli viene risposto che niente lo è; ma questa, almeno,
è una certezza. È con questa che ha a che fare: egli vuole sapere
se è possibile vivere senza ricorso.53
«Vivere senza ricorso»: ovvero, attenersi al reale e vivere in esso,
nella sua unica concretezza immanente, senza appelli né salti verso
qualsiasi entità, essere o idea che trascenda la propria finita condizione.
«Il corpo, la tenerezza, la creazione, l'azione, la nobiltà umana»:
questa è «la scommessa straziante e meravigliosa dell'assurdo»54
che va accettata se e solo se si vuole rimanere onesti a sé stessi
e al proprio originario sentire. «Tutto il resto è sotterfugio».
1.3. Il mito di Sisifo e l'assurdo
Prima di passare all'esame critico del concetto di assurdo, è d'obbligo
spendere qualche parola su Sisifo, il simbolo della filosofia camusiana
giunta a questo stadio. Il suo mito è noto:
Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un
macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva
per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa
ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile
e senza speranza.55
Ma a ciò si aggiunge una serie di circostanze -- più o meno note
e leggendarie -- che caratterizzano ancora di più il volto e il carattere
del personaggio. Leggenda vuole che egli svelò al dio fluviale Asopo
l'identità del rapitore di sua figlia Egina -- in cambio di una sorgente
d'acqua per la sua città natale, Corinto. Ma si dà il caso che tale
rapitore fosse il grande Zeus, che volle punire Sisifo per questa
rivelazione oltraggiosa. Per questo motivo Zeus chiese a suo fratello
Ade di inviare Thanatos (la Morte) a casa di Sisifo per punirlo, ma
questi fece ubriacare Thanatos, per poi incatenarlo e imprigionarlo.
Visto che sulla terra nessuno più moriva, gli dei si insospettirono:
mandarono allora Ares alla ricerca dell'imprigionato Thanatos. Liberato
questo, Ares scoprì Sisifo e lo condusse agli inferi. Ma quest'ultimo,
prima di venir catturato, disse alla moglie di non seppellire il suo
corpo e di non mostrare nessun rancore per questo gesto. Così facendo,
egli non poté entrare negli inferi ma dovette rimanere sulle sponde
dello Stige, fino a quando il suo corpo non sarebbe stato seppellito.
Allora Sisifo convinse Ade a farsi rispedire sulla terra per tre giorni,
così da poter punire la moglie per quell'oltraggioso gesto. Ma, una
volta sulla terra, egli vi rimase fino alla vecchiaia: solo allora
gli dei inviarono Hermes a riprendere il rivoltoso.
Si è già capito che Sisifo è l'eroe assurdo, tanto per le sue passioni
che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro
la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l'indicibile
supplizio, in cui tutto l'essere si adopera per nulla condurre a
termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra.
Amore per la vita e per la terra da una parte, odio per la morte
e per gli dei dall'altra. Sisifo è allora -- in certo e limitato senso
-- un umanista: sa che il destino «è una questione di uomini, che
deve essere regolata fra uomini»,56
e in nome di questa lucida e nuova consapevolezza si adatta a vivere
senza ricorso né speranza. Il suo sollevare e risollevare all'infinito
quel masso, rappresenta alla perfezione la gratuità dell'esistenza
umana: nulla verrà ricompensato, né punito, allora tutto è gratuito.
Ma in questa gratuità, Sisifo scopre una felicità superiore: «Non
si scopre l'assurdo senza esser tentati di scrivere una manuale della
felicità. "E come! Per vie così anguste? " Ma vi è soltanto un mondo.
La felicità e l'assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili».
Nella nostra lettura, Sisifo incarna -- con tutti i limiti che ne
derivano -- la nietzschana fedeltà alla terra che dice «si» alla vita
e sopprime qualsiasi retro-mondo.57
È dunque l'uomo della lucidità e dell'onestà e, al tempo stesso, della
vitalità e dell'amore: i due poli, che prima ci sembravano così inconciliabili,
in lui raggiungono un equilibrio miracoloso:
non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo
assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un
destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è
soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il
resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo
sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo
Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa,
contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il
suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della
memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine
esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera
vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino.
Il macigno rotola ancora.
All'assurdità del mondo Sisifo risponde con la sua primitiva rivolta:
egli oppone a tale insensato mondo la sua felicità solare e originaria,
il suo «sole invincibile», la sua «perenne estate». E così, per concludere
la nostra descrizione, non possiamo che lasciare la parola al meraviglioso
capoverso conclusivo del Mito, sintesi finale del cammino assurdo
che in queste pagine abbiamo percorso:
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio
fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei
e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo
universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile.
Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella
montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche
la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna
immaginare Sisifo felice.
1.4. Analisi critica dell'assurdo: il «vicolo cieco» della «divina
equivalenza»
Preliminarmente occorre elencare uno ad uno tutti gli elementi concettuali
e gli aspetti dell'assurdo analizzati finora, così da ottenere una
visione di insieme che ci aiuterà da un punto di vista metodologico.
- L'assurdo si origina dall'estraneità, a partire dalla presa di
coscienza dell'individuo della proprio estraneità, fino ad allora
vissuta inconsapevolmente. A partire dal consolidamento di tale
coscienza l'uomo si rende definitivamente conto dell'ineludibilità
della condizione assurda, cioè si rende conto che il divorzio e
l'estraneità che intercorre tra sé e il mondo è destinato a mantenersi
tale.
- L'assurdo si fonda su un sentimento peculiare dell'animo umano:
il bisogno di unità (definito da Camus anche come «esigenza di familiarità»,
«brama di chiarezza» e «di assoluto», «nostalgia di unità»). Per
quanto l'esistenza di tale desiderio sia evidente e fuori da ogni
ombra di dubbio, il problema si pone invece sulla sua effettiva
soddisfabilità e, di conseguenza, sulla sua reale legittimità. L'assurdo
sorge proprio da questa continua tensione intercorrente tra la richiesta
ragionevole dell'uomo e l'irragionevole silenzio del mondo. Sicché,
in ultima analisi, il bisogno di unità dell'uomo è evidentemente
insoddisfabile e dunque illegittimo.
- Esistono due «vie di fuga» dall'assurdo: il suicidio e il suicidio
filosofico. Entrambi illegittimi, sono accomunati dalla implicita
negazione compiuta nei confronti dell'assurdo. Il primo, infatti,
nel suo negare l'individuo, e dunque nel suo negare quella coscienza
da cui si origina l'assurdo, nega in ultima analisi proprio tale
termine del divorzio. Il secondo, invece, nel suo salto irrazionale
verso la trascendenza e l'eternità, nega l'evidenza dalla quale
era partito, cioè l'assurdo stesso. Quindi suicidio e suicidio filosofico
non sono gesti dettati dall'assurdo, quanto più dei modi
per sviare da esso.
- L'uomo assurdo non nega la ragione, ma anzi ne riconosce il valore
entro e non oltre i suoi limiti di validità. Ciò che conta
è dunque il rispetto di tali limiti: una ragione che sconfini oltre
le sue stesse frontiere è per essenza destinata a naufragare e a
tramutarsi nel suo contrario, l'irrazionale.
- L'uomo assurdo non nega la trascendenza, ma la considera semplicemente
per ciò che è, ovvero come qualcosa di indeterminabile che lo sorpassa,
che è oltre il suo essere. Egli si attiene all'immanente concretezza
del mondo e della sua vita, lì dove i «suicidi filosofici» si tuffano
nella vertiginosa inconsistenza del trascendente.
- L'uomo assurdo non nega Dio. Egli ne riconosce l'ipotetico valore,
ma sa che, in questo mondo così strutturato, un Dio come quello
venerato dalle maggiori religioni positive è impossibile -- nonché
inutile. Di qui, il carattere agnostico e non-ateo dell'uomo assurdo,
lontano da qualsiasi negazione che a lui non spetta.
- L'uomo assurdo vive al presente e in questo mondo, poiché ha abbandonato
qualsiasi speranza in un futuro oltremondano originantesi dal mero
bisogno umano. La speranza, ai suoi occhi, è un'elisione che nega
a suo modo l'assurdo, poiché procrastina questa vita in nome di
una improbabile «vita dopo la morte» -- ma per esso questa espressione
non hanno senso, solo questa vita conta.
- L'uomo assurdo rifiuta l'irragionevolezza di questo mondo, nonché
l'elisione che il concetto di Dio compie nei confronti dell'esistenza,
ma non per questo rinuncia a vivere. Egli è semplicemente cosciente
dell'evidenza della propria istanza di ragionevolezza e dell'evidenza
del mutismo irrimediabile del mondo, sicché rifiuta qualsiasi
«via di fuga» ma non rinuncia a vivere.
Redatto questo piccolo ed estremo riassunto di quanto detto in precedenza
riguardo all'assurdo, possiamo ora concentrarci sull'analisi critica
di tale concetto. Iniziamo con l'esplicitare quanto già accennato
nel titolo di questo capitolo: l'assurdo è un punto di partenza, nel
senso che non è che una riflessione provvisoria, una tappa iniziale
in quel cammino che condurrà alla rivolta. Se ci si fermasse a questa
riflessione, la filosofia camusiana potrebbe legittimamente essere
considerata come nichilista. Ma è proprio qui il punto: Camus, sin
dall'avvertenza al Mito, sottolinea il «carattere provvisorio»
della sua riflessione e, nell'introduzione a L'uomo in rivolta,
ribadirà più volte questa idea -- «l'assurdo, considerato come regola
di vita, è dunque contraddittorio», «è in se stesso contraddizione»,
«ci lascia in un vicolo cieco», «ha fatto tabula rasa».58
Alcune riflessioni e discorsi di Camus ci spingono a pensare che,
sin dalle origini, il piano della sua opera fosse già bene chiaro,59
come si evince dal seguente stralcio del discorso pronunciato in occasione
del ritiro del premio Nobel nel 1957, tre anni prima della sua tragica
e prematura morte:
Avevo un piano preciso quando ho cominciato la mia opera: volevo
prima di tutto esprimere la negazione. Sotto tre forme. Romanzesca:
e fu Lo straniero. Drammatica: Caligola, Il malinteso. Ideologica:
Il mito di Sisifo. Prevedevo il positivo sempre sotto tre
forme. Romanzesca: La peste. Drammatica: Lo stato d'assedio e I
giusti. Ideologica: L'uomo in rivolta. Intravedevo già un
terzo stato di questo piano relativamente al tema dell'amore.60
Di qui la tesi che sostiene come nella condizione assurda -- meramente
iniziale e negativa -- non sia possibile altro che una vita estetica:
se, infatti, il mondo è una «divina equivalenza», se cioè in esso
non si danno punti di riferimento valoriali, né la benché minima possibilità
di perseguire delle linee precostituite di orientamento etico, allora
non esiste gerarchia né differenza tra un gesto e un altro. Ogni atto
si equivale, e il più feroce degli assassini non è condannabile tanto
quanto il più filantropo degli uomini non è apprezzabile. Leggiamo
a tal proposito due passi diversi, tratti rispettivamente dal Mito
e da L'uomo in rivolta:
L'assurdo restituisce soltanto alle conseguenze di questi fatti
la loro equivalenza. Esso non raccomanda il delitto -- cosa che
sarebbe puerile -- ma rende al rimorso la sua inutilità. Parimente,
se tutte le esperienze sono indifferenti, quella del dovere è altrettanto
legittima che un'altra. Si può essere virtuosi per capriccio.61
Il senso dell'assurdo, quando si pretenda trarne subito una norma
d'azione, rende l'omicidio per lo meno indifferente, e quindi possibile.
Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo affermare
alcun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c'è pro
né contro, né l'assassino ha torto o ragione. Si possono attizzare
i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei
lebbrosi. Malizia è virtù sono caso o capriccio.62
A conferma di tale tesi è possibile far notare come gli «uomini assurdi»
descritti nel Mito (Don Giovanni, il Conquistatore, il Commediante,
ma anche l'uomo dei record, nonché il personaggio di Caligola nell'omonima
opera teatrale) siano tutti dei personaggi esclusivamente estetici,
impossibilitati a condurre eticamente la propria vita proprio in quanto
rinchiusi nell'assurdo senza alcuna volontà di superamento: «ciò che
Don Giovanni mette in atto è un'etica della quantità, contrariamente
al santo, che tende alla qualità».63
L'assurdo appiattisce il mondo e annulla qualsiasi scala di valori:
tutto ciò che resta è fare collezione di esperienza, esaurirne il
numero fino alla morte, mantenendo salda la lucidità e la coscienza:
battere tutti i records significa, in primo luogo ed unicamente,
trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile. Come può avvenire
ciò senza contraddizioni e senza giuochi di parole? Da un lato,
infatti, l'assurdo insegna che tutte le esperienze sono indifferenti,
mentre dall'altro spinge verso la più grande quantità di esse. [...]
Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà,
il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile.
Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile.64
L'attore che vuole incarnare il maggior numero di personaggi possibili
-- che vuole «avere tante anime compendiate in un sol corpo»;65
oppure quei conquistatori che «parlano di vincere e di superare; ma
è sempre di "superarsi" che essi intendono»66:
tutto ciò non fa che confermare la nostra tesi.
Di più: l'uomo assurdo, proprio in quanto imprigionato nel suo stesso
estetismo non-etico, è incapace di considerasi al di fuori del suo
solipsismo -- lo stesso Sisifo è rinchiuso irrimediabilmente nella
sua solitudine. Il mondo agli occhi dell'uomo assurdo è semplicemente
insensato: agli occhi delL'uomo in rivolta esso sarà
invece ingiusto, che è cosa ben diversa -- ma su questa distinzione
torneremo tra poco.
Un ultimo aspetto va sottolineato. Dopo aver definito la vita nell'assurdo
come estetica e solipsistica, dobbiamo far notare come essa sia il
regno di una libertà assoluta e senza limiti. Infatti tutti i personaggi
assurdi, nel loro anarchico essere situati, sono completamenti liberi
da qualsiasi vincolo morale che potrebbe vietargli alcunché. Esemplari
a tal proposito sono le parole di Caligola:
Caligola: Ragazzi miei. Comincio a capire la virtù del potere.
È qualcosa che va di pari passo con l'immaginazione. Da questo momento
-- e per sempre -- la mia libertà è senza più limiti.
Ma la libertà assoluta è, per essenza, sregolata, folle, «disumana»
e, a suo piacimento, omicida. La sua coerenza è l'incoerenza e il
capriccio: come Caligola è capace di mandare a morte Mereia con una
fiala di veleno seguendo il suo libero e folle arbitrio, così i generali
nazisti fucilavano i loro prigionieri disposti in file seguendo la
logica del «lui si, lui no». Proprio l'inaccettabilità di una tale
condotta segnerà l'implosione dell'assurdo e l'instaurazione della
rivolta: il male che è nel mondo non è più accettabile, per questo
urge una condotta di vita che ad esso si opponga con coraggio e temerarietà.
Sisifo -- eroe dell'assurdo apertosi a questo male sovrano incondizionato
del mondo -- abnega la sua felicità solitaria in nome della rivolta.
Il suo masso è fermo ai piedi della montagna, ed egli è già altrove.
Sisifo è diventato Prometeo.
2. La rivolta oltre l'assurdo
In chiusura del precedente capitolo avevamo evidenziato come la rivolta
si instauri nell'assurdo soltanto a partire da una soggettiva presa
di coscienza dell'insostenibilità dell'assurdo stesso, dal momento
che in tale condizione, essendo impossibile una condotta etica coerente,
l'uomo è irrimediabilmente destinato alla tentazione di un'onnipotente
follia senza limiti. Sisifo è allora ad un bivio: può seguire la via
della rivolta o quella dell'esacerbazione dell'assurdo. Prometeo o
Caligola: bisogna scegliere -- e tale scelta è tutt'altro che scontata.
L'introduzione a L'uomo in rivolta dal titolo L'assurdo
e l'omicidio parte proprio dalla constatazione che la nostra epoca
ha scelto la via di Caligola: le due guerre mondiali, i totalitarismi,
gli stermini di massa, sono solo alcuni dei più significativi esempi
dell'esacerbazione assurda contemporanea e della sua follia. L'incipit
de L'uomo in rivolta, proprio a seguito di questo cambiamento
delle circostanze, non può che essere caratterizzato da un radicale
slittamento tematico: infatti, non si parla più del suicidio, come
nella trattazione dell'assurdo, bensì dell'omicidio, in particolare
di quello «logico» e premeditato, simbolo incontestabile di un'epoca
-- il Novecento.
Ci sono delitti di passione e delitti di logica. Il confine che
li separa è incerto. Ma il Codice penale li distingue, abbastanza
acconciamente, in base alla premeditazione. Siamo nel tempo della
premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono
più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell'amore. Sono adulti,
al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che
può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini.67
Caligola aveva perlomeno l'alibi della follia: è infatti per la morte
della sua compagna (e sorella) Cesonia che sceglie la logica dell'assurdo.
La società contemporanea invece, pervasa dal suo iper-razionalismo,
che scusa può addurre? Nessuna. È infatti non per una spassionata
follia, ma in nome di un ideale di liberazione universale e di «super-umanità»
che asserve e uccide milioni di uomini, nei gulag e nei lager.
La filosofia -- che a partire da Marx68
ha abbandonato definitivamente il theorein aristotelico in
nome della praxis volta alla trasformazione del mondo -- è
divenuta assassina: le ideologie novecentesche hanno in comune con
Caligola di essere arrivati al punto di «trasformare la propria filosofia
in cadaveri».69 Proprio
per ricercare una via di uscita da tale insostenibile e assurda situazione
Camus scrive L'uomo in rivolta, inteso dall'autore stesso come
«uno sforzo per comprendere il mio tempo»:
Si riterrà forse che un'epoca la quale, in cinquant'anni, asserve
o uccide settanta milioni d'esseri umani debba soltanto, e innanzi
tutto, essere giudicata. Ma bisogna almeno che la sua colpevolezza
sia compresa. Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo
qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato
al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico
veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a
delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro
il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà,
i massacri giustificati dall'amore per l'uomo o dal sogno di una
super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno
in cui il delitto si adorna delle spoglie dell'innocenza, quella
cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una
strana inversione propria al nostro tempo, è l'innocenza stessa.
Sarebbe ambizione di questo saggio accettare ed esaminare questa
strana sfida.70
Dunque, proprio per compiere questa uscita dalla condizione assurda,
Camus sceglie -- inutile dirlo -- la via prometeica della rivolta.
Ma nel farlo -- ci teniamo a sottolinearlo -- non compie nessun salto:
«i due ragionamenti sono legati», dirà a riguardo.71
La rivolta infatti, seppur non sia un'automatica e naturale conseguenza
dell'assurdo, è quella scelta che l'uomo deve compiere di fronte
all'assurdo se -- e solo se -- vuole mantenersi ancora fedele alle
sue poche ma innegabili evidenze: la stessa onestà che frenava l'uomo
assurdo dal salto e dal suicidio è da perpetrarsi anche qui. L'uomo
assurdo si atteneva all'evidenza dell'insolvibilità della tensione
intercorrente tra la sua richiesta di senso e il silenzio irragionevole
del mondo: in poche parole, si atteneva all'evidenza dell'assurdo.
L'uomo in rivolta, allo stesso modo, resta fedele alla sua
prima evidenza che è il suo stesso grido di contestazione: non più
una domanda che attende invano una risposta, ma un vero e proprio
ribellarsi alla condizione da cui si è oppressi. In sostanza, non
si chiede più nulla al reale, ma ci si pone contro di esso, lo si
contesta -- seppur per adesso solo istintivamente.
Spezzato lo specchio, nulla resta che possa servirci a rispondere
ai problemi del secolo. L'assurdo, come il dubbio metodico, ha fatto
tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. Ma come il dubbio, esso
può, tornandoci sopra, orientare una nuova indagine. Il ragionamento
continua allora allo stesso modo. Grido che a nulla credo e che
devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza
che mi sia data così, all'interno dell'esperienza assurda, è la
rivolta. Privo d'ogni scienza, incalzato a uccidere o ad acconsentire
a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova
forza dal dissidio in cui mi trovo. La rivolta nasce dallo spettacolo
dell'irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile.
Ma il suo cieco slancio rivendica l'ordine in mezzo al caos e l'unità
al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige,
vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora
si scriveva senza posa sull'acqua.72
Camus, che sembrerebbe essere agli antipodi di un filosofo come Descartes,
si riscopre improvvisamente cartesiano nel metodo: con una logica
incalzante e incontestabile mostra come dall'evidenza dell'assurdo
si possa passare naturalmente e senza salti all'evidenza del grido
della rivolta, allo stesso modo in cui Descartes aveva dimostrato
come dalla certezza dell'ego cogito derivi necessariamente
quella dell'ego sum. Il ragionamento è schematicamente riassumibile
come segue: la mia brama di chiarezza mi spinge a chiedere un senso
al mondo, ma esso non risponde perché essenzialmente muto e senza
senso; apparentemente destinato a rimanere in questo nichilista e
assurdo vicolo cieco, grido la mia rivolta contro tale condizione
ingiusta e opprimente, ma nel farlo mi accorgo che non posso negare
né tale grido né quel contenuto implicitamente positivo che lo sostiene
e lo fa sorgere; è questa la mia prima innegabile evidenza.
Eccoci alle origini della rivolta: si tratta in sostanza di una negazione
che ritornando su stessa mostra l'implicita positività che le sottostà,
poiché nel contestare il reale io devo -- logicamente parlando --
far appello ad un certo valore, altrimenti la contestazione stessa
è impossibile.73
Così si esprimerà in un passaggio tra i più famosi de L'uomo in
rivolta:
Che cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta
non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo
primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto
ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual
è il contenuto di questo "no"? Significa, per esempio, "le cose
hanno durato troppo", "fin qui si, al di là no", "vai troppo in
là" e anche "c'è un limite oltre il quale non andrai". Insomma,
questo no afferma l'esistenza di una frontiera. [...] Egli afferma,
insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare
al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c'è in
lui qualche cosa per cui "vale la pena di... ", qualche cosa che
richiede attenzione. In un certo modo, oppone all'ordine che l'opprime
una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli
possa ammettere.74
Chiariamo sin da ora un punto: come si può ben vedere, la viva consapevolezza
dell'assurdo non è in nessun momento né stata negata, né messa tra
parentesi, né tanto meno semplicemente dimenticata. Al contrario,
tale consapevolezza è la stessa condizione di possibilità della rivolta,
poiché quest'ultima sorge e si mantiene soltanto a partire dal suo
netto e radicale opporsi all'assurdo. Prima ricordavamo come non si
dia assurdo senza coscienza dell'assurdo: allo stesso modo possiamo
ora affermare che non si da rivolta senza coscienza dell'assurdo.
2.1. La rivolta: frontiera, valore, solidarietà
L'iniziale negazione della rivolta -- che si oppone al «male della
creazione» e all'assurdo -- si rivela essere dunque, per necessità
logica, una certa positività: essa infatti nel suo negare «afferma
l'esistenza di una frontiera» -- e non potrebbe essere altrimenti,
poiché, lo ripetiamo, qualsiasi contestazione porta necessariamente
e implicitamente con sé un giudizio di valore.
La rivolta, in senso etimologico, è un voltafaccia. In essa, l'uomo
che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte. Oppone
ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano
con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello
a un valore.75
Nello specifico, a quale valore fa appello la rivolta camusiana?
Fino ad ora ci si è mossi su un terreno puramente formale, ovvero
si è sempre parlato di «opporre ciò che è preferibile a ciò che non
lo è» o di «riconoscere dei limiti oltre i quali non andare»: ma di
cosa in realtà si sta parlando? Come vedremo, ci si sta appellando
ad un concetto classico ben radicato nella cultura greca, quello di
«natura umana».
Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di
coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c'è nell'uomo
qualche cosa con cui l'uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente.
[...] L'analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista
una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati
del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non s'ha, in se
stessi, nulla di permanente da preservare? È per tutte le esistenze
a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato
ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene
esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche
quello che l'insulta e l'opprime, hanno pronta una comunità.76
Questo aspetto giusnaturalistico della rivolta camusiana costituirà
un aspetto importante da tenere a mente quando discuteremo della possibilità
di un'etica della rivolta. Per adesso, esso ci mostra soltanto come
il moto di rivolta si caratterizzi essenzialmente come un moto altruistico,
che si innalza sempre e solo a partire dal singolo individuo ma necessariamente
in nome della comunità più universale -- l'umanità stessa. Sicché
la rivolta è di per sé descrivibile come un'apertura dell'io
-- di quell'io che nell'assurdo era irrimediabilmente solitario
-- al noi, nel quale per forza di cose si è sempre calati.
Seguendo una chiave di lettura cara alla letteratura critica camusiana,77
possiamo definire il passaggio dall'assurdo alla rivolta come una
svolta da «la révolte solitaire» a «la révolte solidaire».
Pensiamo a Caligola: quando egli si rivolta contro l'assurdità dell'esistenza
lo fa unicamente per affermare la «sua» libertà senza limiti; uomini
e cose gli sono indifferenti, proprio perché sono soltanto ostacoli
del suo agire -- o tuttalpiù strumenti di esso.
Caligola: Ho deciso di essere logico. Vedrete quanto vi
costerà la logica. Il potere ce l'ho io. Eliminerò chi mi contraddice,
e anche le contraddizioni.78
Al contrario, Prometeo si rivolta contro gli dei in nome dell'umanità:
egli instaura e rende ad ogni passo più viva quella solidarietà che
accomuna gli uomini in primis di fronte all'assurdità dell'esistenza,
ma soprattutto di fronte al male e alla sofferenza che tale assurda
creazione infligge. La rivolta prometeica è dunque a tutti gli effetti
un concreto umanesimo, poiché opera nella contingenza della storia
in nome di qualcosa che alla storia stessa sfugge: l'umanità. Egli
ha smesso di considerare il mondo semplicemente come insensato:
ai suoi occhi il mondo è ora ingiusto, poiché nella sua indifferenza
opprime l'uomo.79
Se l'individuo accetta di morire, e muore quando se ne presenta
l'occasione, nel suo moto di rivolta, mostra con questo di sacrificarsi
a pro di un bene che egli giudica trascendente il proprio destino.
Se preferisce l'eventualità della morte alla negazione del diritto
che difende, è perché pone quest'ultimo al di sopra di sé. Agisce
dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno,
di avere in comune con tutti gli uomini. Vediamo dunque che l'affermazione
implicita in ogni atto di rivolta si estende a qualche cosa che
eccede l'individuo in quanto lo trae dalla sua supposta solitudine
e gli fornisce una ragione d'agire. [...] L'individuo non è dunque,
in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno
tutti gli uomini per costituirlo. Nella rivolta, l'uomo si trascende
nell'altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica.
Semplicemente, si tratta per ora soltanto di quel genere
di solidarietà che nasce tra le catene.80
Alla base della rivolta, dunque, non c'è «un calcolo aritmetico degli
interessi» o «una fiducia teorica nella natura umana», bensì un sentimento
originario che, proprio in quanto sentimento, non può essere razionalmente
giustificato81: si
tratta di «quanto, nell'uomo, non può ridursi all'idea, quella parte
calorosa che a null'altro può servire se non ad essere», quel sentimento
empatico che accomuna e che, se può essere dimenticato, non può essere
però eliminato.
È il moto stesso dell'amore. Contro Scheler, non insisteremo mai
troppo sull'affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta
e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché nulla
crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto,
nell'uomo, è sempre da difendere.82
Ma a questo punto si pone un problema fondamentale: «questa rivolta
e il valore di cui è veicolo non sono forse relativi? ». In un certo
senso, occorre rispondere affermativamente a questa domanda, poiché
se è vero che da un lato il valore a cui fa appello la rivolta --
la natura umana -- è posto e concepito come universale, dall'altra
è altrettanto vero che non ovunque tale valore è concepibile: esistono
e sono esistite culture in cui il senso della gerarchia è ed era essenziale
nella concezione comune della società; la forma piramidale, secondo
la quale gli uomini si dividono naturalmente in classi sociali superiori
ed inferiori, è tuttora viva in molti popoli. Tutto ciò per arrivare
a dire che esistono delle precondizioni socio-culturali della rivolta.
Il che vuol dire che essa non può sorgere ovunque, ma soltanto a partire
da certi presupposti -- almeno tre -- che qui di seguito elencheremo
schematicamente avvalendoci delle parole stesse di Camus83:
1. Il problema della disuguaglianza:
Il problema della rivolta si esprime nelle società in cui le disuguaglianze
[sono] molto grandi (regime delle caste indiane) o, al contrario,
in quelle ove l'uguaglianza [è] assoluta (certe società primitive).
Nella società, lo spirito di rivolta è possibile solo nei gruppi
in cui un'eguaglianza teorica celi grandi disuguaglianze di fatto.
Il problema della rivolta dunque non ha senso se non entro la nostra
società occidentale.
2. Il presupposto dell'autocoscienza:
La rivolta è propria dell'uomo avvertito, che abbia coscienza dei
propri diritti. Ma nulla ci permette di dire che si tratti soltanto
dei diritti dell'individuo. Al contrario, per la solidarietà già
segnalata, sembra proprio che si tratti d'una coscienza di sé sempre
più estesa che la specie umana consegue nel corso della sua avventura.
3. La questione religiosa:
Di fatto, il suddito dell'Inca, o il paria non si pongono il problema
della rivolta, perché esso è già stato risolto per loro in un tradizione,
e prima che abbiano potuto porselo, consistendo la risposta in una
concezione religiosa. Se nel mondo religioso non si trova il problema
della rivolta, si è che in verità non vi si trova alcuna problematica
reale, tutte le risposte essendo date in una volta. La metafisica
è sostituita dal mito. Non ci sono più interrogativi, ci sono soltanto
risposte ed eterni commenti, che possono allora essere metafisici.
Ma prima di entrare nel campo religioso, ed anche per entrarvi,
o appena ne esce, ed anche per uscirne, l'uomo è interrogazione
e rivolta. L'uomo in rivolta è l'uomo che sta prima o dopo
l'universo sacro e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui
tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate. Da
quell'istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivolta, mentre
nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie. Sarebbe
possibile mostrare così come non vi possano essere per uno spirito
umano che due soli universi possibili, l'universo religioso (o per
parlare il linguaggio cristiano, della grazia), e quello della rivolta.
[...] L'attualità del problema della rivolta deriva solo dal fatto
che oggi intere società hanno voluto assumere una posizione di distanza
rispetto ad ogni universo sacro. Viviamo in una storia sconsacrata.
Confrontando la millenaria storia dell'uomo con queste tre precondizioni
ricaviamo essenzialmente una conclusione: la rivolta -- per quanto
abbia avuto nella storia molti precursori -- è un problema tipicamente
contemporaneo. È soltanto a partire dagli effetti degli sconvolgimenti
sociali a cavallo tra Ottocento e Novecento che i tempi sono diventati
davvero maturi per essa. Prima di tale periodo, l'universo religioso
era in grado di far soccombere qualsiasi possibile presa di coscienza
da parte dell'individuo -- che doveva sempre e solo considerarsi come
«creatura di Dio» -- nonché qualsiasi possibile critica rispetto all'assetto
sociale gerarchico -- la filosofia politica antica e medievale ha
sempre giustificato una certa gerarchia naturale della società; soltanto
a partire dall'Illuminismo si è davvero cominciato a porre in dubbio
tale disposizione. Oggi invece «viviamo in una storia sconsacrata»:
l'universo religioso ha ormai perso il suo potere risolutivo, prima
fortissimo.
L'uomo, certo, non si riassume nell'insurrezione. Ma la storia
di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta
è una delle dimensioni essenziali dell'uomo. È la nostra realtà
storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i
nostri valori. Si può, lungi dall'universo religioso, e dai suoi
valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la
domanda posta dalla rivolta.84
Non possiamo non notare lo spirito innovativo di tale domanda: per
secoli ogni «regola di condotta» è stata dettata all'individuo da
una morale sovrumana e incontestabile a cui era possibile solo adeguarsi
senza appello; i suoi valori erano assoluti e trascendenti, calati
dall'alto; la rivolta richiede invece che si agisca consapevolmente
in nome di valori che si è riconosciuti in prima persona, a partire
da una radicale esperienza personale che va mantenuta viva ad ogni
passo. La rivolta stessa va rinnovata continuamente, poiché essa può
in ogni momento degenerare in rivoluzione, perdendo di vista i motivi
e le esperienze che l'hanno destata. È lo stesso Camus a descrivere
tale difficoltà:
la solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta,
e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione.
Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che s'autorizzi
a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta
e coincide in realtà con l'assenso omicida. Allo stesso modo questa
solidarietà, fuori dall'universo religioso, prende vita soltanto
sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivolta del pensiero
è allora annunciato. Per essere, l'uomo deve rivoltarsi, ma la sua
rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa; limite
nel quale gli uomini, venendo a raggiungersi, cominciano ad essere.
Il pensiero informato alla rivolta non può dunque prescindere dalla
memoria: esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli
atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva
nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un'ebrezza
di tirannia o di servitù.85
Il singolo individuo viene così caricato di una responsabilità immensa:
il suo agire, la sua onestà e la sua perspicacia sono i fattori determinanti
del mantenimento veritiero della rivolta. Nell'universo religioso
la ricompensa e/o la punizione erano ultraterreni: per L'uomo in
rivolta invece l'unica ricompensa e l'unica punizione sono rispettivamente
il successo o il fallimento della rivolta stessa. In ballo non ci
sono dunque la salvezza o la dannazione eterne, l'inferno o il paradiso:
tutto si gioca qui ed ora, «intramondanamente».86
La stessa sofferenza umana non verrà vendicata o ricompensata in un
antropomorfico aldilà -- come da millenni afferma il pensiero religioso:
al pari di ogni cosa, anche la sofferenza non sfugge alla «legge dell'assurdo».
Eppure, proprio in rapporto alla sofferenza, notiamo gli effetti subitanei
della rivolta:
ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere ad
una riflessione da principio compenetrata dall'assurdità e dall'apparente
sterilità del mondo. Nell'esperienza assurda, la sofferenza è individuale.
A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva,
è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente
straniato sta dunque nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero,
lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella
sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al
mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva.
La rivolta è allora un'apertura dell'io al noi, la costituzione stessa
di una comunità prima irraggiungibile se non attraverso un riferimento
divino: prima della rivolta l'individuo è irrimediabilmente solo nel
suo grido di dolore; ma ritornando su tale dolore e rivoltandosi ad
esso si accorge di come tale esposizione alla sofferenza egli la condivida
con l'umanità intera.
In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la
stessa funzione del "cogito" nell'ordine del pensiero: è la prima
evidenza. Ma questa evidenza trae l'individuo dalla sua solitudine.
È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi
rivolto, dunque siamo.
2.2. La rivolta metafisica
L'uomo in rivolta è diviso in cinque capitoli (L'uomo in
rivolta, La rivolta metafisica, La rivolta storica,
Rivolta e arte, Il pensiero meridiano) più la già nota
introduzione: i capitoli centrali (II, III, IV), hanno un carattere
storiografico e dedicano le loro pagine a numerosi autori ed eventi.
Non potendo analizzarli tutti, abbiamo deciso di soffermarci sui quattro
autori più importanti ai fini della storia della rivolta: Dostoevskij,
Nietzsche, Hegel e Marx.
Incominciamo dunque dalla rivolta metafisica, definita da Camus come
«il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria
condizione e contro l'intera creazione».87
Fino ad ora Camus aveva parlato di rivolta soltanto nei termini della
classica categoria schiavo-padrone: l'oppresso si rivolta al suo oppressore,
uomo contro uomo, sicché in questa rivolta lo scontro è tra pari.
Nella rivolta metafisica invece lo scontro è il più impari possibile:
in essa, infatti, l'uomo si rivolta alla creazione e -- ora esplicitamente,
ora più velatamente -- al suo stesso creatore, Dio: essa è quindi
metafisica
perché contesta i fini dell'uomo e della creazione. Lo schiavo
protesta contro la condizione che gli viene fatta all'interno del
suo stato: l'insorto metafisico contro la condizione che gli viene
fatta in quanto uomo. Lo schiavo ribelle afferma che c'è qualche
cosa in lui che non accetta il modo in cui lo tratta il suo signore;
l'insorto metafisico si dichiara frustato dalla creazione. Sia per
l'uno che per l'altro, non si tratta soltanto di una pura e semplice
negazione. In ambedue i casi, troviamo infatti un giudizio di valore
in nome del quale l'insorto rifiuta la sua approvazione alla condizione
che gli è propria.88
L'insorto metafisico si oppone dunque al mondo stesso: nella condizione
assurda egli non faceva altro che reclamare una risposta tanto agognata
quanto impossibile; ora invece ha compreso l'inutilità di questa attesa
-- che potrebbe essere eterna -- e ha mosso il suo grido di rivolta
contro la creazione. Il motivo di tale netta opposizione è chiaro:
al cuore del reale non opera nessuna teleologia benefica, né tanto
meno è possibile ritrovare una traccia della misericordia e giustizia
di Dio. Al contrario, al cuore del reale è all'opera l'entropia, il
disordine, la lotta per la sopravvivenza e dunque, agli occhi dell'uomo,
il male e l'ingiustizia:
il movimento di rivolta appare in lui [all'insorto metafisico,
n. d. A.] come una rivendicazione di chiarezza e di unità. La più
elementare ribellione esprime, in modo paradossale, l'aspirazione
a un ordine. [...] Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne
l'unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio
di ingiustizia che vede all'opera nel mondo. Non vuole dunque nient'altro,
primitivamente, che risolvere questa contraddizione, instaurare
il regno unitario della giustizia, se può, oppure, ove lo si spinga
agli estremi, dell'ingiustizia. Intanto, denuncia la contraddizione.
Protestando contro la condizione in ciò che essa ha di incompiuto
a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta
metafisica è la rivendicazione motivata di un'unità felice, contro
la sofferenza di vivere e di morire. Se la pena di morte generalizzata
definisce la condizione degli uomini, la rivolta, in [un] certo
senso, è ad essa contemporanea.89
La rivolta metafisica non è però una forma di ateismo. Camus dichiara
esplicitamente che «lo schiavo che si erge contro il signore non si
cura di negare questo signore in quanto essere» ma «in quanto padrone».
Dunque «l'insorto metafisico non è sicuramente ateo, come si potrebbe
credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia
innanzitutto in nome dell'ordine, denunciando in Dio il padre della
morte e il supremo scandalo».90
Tutta la protesta dell'insorto metafisico non si scaglia contro l'esistenza
di Dio, bensì contro la sua indifferenza che ha permesso e permette
continuamente il perpetrarsi ingiustificabile del male.
La storia della rivolta metafisica non può dunque confondersi con
quella dell'ateismo. Sotto un certo aspetto anzi, essa si confonde
con la storia contemporanea del sentimento religioso. Più che negare,
L'uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime
Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di
un dialogo cortese. Si tratta di una polemica animata dal desiderio
di vincere.91
Nella nostra interpretazione però la rivolta metafisica ha un significato
ulteriore: essa infatti, nel momento stesso in cui carica di responsabilità
l'uomo in quanto possibile oppositore o continuatore del male già
presente naturalmente nel reale, ne afferma la sua «innocenza originale».
L'uomo è responsabile, ma non colpevole: come già detto in precedenza,
nessun «peccato originale» lo segna dalla nascita; tutto ciò che gli
si può ascrivere come sua responsabilità è ciò che compie nella sua
vita hic et nunc, non in un passato che non gli appartiene.92
«Se non c'è immortalità, non c'è premio né castigo»93
dirà parlando della rivolta di Ivan Karamazov.
Eppure alle prime forme di rivolta metafisica non appartiene alcuna
dimensione comunitaria: il singolo individuo si scaglia contro il
creatore e la creazione semplicemente in nome di se stesso, e non
dell'umanità intera. Egli non è parte di una comunità che legittima
la rivolta. L'insorto metafisico ai suoi primordi è invece solo contro
tutto e tutti: è Caino, che si scaglia contro quel «Dio personale»
che ha preferito i doni di Abele ai suoi; è Sade, teorico «del no
assoluto»; è il dandy, impegnato in una lotta tutta personale contro
un Dio altrettanto personale.
Solo molto tardi nella storia -- a partire dalla seconda metà dell'Ottocento,
con il superamento del Romanticismo -- la rivolta assumerà un altro
volto: da eroica ed egoista qual'era, essa diventerà comunitaria,
senza divenire per questo collettiva. Infatti, è pur sempre il singolo
che si rivolta, soltanto che adesso egli insorge in nome di una comunità
-- più o meno astratta -- a cui appartiene, comunità ritenuta oppressa
e/o ingannata da un insostenibile Dio.
Fino a Dostojevskij e a Nietzsche, la rivolta si erge soltanto
contro una divinità crudele e capricciosa, quella che preferisce,
senza motivo convincente, il sacrificio di Abele e quello di Caino,
e con ciò provoca il primo omicidio. Dostojevskij con l'immaginazione,
e Nietzsche di fatto, estenderanno smisuratamente il campo della
rivolta del pensiero, e chiederanno dei conti allo stesso dio d'amore.
Da Nietzsche, Dio sarà considerato morto nell'animo dei contemporanei.
Egli volgerà allora i suoi attacchi, come il suo predecessore Stirner,
contro l'illusione di Dio che si attarda, sotto le apparenze della
morale, nello spirito del secolo. Ma fino a loro, il pensiero libertino,
per esempio, s'è limitato a negare la storia di Cristo («questo
piatto romanzo», secondo Sade) e a serbare, nelle sue stesse negazioni,
la tradizione del dio terribile.94
Tema dei prossimi due paragrafi sarà proprio l'analisi di quelle
due significative rivolte che tanto affascinarono Camus: Dostojevskij
e Nietzsche.
Dostojevskij: Ivan Karamazov e il rifiuto della salvezza
Se il romantico, nella sua rivolta, esalta l'individuo e il male,
non prende dunque le parti degli uomini, ma semplicemente prende
partito per sé. Il dandysmo, qualunque esso sia, è sempre un dandysmo
rispetto a Dio. In quanto creatura, l'individuo può opporsi soltanto
al creatore. Ha bisogno di Dio, con cui esplica una specie di cupa
civetteria. [...] Con Dostojevskij invece la descrizione della rivolta
farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini
e pone l'accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna morte
che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece
di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola
al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l'esistenza
di Dio. La confuta in nome di un valore morale.95
Dostojevskij è un autore fondamentale per Camus. Ma v'è un personaggio
dostojevskiano più importante del suo stesso autore: si tratta di
Ivan Karamazov. In esso, nella sua posizione teorica, Camus vede chiaramente
una tappa fondamentale e irrinunciabile della storia della rivolta
-- come si evince dal passo appena citato. Ivan infatti si contraddistingue
da una parte come il primo insorto che si rivolta in nome dell'umanità,
dall'altra come il primo esponente del cosidetto «rifiuto della salvezza».96
I due aspetti sono legati e sono entrambi parte di una «teoria» ben
definita che possiamo riassumere brevemente così: Ivan riconosce il
male e l'ingiustizia a cui sono sottoposti universalmente gli uomini
e contro tale oppressione egli si scaglia, affermando con fermezza
la sua ansia di giustizia che deve imporsi sulla verità
-- verità che è appunto ingiusta. Dio dunque non viene
assolutamente negato e la sua esistenza non è messa in questione:
egli viene rifiutato, poiché la sua accettazione significherebbe allo
stesso tempo l'accettazione del mistero e dell'ingiustizia:
Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio.
Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco
rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione
insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato
un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di
pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il
biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo
al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša,
gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto.97
La svolta di Ivan è il suo perentorio «anche se»: anche se Dio esistesse
e anche se, dunque, il male che gli uomini soffrono contribuisse,
dolore dopo dolore, alla creazione dell'armonia universale, Ivan lo
rifiuterebbe. Il male è un'evidenza insuperabile, un'evidenza mille
volte più scottante e tangibile di qualsiasi possibile Dio d'amore
e misericordia: credere in un tale Dio significherebbe arrendersi
e accettare che il male venga perpetrato; significherebbe giustificare
la condanna a morte a cui l'uomo è destinato. Si tratta di un peculiare
rapporto con la verità, riconosciuta come tale ma allo stesso tempo
inaccettabile.
"Se il patimento dei bimbi, " dice Ivan, "serve a compiere la somma
dei dolori necessari al conseguimento della verità, affermo fin
d'ora che questa verità non vale un tale prezzo". Ivan rifiuta l'interdipendenza
profonda che il cristianesimo ha introdotto tra sofferenza e verità.
Il grido più profondo d'Ivan, quello che apre i più sconcertanti
abissi sotto i passi delL'uomo in rivolta, è il suo anche
se. "La mia indignazione perdurerebbe anche se avessi torto".
Il che significa che anche se Dio esistesse, anche se il mistero
celasse una verità, anche se lo starets Zosima avesse ragione,
Ivan non accetterebbe che questa verità fosse pagata con il male,
la sofferenza e la morte inflitti all'innocente. Ivan incarna il
rifiuto [della] salvezza.98
La portata di tale rifiuto è tanto epocale quanto -- almeno in questa
fase -- solo immaginaria. Ma dopotutto è nell'essenza del concetto
di rivolta metafisica una tale impossibile ambizione sovrumana. Il
rifiuto di Ivan è radicale poiché giustificato da una logica impeccabile,
fondata su tre evidenze innegabili: l'esistenza del male, la sua ingiustificabilità
e la sua inconciliabilità con una giustizia divina.
La fede conduce alla vita immortale. Ma la fede implica l'esistenza
del mistero e del male, la rassegnazione all'ingiustizia. Colui
al quale la sofferenza dei bimbi impedisce d'accedere alla fede
non riceverà dunque la vita immortale. A queste condizioni, anche
se la vita immortale esistesse, Ivan la rifiuterebbe. Egli respinge
questo mercato. Non accetterebbe la grazia se non incondizionata,
e per questo pone egli stesso le proprie condizioni. La rivolta
vuole tutto, o non vuole nulla. "Tutta la scienza del mondo non
vale le lacrime dei bambini". Ivan non dice che non vi sia alcuna
verità. Dice che se verità c'è, non può essere altro che inaccettabile.
Perché? Perché è ingiusta. È aperta qui per la prima volta la lotta
della giustizia contro la verità; essa non avrà più tregua.
In sostanza, il rifiuto di Ivan Karamazov è una forma «eroica» di
umanesimo, nella quale si esprime «l'impresa essenziale della rivolta,
che sta nel sostituire al regno della grazia il regno della giustizia».
Ma Ivan esprime anche e soprattutto un altro aspetto fondamentale
della rivolta: egli incarna «il rifiuto di salvarsi da solo». In nome
di tale altruismo della rivolta egli
si fa solidale con i dannati e, per essi, rifiuta il cielo. Se
credesse infatti, potrebbe essere salvo, ma altri sarebbero dannati.
Il patimento continuerebbe. Non c'è salvezza possibile per chi patisce
di compassione vera. Ivan continuerà a mettere Dio nel torto rifiutando
doppiamente la fede come si rifiutano ingiustizia e privilegio.
Un passo più in là, e dal Tutto o Niente, passiamo al Tutti
o nessuno.99
Esposta brevemente la rivolta di Ivan Karamazov, ritorneremo su di
essa più avanti, per trarne gli elementi essenziali quando sarà il
momento di definire sistematicamente «un'etica della rivolta». Per
adesso lasciamo che riecheggi la sua domanda, «la sola che qui c'interessi:
si può vivere e permanere nella rivolta? ».
«Siate fedeli alla terra»: la rivolta di Nietzsche
Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia
il superuomo il senso della terra!
Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non
credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano
o no: costoro esercitano il veneficio.100
L'interpretazione camusiana della rivolta di Nietzsche tende a metterne
in risalto il carattere allo stesso tempo di provvisorietà e di radicalità.
Come per il rifiuto di Ivan Karamazov, anche qui si riscontra una
tendenza all'esacerbazione e all'estremizzazione della rivolta tali
da non permettere alcuna possibilità di reale permanenza in essa.
Gli elementi concettuali alla base di tali posizioni ci sono e rimangono
fondamentali, ma la loro applicazione coincide in entrambi i casi
con un'insostenibile esasperazione -- Camus non mancherà di sottolineare
come sia Ivan Karamazov sia Nietzsche concludano i loro i giorni nella
follia.
Ciononostante è innegabile l'importanza nietzschiana per la filosofia
della rivolta -- proprio lui che paradossalmente «non ha formulato
una filosofia della rivolta, ma [ha] edificato una filosofia sulla
rivolta».101 La
filosofia nietzschiana rappresenta per Camus innanzitutto quel passaggio
epocale dall'incoscienza alla coscienza del nichilismo: quello che
prima era solo un pensiero strisciante e silenzioso nella storia della
filosofia, marchiato a più riprese come immorale, si legittima con
Nietzsche dinanzi al mondo. Il nichilismo ottiene la sua voce in capitolo
-- ma per farlo deve urlare contro le voci antiche e inamovibili della
tradizione. Fuor di metafora: esso, per porsi, deve prima di tutto
distruggere. «Per erigere un nuovo santuario, bisogna abbattere un
santuario, è questa la legge»: il santuario da abbattere è in questo
caso quello della religione, della metafisica, della teologia e della
morale, nonché quello delle nascenti ideologie comu-socialiste, che
tendono «a creare una forma di gesuitismo secolare, a fare di tutti
gli uomini tanti strumenti». Riguardo alla metodica di tale nietzschiana
distruzione e alla sua valenza per la rivolta, Camus dirà:
la filosofia di Nietzsche si aggira senza dubbio intorno al problema
della rivolta. Esattamente, comincia con l'essere una rivolta. Ma
si avverte lo spostamento operato da Nietzsche. La rivolta, con
lui, parte dal "Dio è morto" che considera come una fatto acquisito;
si volge allora contro tutto ciò che mira a sostituire falsamente
la divinità scomparsa e disonora un mondo indubbiamente senza direzione,
ma che permane tuttavia la sola matrice degli dei. Contrariamente
a quanto pensano alcuni dei suoi critici cristiani, Nietzsche non
ha concepito il progetto di uccidere Dio. L'ha trovato morto nell'anima
del suo tempo. Per primo, ha compreso l'immensità dell'avvenimento
e deciso che questa rivolta dell'uomo non poteva condurre a una
rinascita se non fosse guidata. Ogni altro atteggiamento nei suoi
riguardi, fosse rimpianto o compiacimento, doveva provocare l'apocalissi.
Nietzsche non ha dunque formulato una filosofia della rivolta, ma
edificato una filosofia sulla rivolta.102
Nietzsche dunque come distruttore, come colui che insegna a «filosofare
con il martello».103
Ma non si tratta di un distruggere sterile e fine a se stesso -- quello
che Nietzsche stesso chiamò «nichilismo passivo» -- quanto più una
distruzione compiuta al fine di una prossima e fondamentale creazione
-- «nichilismo attivo»: sulle ceneri della morte di Dio -- che sanciscono
la fine di un senso del mondo -- l'umanità deve costruire autonomamente
un nuovo senso tutto umano -- un senso nel mondo.104
Ma il compito è più arduo di quanto sembri a parole: la tentazione
di ricadere in una nuova adorazione di «retro-mondi» è forte, e l'umanità
rischia con molta probabilità di perdersi. Il compito che Nietzsche
si pone esplicitamente è di guidare tale costruzione, quella che lui
chiama la «transvalutazione di tutti i valori». Camus ne parla in
questi termini:
"Noi neghiamo Dio, neghiamo la responsabilità di Dio, solo così
libereremo il mondo". Con Nietzsche, il nichilismo sembra divenire
profetico. Ma non si può trarre niente da Nietzsche, salvo la crudeltà
bassa e mediocre che egli odiava con tutte le sue forze, finché
nella sua opera non si metta in primo piano, ben avanti al profeta,
il clinico. Il carattere provvisorio, metodico, in una parola strategico
del suo pensiero non può essere messo in dubbio. Con lui, per la
prima volta, il nichilismo diviene cosciente. I chirurghi hanno
questo in comune con i profeti, che pensano e operano in funzione
dell'avvenire. Nietzsche non ha mai pensato altrimenti che in funzione
di un'apocalissi avvenire, non per esaltarla, perché indovinava
il volto sordido e calcolatore che questa apocalissi finirebbe per
assumere, ma per evitarla e tramutarla in rinascita. Ha riconosciuto
il nichilismo e l'ha esaminato come un fatto clinico. [...] Il "si
può vivere nella rivolta? " è divenuto in lui "si può vivere senza
credere a nulla? " La sua risposta è positiva.
Eppure -- questa è in parte la nostra interpretazione -- Nietzsche
non ha potuto articolare ed esplicitare questa risposta, non ha potuto
cioè formulare quella regola di vita necessaria all'umanità per persistere
nella morte di Dio. Egli ha mostrato il Superuomo, ma quest'ultimo
è rimasto soltanto un miraggio lontano ed ideale. Dopotutto, ad un
compito siffatto di per sé già arduo, si aggiungeva l'anacronismo
in cui Nietzsche si trovava: la solitudine e l'insostenibile derisione
nella quale si ritrova Zarathustra -- «io non sono la bocca per queste
orecchie»105 --
sono le medesime del suo autore. L'inattualità delle sue Betrachtungen
era la sua propria inattualità, e di questo egli stesso ne era conscio:
«a me si confà unicamente il giorno seguente al domani. C'è chi è
nato postumo».106
Si può dunque dire che il primo a vivere in prima persona la terribile
libertà del Superuomo, fu Nietzsche stesso:
In questo mondo sbarazzato di Dio e degli idoli morali, l'uomo
è ora solitario e senza padrone. Nessuno meno di Nietzsche, e in
questo egli si distingue dai romantici, ha lasciato credere che
tale libertà potesse essere facile. Questa selvaggia liberazione
lo metteva nel numero di coloro, di cui disse egli stesso che patiscono
di una nuova ambascia [angoscia, n. d. A.] e di una nuova felicità.
Ma per cominciare, è l'ambascia sola che grida: "Ahimè, concedetemi
dunque la follia... A meno di essere al di sopra della legge, sono
il reprobo tra i reprobi. " Chi non può mantenersi al di sopra della
legge, deve in realtà trovare un'altra legge, o la demenza. Dacché
non crede più in Dio, né alla vita immortale, l'uomo diviene "responsabile
di tutto ciò che vive, di tutto ciò che, nato dal dolore, è destinato
a patire della vita".
Camus -- che ha sempre nutrito, nonostante le critiche, una ferma
ammirazione e un certo rispetto nei confronti di Nietzsche107
-- tiene sempre a mente le due anime del filosofo tedesco: da una
parte è l'infervorato profeta della morte di Dio e del nichilismo;
dall'altra è il «clinico» premonitore della possibile follia conseguente
a tale annuncio -- follia in cui lui stesso soccomberà. Nietzsche
non fa altro che mettere in guardia la sua contemporaneità, sostenendo
che il nichilismo non può mai essere un punto di arrivo, ma soltanto
di partenza. La transvalutazione di tutti i valori, nella sua ottica,
era di vitale importanza alla stessa sopravvivenza dell'umanità. I
suoi toni ferventi e ardimentosi non derivano da una incolmabile gioia,
ma dall'insostenibile peso della preveggenza: sentirsi superati da
una verità nello stesso momento in cui la si proferisce, prevedendo
le sicure catastrofi che seguiranno. Ecco la maledizione nietzschiana:
colui che, ormai nella follia, si identificava con il «Dioniso crocifisso»,108
era in realtà una «Cassandra maledetta».
In questo vicolo cieco entro il quale spinge metodicamente il proprio
nichilismo, si può dire che Nietzsche si getti con una specie di
gioia tremenda. È suo scopo dichiarato rendere insostenibile la
situazione all'uomo del suo tempo. Sembra che per lui la sola speranza
stia nell'arrivare all'estremo della contraddizione. Se allora l'uomo
non vuole perire nei lacci che lo strangolano, dovrà reciderli di
colpo, e creare i propri valori. La morte di Dio non è in alcun
modo un termine e non può viversi se non a condizione di preparare
una resurrezione. "Quando non si trova la grandezza in Dio, " dice
Nietzsche, "non la si trova in alcun luogo: bisogna negarla o crearla.
" Negarla era compito del mondo che lo circondava e che egli vedeva
correre al suicidio. Crearla fu il compito sovrumano per il quale
ha voluto morire. [...] Nietzsche gli grida dunque che la terra
è la sua sola verità, alla quale deve essere fedele, sulla quale
bisogna vivere e operare la propria salvezza. Ma insieme gli insegna
che vivere su una terra senza legge è impossibile perché vivere
presuppone appunto una legge. Come vivere libero e senza legge?
A quest'enigma l'uomo deve rispondere, pena la morte.109
Nietzsche fu, per almeno un secolo dopo la sua morte, drammaticamente
incompreso: in molto credettero -- e tuttora il senso comune crede
-- che egli sia stato l'ispiratore del nazismo. Nulla di più aberrante.
Camus ne fu a tal punto indignato da affermare: «dobbiamo esser gli
avvocati di Nietzsche».110
La lettura camusiana è stata, in questo senso, un riconoscimento --
o una riabilitazione -- del vero valore dell'opera nietzschiana:
Nietzsche è effettivamente quanto riconosceva di essere: la coscienza
più acuta del nichilismo. Il passo decisivo che egli ha fatto compiere
allo spirito di rivolta [è] consistito nel farlo saltare dalla negazione
dell'ideale alla secolarizzazione dell'ideale. Poiché la salvezza
dell'uomo non si fa in Dio, deve farsi sulla terra. Poiché il mondo
non ha direzione, l'uomo, dal momento che accetta, deve dargliene
una che faccia capo a un'unità superiore. Nietzsche rivendicava
la direzione dell'avvenire umano: "ci sta per toccare in sorte il
compito di governanti della terra". E altrove: "s'avvicina il tempo
in cui si dovrà lottare per il dominio della terra, e questa lotta
sarà condotta in nome di principi filosofici". Annunciava così il
ventesimo secolo.111
2.3. La rivolta storica
Finora ogni rivolta analizzata si è mossa solamente su un piano teorico
e astratto -- quello del pensiero: di qui la ragionevolezza dell'appellativo
«metafisica». Il passaggio da un tale tipo di rivolta a quella «storica»
non è nient'altro che il passaggio dal piano puramente astratto e
improduttivo della «mera filosofia» al piano più concreto e dinamico
dell'azione: prima ogni contestazione era puramente verbale e letteraria;
adesso si passa alla concretezza dei gesti. Le motivazioni di fondo
che sorreggono le due rivolte sono però sempre le stesse:
L'insurrezione umana, nelle sue forme elevate e tragiche, non è
e non può essere altro che una lunga protesta contro la morte, un'arrovellata
accusa a questa condizione retta dalla pena di morte generalizzata.
In tutti i casi in cui ci siamo imbattuti, la protesta si rivolge
sempre a quanto, nella creazione, è dissonanza, opacità, soluzione
di continuità. Si tratta dunque, essenzialmente, di un'interminabile
rivendicazione di unità. [...] L'uomo in rivolta non chiede
la vita, ma le ragioni della vita. Rifiuta la conseguenza introdotta
dalla morte. Se niente dura, niente è giustificato, ciò che muore
è privo di senso. Lottare contro la morte equivale a rivendicare
un senso alla vita, a combattere per la regola e l'unità.112
Il male è dunque l'elemento fondamentale contro il quale la rivolta
si scaglia. Di conseguenza è anche allo stesso tempo la sua unica
ragione d'esistere -- sparito il male, la rivolta cesserebbe di esistere.
E invece le cose non stanno proprio così, per due motivi: innanzitutto
perché il male non può scomparire -- come l'essere di Parmenide, anche
esso «non può non essere»; in secondo luogo perché non è il male in
sé ad essere inaccettabile, quanto più la sua ingiustificabilità.
Proprio per questo le più grandi «narrazioni metafisiche» della storia
dell'umanità -- visioni religioso-teologiche e filosofico-metafisiche
-- sono sempre state soprattutto dei tentativi di risposta a tale
ingiustificabilità. La rivolta, lungi dall'accontentarsi di una risposta
mitologica o fideista che porti ad un'accettazione del male, è una
costante e determinata opposizione ad esso.
A questo riguardo, è significativa la protesta contro il male che
sta al cuore stesso della rivolta metafisica. Non è la sofferenza
del bambino ad essere rivoltante in se stessa, ma il fatto che questa
sofferenza non sia giustificata. Dopotutto il dolore, l'esilio,
la clausura, vengono talvolta accettati quando ce ne persuadano
la medicina o il buon senso. Agli occhi delL'uomo in rivolta,
ciò che manca al dolore del mondo, come agli istanti della sua felicità,
è un principio di spiegazione. L'insurrezione contro il male rimane
innanzi tutto una rivendicazione d'unità. Al mondo dei condannati
a morte, alla mortale opacità della condizione, l'uomo della rivolta
oppone instancabilmente la sua esigenza di vita e di trasparenza
definitive. Senza saperlo è alla ricerca di una morale o di un elemento
sacro. La rivolta è un'ascesi, sia pure cieca. Se l'insorto bestemmia,
lo fa nella speranza del nuovo Dio. Lo scuote l'urgere del primo
e più profondo tra i moti religiosi, ma si tratta di un moto religioso
deluso. Non la rivolta in se stessa è nobile, ma quanto essa esige,
anche se ciò che consegue sia di nuovo ignobile.113
La rivolta storica sancisce il passaggio dal contestare all'agire,
dal volere al pretendere: da «il mondo è ingiusto» si passa al «rendiamo
giusto il mondo». Ma, a partire da adesso, essa cambierà radicalmente
aspetto, assumendo un volto allo stesso tempo tanto umano quanto spaventoso:
prima ogni rivolta metafisica era solitaria e per lo più innocente;
adesso ogni rivolta storica, in quanto volenterosa di un cambiamento
ad ogni costo, è pronta a macchiarsi di sangue le mani -- del sangue
dei suoi simili che con tanto ardore voleva salvaguardare contro il
male che è nel mondo. La lotta allora non è più tra uomo e Dio, ma
tra uomo e uomo: da blasfema qual'era, la rivolta si trasforma ora
in omicida. Perché
ogniqualvolta deifica il rifiuto totale di ciò che è, il no assoluto,
essa uccide. Ogniqualvolta accetta ciecamente ciò che è, e grida
il si assoluto, uccide. L'odio contro il creatore può tramutarsi
in odio contro la creazione o in amore esclusivo e provocante di
ciò che è. Ma in ambedue i casi, va a sfociare nell'omicidio e perde
il diritto a dirsi rivolta. Si può essere nichilista in due modi,
e ogni volta per intemperanza di assoluto. [...] L'anche se,
che come abbiamo riconosciuto segnava il momento capitale della
rivolta metafisica, si adempie in ogni caso nella distruzione assoluta.
Non è la rivolta a risplendere oggi sul mondo, né la sua nobiltà,
ma il nichilismo.114
Si comprende dunque come il passaggio da metafisica a storica sia,
agli occhi di Camus, carico di potenziali e pericolose derive: certo,
la rivolta non deve evitare tale passaggio -- rimanendo relegata nella
sua improduttiva astrattezza -- ma deve il più possibile mantenersi
salda alle motivazioni che l'hanno portata alla luce. Nel farsi storica,
la rivolta rischia di perdersi -- e, come attestano i fatti del Novecento,
essa si è alla fine persa. La nobiltà di ciò che rivendica -- il voler
sostituire il regno della grazia con quello della giustizia -- si
è macchiata dell'ignobiltà dei suoi omicidi, compiuti in nome di quelle
stesse rivendicazioni:
Al principio, L'uomo in rivolta, voleva soltanto conquistare
il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria
delle proprie origini e, seguendo la legge di un imperialismo spirituale,
eccolo in marcia per l'impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate
all'infinito. Ha scacciato Dio dal suo cielo, ma venendo allora
lo spirito di rivolta metafisica a raggiungere risolutamente il
movimento rivoluzionario, la rivendicazione irrazionale della libertà
prenderà come arma, paradossalmente, la ragione, solo potere di
conquista che le sembri puramente umano. Morto Dio, restano gli
uomini, vale a dire la storia che bisogna comprendere e costruire.
Il nichilismo che, in seno alla rivolta, sommerge allora la forza
creativa, aggiunge soltanto che si può costruirla con qualsiasi
mezzo. Ai delitti dell'irrazionale, l'uomo, su di una terra che
sa ormai solitaria, unirà i delitti della ragione in cammino verso
l'impero degli uomini. Al «mi rivolto, dunque siamo» aggiunge, meditando
prodigiosi disegni e la morte stessa della rivolta: «E siamo soli».115
Hegel e la divinizzazione della storia
In questa «storicizzazione della rivolta» un ruolo chiave è svolto
senza ombra di dubbio da Hegel. Ad esso Camus riserverà un capitolo
intero (I deicidi). I meriti (o, meglio, le colpe) attribuite
al filosofo idealista tedesco sono numerose e solo in minima parte
possono essere considerate come derivanti da una lettura parziale
e faziosa.116 Prima
di tutto, Camus criticherà in Hegel la concezione smisurata ed esasperata
della ragione, ormai immanente ad ogni accadere:
Alla ragione universale, ma astratta, di Saint-Just e di Rousseau,
il pensiero tedesco ha dunque finito per sostituire un concetto
meno artificioso, ma anche più ambiguo, l'universale concreto. Finora,
la ragione si librava al di sopra dei fenomeni ai quali serviva
di riferimento. Eccola ormai incorporata entro il fiume degli eventi
storici, illuminandoli al tempo stesso che essi le danno corpo.117
Secondo l'idealismo hegeliano il divenire procede razionalmente poiché
la ragione è contemporaneamente in esso e alla fine di esso:
dunque qualsiasi evento -- sia esso nocivo o benefico ad uomo, sia
esso guerra o pace, scontro o riconciliazione, odio o amore -- è giustificato,
in quanto momento di un processo razionale. Ciò che fino ad ora era
avvertito come scandalo e come contraddizione viene ora spiegato e
compreso: è l'esaltazione del principio di ragione, per cui nihil
est sine ratione. La contraddizione stessa è riconciliante, in
quanto è essa che permette il superamento di ogni tesi attraverso
la sua negazione (antitesi) in una nuova sintesi qualitativamente
superiore. Eppure -- qui sta la critica camusiana -- tutto questo
processo si basa su una credenza smisurata ed esaltata nella ragione.
Attraverso di essa, il mondo appare trasfigurato: tutto sembra trovare
il suo posto, ogni concetto è determinato, ogni evento giustificato.
Ma, tolta tale credenza, il mondo torna inevitabilmente alla sua assurdità.
Si può dire senza dubbio che Hegel ha razionalizzato perfino l'irrazionale.
Ma contemporaneamente, dava alla ragione un irragionevole fremito,
vi introduceva una dismisura di cui abbiamo davanti agli occhi i
risultati. Entro la fissità del pensiero dell'epoca, il pensiero
tedesco ha introdotto ad un tratto un moto irresistibile. Verità,
ragione e giustizia si sono bruscamente incarnate nel divenire del
mondo. Ma gettandole in un'accelerazione perpetua, l'ideologia confondeva
il loro essere con il loro moto e fissava la compiutezza di questo
essere al termine del divenire storico, se un termine esisteva.
Questi valori hanno cessato d'essere punti di riferimento, per divenire
fini. Quanto ai mezzi per perseguire questi fini, cioè la vita e
la storia, nessun valore preesistente poteva guidarli. [...] Norma
dell'azione è dunque divenuta l'azione stessa, che deve svolgersi
nelle tenebre aspettando l'illuminazione finale. La ragione, annessa
da questo romanticismo, non è più che una passione inflessibile.118
L'inflessibilità e la onnipervasività del sistema hegeliano -- capace
di ricondurre ogni evento al di sotto della dialettica triadica, per
poi fissare ogni attività all'interno di un sistema concettuale «architettonicamente»
definito -- è frutto di una convinzione ostinata, ingenuamente antropomorfica
e apparentemente inconfutabile -- almeno nel breve periodo. Antropomorfica
perché si rivela essere, ad uno sguardo lucido, una mera proiezione
sul mondo di quella categoria umana che è la razionalità. Inconfutabile
perché posticipa in un futuro anche molto lontano la verificabilità
delle sue profezie -- lo spirito si manifesta nella storia, ma è soltanto
alla fine di essa che si realizzerà:
Hegel distrugge definitivamente ogni trascendenza verticale, e
soprattutto la trascendenza dei principi, e qui sta la sua incontestabile
originalità. Senza dubbio egli ristabilisce, nel divenire del mondo,
l'immanenza dello spirito. Ma questa immanenza non fissa [n'est
pas fixe], non ha nulla in comune con l'antico panteismo. Lo
spirito è, e non è, nel mondo: vi si fa, e vi sarà. Il valore viene
dunque trasferito alla fine della storia. Fino a quel momento, nessun
criterio proprio a fondare un giudizio di valore. Si deve agire
e vivere in funzione dell'avvenire. Ogni morale diviene provvisoria.
L'Ottocento e il Novecento, nella loro tendenza più profonda, sono
secoli che hanno cercato di vivere senza trascendenza.119
«Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das
ist vernünftig».120
È questo uno dei capisaldi della filosofia hegeliana, quello contro
cui più di un filosofo dopo Hegel si è scagliato. Ma da tale insostenibile
affermazione, a prima vista «innocente», ne derivano almeno altre
due, molto più che insostenibili: da una parte, la divinizzazione
della storia, intesa come manifestazione dello spirito; dall'altra,
la giustificazione di ogni realtà, anche di quella del male, della
violenza e della sofferenza.
In quanto per lui tutto ciò che è reale è razionale, Hegel giustifica
tutte le violenze esercitate dall'ideologo sul reale. Quello che
è stato chiamato il panlogismo di Hegel è una giustificazione dello
stato di fatto. Ma il suo pantragismo esalta anche la distruzione
in se stessa. Tutto è riconciliato, senza dubbio, nella dialettica,
né può porsi un estremo senza che l'altro sorga; c'è in Hegel, come
in ogni grande pensiero, di che correggere Hegel. Ma i filosofi
sono raramente letti con l'intelletto solo, spesso con il cuore
e le sue passioni; es esse non riconciliano niente.121
Di fatto, Camus riterrà le successive interpretazioni (ed esacerbazioni)
della filosofia hegeliana più nocive e pericolose della filosofia
hegeliana stessa: la convinzione personale che «dopo di me non [ci
sarà] più filosofia, ma storia della filosofia», oppure quella secondo
la quale la storia si sarebbe finalmente compiuta nel 1807 con Napoleone,
avrebbero da che far ridere oggi, se non fosse che a partire da queste
esasperanti convinzioni si è svolta la storia del secondo Ottocento
e del primo Novecento. Per questo motivo Hegel va affrontato con estrema
serietà, seppur criticamente: la sua filosofia, insieme a (e più di)
quella nietzschiana, è stata più o meno consapevolmente l'alibi dei
totalitarismi e della distruzione mondiale del Novecento.122
Hegel, il filosofo razionalista per eccellenza che considerava il
nichilismo superato, si è rivelato essere il padre di un nuovo nichilismo:
ciò che autorizzava la pretesa di Hegel è quanto lo rende intellettualmente,
e per sempre, sospetto. Ha creduto che nel 1807, con Napoleone e
con se stesso, la storia fosse compiuta, che l'affermazione fosse
possibile, e il nichilismo vinto. La Fenomenologia, Bibbia
che avrebbe profetizzato solo il passato, metteva un termine ai
tempi. Nel 1807, tutti i peccati erano perdonati, gli evi compiuti.
Ma la storia ha continuato. Altri peccati, da allora, gridano in
faccia al mondo e fanno scoppiare lo scandalo degli antichi delitti,
assolti per sempre dal filosofo tedesco. La divinizzazione di sé
operata da Hegel, dopo quella di Napoleone ormai innocente poiché
era riuscito a porre la storia in quiete, ha durato soltanto sette
anni. Invece dell'affermazione totale, è stato il nichilismo a permeare
il mondo. La filosofia, anche servile, ha anch'essa le sue Waterloo.123
Hegel, affermando la necessità della contraddizione e, allo stesso
tempo, l'impossibilità per l'uomo di un azione innocente, ha messo
i suoi discepoli di fronte ad un bivio: «uccidere o asservire». Coloro
i quali scelsero il primo termine, furono i teorici della distruzione
e dell'omicidio filosofico, esponenti di quella che Camus definisce
«aristocrazia del sacrificio» (come Bakunin e Neciaiev, i quali affermavano
che «è nostra missione distruggere, non costruire»). Coloro i quali
invece scelsero il secondo termine furono, in sostanza, gli esponenti
della sinistra hegeliana, fautori dell'ateismo assoluto e del materialismo
scientifico, i quali con fare a tratti religioso annunciarono che
«l'individualità ha preso il posto della fede, la ragione quello
della Bibbia, la politica quello della religione e della Chiesa,
la terra del cielo, il lavoro della preghiera, la miseria dell'inferno,
l'uomo di Cristo». C'è dunque un solo inferno, ed è di questo mondo:
è contro questo che si deve lottare. La politica è religione, il
cristianesimo trascendente, quello dell'aldilà consolida i padroni
della terra con la rinuncia dello schiavo, e suscita un padrone
di più in fondo ai cieli.124
Ecco allora che l'attenzione di Camus si sposterà repentinamente
da Hegel ai suoi «figli spirituali», i quali, credendo di correggere
il proprio maestro, ricadranno con la stessa folle convinzione nella
stessa accecante esaltazione:
nulla può scoraggiare l'appetito di divinità nel cuore dell'uomo.
Altri sono venuti e vengono ancora che, dimenticando Waterloo, pretendono
sempre di portare a termine la storia. La divinità dell'uomo è ancora
in cammino e non sarà adorabile che alla fine dei tempi. Bisogna
servire quest'apocalisse e, in mancanza di Dio, costruire almeno
la Chiesa. Dopo tutto, la storia che non s'è ancora fermata lascia
intravedere una prospettiva che potrebbe essere quella del sistema
hegeliano; ma per la semplice ragione che è provvisoriamente trascinata,
se non condotta, dai figli spirituali di Hegel. Quando il colera
porta via, in piena gloria, il filosofo della battaglia di Iena,
tutto è in ordine, infatti, per ciò che seguirà. Il cielo è vuoto,
la terra in preda alla potenza senza principi. Quelli che hanno
scelto di uccidere e quelli che hanno scelto di asservire stanno
per occupare successivamente il proscenio, in nome di una rivolta
fuorviata dalla sua verità.125
Marx: la rivoluzione come fine della rivolta
Il successore di Hegel più significativo per Camus è Carl Marx.126
La sua filosofia infatti è considerata come l'ultima tappa nel processo
di degenerazione della rivolta -- degenerazione che, passando dapprima
attraverso l'azione terroristica, culminerà con la rivoluzione e con
la successiva instaurazione del regime totalitario. Una delle svolte
fondamentali di tale filosofia è stata senza dubbio quella di trasformare
la dialettica, che in Hegel era manifestazione dello spirito, in dinamica
della materia: la realtà è prima di tutto economica; è sulla «struttura»,
intesa come insieme organizzato dei mezzi di produzione, che si sostiene
tutto l'apparato culturale ed istituzionale, la «sovrastruttura»;
sicché il cambiamento dell'ordine sociale è determinato prima di tutto
e necessariamente da un cambiamento dell'ordine materiale. Eppure
Camus non considera il marxismo come un materialismo assoluto, poiché
ritiene impossibile una tale definizione:
L'originalità di Marx sta nell'affermare che la storia, nel mentre
è dialettica, è anche economica. Hegel, più sovrano, affermava che
essa era ad un tempo materia e spirito. Non poteva d'altra parte
essere materia se non in quanto appunto era spirito, e inversamente.
Marx nega lo spirito come sostanza ultima, e afferma il materialismo
storico. Si può subito mettere in rilievo, con Berdiaiev, l'impossibilità
di conciliare dialettica e materialismo. Non può esservi dialettica
se non del pensiero. Ma il materialismo stesso è un concetto ambiguo.
Soltanto per formare questa parla, bisogna già dire che c'è al mondo
qualche cosa di più della materia. A maggior ragione questa critica
andrà applicata al materialismo storico. La storia di distingue
appunto dalla natura in quanto trasforma per mezzo della volontà,
della scienza e della passione. Marx non è dunque un materialista
puro, per la ragione evidente che non esiste materialismo puro,
o assoluto. Lo è tanto poco da riconoscere che se le armi fanno
trionfare la teoria, allo stesso modo la teoria può suscitare le
armi. Sarebbe più esatto chiamare la posizione di Marx un determinismo
storico.127
Tale determinismo storico ha sicuramente un merito, quello di aver
reso la storia un fatto umano: annullata ogni trascendenza, l'uomo
è allora l'unico «autore ed attore della storia »; poiché Dio non
prende parte al gioco, ogni stato di fatto -- fonte di disuguaglianza
e di miseria -- è d'attribuirsi all'uomo stesso; la condizione umana
ha quindi cause terrene, materiali, «sociali».
Mettere alla radice dell'uomo la determinazione economica, significa
ridurlo ai suoi rapporti sociali. Non esiste uomo solitario, è questa
la scoperta incontestabile del diciannovesimo secolo. Una deduzione
arbitraria porta allora a dire che l'uomo si sente solitario nella
società unicamente per ragioni sociali. Se infatti lo spirito solitario
dev'essere spiegato con qualche cosa che sta al di fuori dell'uomo,
questi è allora sulla via di una trascendenza. La socialità, al
contrario, non ha altro autore che l'uomo: se per di più si può
affermare che la socialità è insieme creatrice dell'uomo, si crede
di avere in mano la spiegazione totale che permettere di espellere
la trascendenza. L'uomo è allora, come pretende Marx, "autore e
attore della propria storia".128
Ma, del resto, a cosa dovrà far riferimento l'uomo nel momento in
cui deciderà di cambiare tali stati di fatto? Quando deciderà di diventare
«autore della storia», quali valori gli rimarranno per indirizzare
e giustificare la propria azione? Evidentemente, annullando ogni trascendenza,
non si è solo cancellato Dio, ma anche qualsiasi principio regolatore.
Questo è l'ultimo passaggio di un processo iniziato nel secolo precedente,
quando la ragione era ancora al di sopra della storia e da quella
altezza la rischiarava, senza confondersi con essa:
La profezia di Marx è rivoluzionaria perché egli porta a compimento
il moto di negazione iniziato dalla filosofia illuminista. I giacobini
distruggono la trascendenza di un dio personale, ma vi sostituiscono
la trascendenza dei principi: Marx fonda l'ateismo contemporaneo
distruggendo anche la trascendenza dei principi. La fede nel 1987,
è sostituita dalla ragione. Ma questa ragione, nella sua fissità,
è essa stessa trascendente. Più radicalmente di Hegel, Marx distrugge
la trascendenza della ragione e la precipita nella storia. Era regolatrice,
prima di loro, eccola ora conquistatrice.129
Con Marx, l'abbiamo già detto, la filosofia cambia ruolo: dal semplice
interpretare il mondo, si passa ora al tentativo di trasformarlo.
Si tratta dunque di conquistare sulla terra e nella storia il regno
dell'uomo. Ma -- è importante sottolinearlo -- così come in Hegel
alla fine della storia c'era, come fine ideale e come credenza, il
compimento dello Spirito assoluto, così in Marx troviamo nella medesima
posizione l'avvento del comunismo, ugualmente inteso come fine ideale
e come credenza. In sostanza, Marx ha sostituito alla fede nello Spirito,
la fede nella Storia .
Marx va più in là di Hegel, e ostante di considerarlo un idealista
(ciò che egli non è, o almeno non più di quanto Marx sia materialista),
appunto in quanto il regno dello spirito ristabilisce, in certo
modo, un valore sovra-storico. Il Capitale riprende la dialettica
signoria-servitù, ma sostituisce all'autocoscienza la autonomia
economica, al regno finale dello Spirito assoluto l'avvento del
comunismo. «L'ateismo è l'umanesimo mediato dalla soppressione della
religione, il comunismo è l'umanesimo mediato dalla soppressione
della proprietà privata». L'alienazione religiosa ha la medesima
origine dell'alienazione economica. Non la si fa finita con la religione
se non attuando la libertà assoluta dell'uomo rispetto alle sue
determinazioni materiali. La rivoluzione coincide con l'ateismo
e con il regno dell'uomo.130
Appare ormai chiaro sin dai toni che ad una religione se ne sta sostituendo
un'altra: la Storia prende il posto di Dio, la politica diventa tale
religione, pena e castigo vengono di nuovo reintrodotte nella vita
degli uomini -- soltanto che adesso essi sono da riscuotersi subito
e non in una vita ultraterrena. La sofferenza stessa viene accettata
se essa serve alla causa comune, all'avvento dell'utopia. La profezia
giustifica ogni gesto -- anche il più violento -- in nome di se stessa.
Se è certo che il regno verrà, che importano gli anni? La sofferenza
non è mai provvisoria per chi non crede all'avvenire. Ma cent'anni
di dolore sono fuggevoli allo sguardo di colui che afferma, per
l'anno centesimo primo, la città definitiva. Nella prospettiva della
profezia, nulla importa. [...] L'età dell'oro rinviata al termine
della storia e coincidente, per duplice attrazione, con un'apocalisse,
giustifica dunque tutto. Bisogna meditare sulla prodigiosa ambizione
del marxismo, valutare la sua predicazione smisurata, per capire
come una simile speranza costringa a trascurare problemi che appaiono
allora secondari. [...] L'utopia sostituisce a Dio l'avvenire. Essa
identifica allora avvenire e morale: solo valore, quello che serve
tale avvenire. Di qui il suo essere stata, quasi sempre, coercitiva
e autoritaria. In quanto utopista, Marx non differisce dai suoi
terribili predecessori, e una parte del suo insegnamento giustifica
i suoi successori.131
La rivoluzione, proprio in quanto utopica, diverrà, nel suo voler
realizzare ad ogni costo la profezia, una nuova Inquisizione: gli
uomini, nel nome dei quali la rivoluzione voleva agire, diverranno
cose, mezzi per l'attuazione della rivoluzione o, qualora si opponessero
ad essa, ostacoli da rimuovere. È questa la logica di ogni rivoluzionario:
l'ideale, l'utopia, la metà finale va ricercata ad ogni costo, va
anteposta ad ogni cosa, uomo od oggetto che sia. I discepoli di Marx
hanno dimenticato -- o totalmente ignorato -- il monito del maestro
per cui «un fine che ha bisogno di mezzi ingiusti non è un fine giusto»,
gettandosi come indemoniati nel «il fine giustifica i mezzi». E quanto
più tale fine sembrerà allontanarsi, tanto più violenti saranno i
mezzi e tanto più si acuirà il Terrore: la propaganda dovrà omogeneizzare
il consenso, la polizia dovrà arrestare i dissidenti, la Siberia annientarli.
La ragione -- principio regolatore della realtà per i Giacobini, realtà
stessa per Hegel -- è ormai tiranna: non sono più le cose che tendono
ad essa, ma è essa stessa che asserve le cose a sé.
La ragione non si predica; se essa predica, non è più ragione.
Per questo la ragione storica è una ragione irrazionale e romantica,
che ricorda talvolta la sistematicità del paranoico, e altre volte
l'affermazione mistica del verbo. [...] Non ci si stupirà dunque
che per rendere scientifico il marxismo, e sostenere questa finzione,
utile al secolo della scienza, si sia dovuto in precedenza rendere
marxista la scienza, mediante il terrore. [...] Dopo tutto, il principio
che consiste nel ricondurre la ragione scientifica al servizio di
una profezia non ha niente di misterioso. Già lo si è chiamato principio
d'autorità; è quello che guida le Chiese quando vogliono asservire
la vera ragione alla fede morta e la libertà dell'intelligenza al
mantenimento del potere temporale.132
Si può parlare a questo punto senza esitazione di una «Chiesa marxista»:
il compimento della rivoluzione -- ovvero la società senza classi,
la scomparsa dello Stato e della politica, il passaggio «dal governo
delle persone all'amministrazione delle cose» -- sta al comunismo
come il regno dei cieli sta al cattolicesimo. Il lavoro, la sofferenza,
la privazione della libertà di milioni di persone, la polizia politica
e l'eliminazione fisica dei dissidenti, tutto ciò viene imposto e
giustificato in nome di un'utopia futura che gli addetti alla rivoluzione
-- gli unici depositari del suo significato -- costruiscono nel presente,
allo stesso modo in cui le gerarchie ecclesiastiche nel medioevo imponevano
il proprio potere e mandavano al rogo gli eretici in nome di una «parola
divina» di cui loro erano gli unici custodi.
La sola risorsa dei marxisti sta nel dire che il tempo necessario
è semplicemente più lungo del previsto e che bisogna confidare che
il fine giustificherà tutto, un giorno ancora invisibile. In altre
parole, siamo in purgatorio e ci si promette che non vi sarà inferno.
Il problema che allora si pone è di un altro ordine. Se la lotta
di una o due generazioni nel corso di una evoluzione economica necessariamente
favorevole basta a far sorgere la società senza classi, il sacrificio
diviene concepibili per il militante: l'avvenire ha per lui un volto
concreto, per esempio quello del suo bimbo. Ma se, non essendo bastato
il sacrificio di parecchie generazioni, dobbiamo ora affrontare
un periodo infinito di lotte universali mille volte più distruttrici,
occorre allora la certezza della fede per accettare di morire e
per dare la morte. Semplicemente, questa nuova fede non ha maggior
fondamento nella ragione pura di quanto ne avessero le antiche fedi.133
2.4. Analisi critica della rivolta
Come per l'assurdo, anche per la rivolta stileremo un resoconto schematico
di quanto detto riguardo ad essa:
- La rivolta nasce e si mantiene in quanto protesta contro l'assurdo,
sicché la condizione assurda non viene da essa negata, dimenticata
oppure mascherata; la rivolta ha un legame imprescindibile con l'assurdo;
- la rivolta sorge a partire da una negazione che si scopre in sé
stessa un'implicita affermazione di una frontiera valoriale -- valore
che, nello stato primitivo della rivolta, è del tutto opaco e indefinito,
ma che poi si farà mano a mano più limpido e chiaro;
- tale negazione è «ri-volta» contro il male e l'ingiustizia che
sono all'opera nel mondo, a causa della sua mancanza di un principio
ordinatore (anarchia); ma essendo il male ineliminabile, la rivolta
diviene dunque una condizione esistenziale permanente, della quale
è impossibile pensare una conclusione o un compimento;
- le precondizioni socio-culturali della rivolta sono tre: essa
sorge in società in cui la disuguaglianza sia esasperata -- o, al
contrario, sia nulla; soltanto soggetti consapevoli dei propri diritti
e della propria individualità possono rivoltarsi; ogni rivolta è
necessariamente blasfema, in quanto si pone fuori dall'universo
della grazia religiosa, tentando di instaurare quello della giustizia;
- la rivolta fa perno sulla natura umana che ogni individuo scopre
in se stesso e che condivide con ogni altro individuo; ma tale valore
va salvaguardato e va costantemente sostenuto, in quanto facilmente
può offuscarsi ed essere travisato; la rivolta è per questo una
perpetua tensione e una continua vigilanza;
- alle origini, la rivolta è metafisica, ovvero protesta contro
l'intera creazione in nome di quanto in essa è inaccettabile; solo
successivamente, nel suo divenire storica, essa passerà dalla semplice
protesta alla trasformazione di tale realtà;
- ma in tale storicizzazione, la rivolta degenera in rivoluzione:
assolutizza un ideale nel nome del quale finirà per asservire e
uccidere gli stessi uomini che voleva salvare.
Descritta così la rivolta, possiamo finalmente analizzare la possibilità
di un'etica della rivolta.
3. Un'etica della rivolta
In quest'ultima parte affronteremo il tema fondamentale del nostro
lavoro, ovvero la possibilità di rintracciare un'etica della rivolta
all'interno dell'opera di Albert Camus. Innanzitutto, è importante
sottolineare l'ostacolo principale che si ci para davanti nell'affrontare
un tale tema: la natura a-sistematica e multiforme del pensiero camusiano.
A tale ostacolo faremo fronte rispettando fedelmente lo stile lirico
e appassionato dell'opera di Camus, quindi eviteremo quanto più possibile
forzature e sistematizzazioni non legittimate da precisi passaggi
dell'opera stessa. Per questo motivo, diciamo sin da subito che l'etica
della rivolta che ci accingiamo ad elaborare non sarà un elenco di
norme morali né un improbabile vademecum pronto all'uso in qualsiasi
situazione: essa sarà invece quanto più un insieme di principi morali
che fungeranno da punti di riferimento per il singolo individuo alle
prese con la sua esistenza intrecciata saldamente con quella altrui.
Il rifiuto dell'assoluto: la misura
Alla base di una tale etica della rivolta c'è un gesto fondamentale:
il rifiuto consapevole di ogni assoluto -- che sia esso la Storia,
Dio, il terzo Reich, etc. -- in nome di quanto nell'uomo è affermazione
del limite e della finitudine. «Imparare a vivere, a morire e, per
essere uomo, rifiutare di essere dio»: questo è l'insegnamento della
rivolta, il constante e perpetuo sforzo di mantenersi a mezz'aria
tra l'essere animale e l'essere Dio -- ovvero, l'essere uomo. Un passo
più in alto o più in basso, ed ecco in entrambi i casi l'omicidio
-- irrazionale e istintivo il primo, razionale e filosofico il secondo.
Il lucido riconoscimento dei limiti dell'uomo è alla base della rivolta,
poiché tale riconoscimento da una parte unisce gli uomini nella loro
comune finitudine -- nessun uomo è Dio -, dall'altra trattiene la
loro ragione dall'esaltazione e dalla follia:
Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe al
contrario una filosofia dei limiti, dell'ignoranza calcolata e del
rischio. Chi non può sapere tutto, non può tutto uccidere. L'uomo
in rivolta, lungi dal fare della storia un assoluto, la ricusa
e la sottopone a contestazione in nome di un'idea che ha della propria
natura. Rifiuta la propria condizione, condizione che è, in gran
parte, storica. L'ingiustizia, la fugacità, la morte si manifestano
nella storia. Respingendole, si respinge la storia stessa. Certo,
L'uomo in rivolta non nega la storia che lo circonda, appunto
in essa egli cerca di affermarsi. Ma si trova di fronte alla storia
come l'artista di fronte al reale, la respinge senza sfuggirla.
Non un attimo ne fa un assoluto.134
L'assoluto è un'illusione mortale per l'uomo: la libertà assoluta,
come la giustizia assoluta -- con la loro dismisura, la loro mistificazione
del reale sostenuta da un'esaltazione irragionevole -- sono omicide.
Dal momento in cui si decide di rendere una qualsiasi idea astratta
un assoluto, si ci legittima ad ogni gesto in nome di esso: è la dialettica
dell'illuminismo, che dichiara di voler liberare gli uomini dal loro
stato minoritario, salvo poi finire per imprigionarli con altre e
nuove catene; è la rivoluzione, che in nome della propria realizzazione
in un domani lontano, uccide e asserve gli uomini oggi.
La mistificazione propria alla spirito che si dice rivoluzionario
riprende oggi e aggrava la mistificazione borghese. Sotto la promessa
di una giustizia assoluta, fa passare la perpetua ingiustizia, il
compromesso senza limiti e l'indegnità. Quanto alla rivolta, essa
non tende che al relativo e non può promettere altro che una dignità
certa congiunta ad una giustizia relativa. Si fa sostenitrice di
un limite sul quale si stabilisce la comunità degli uomini. Il suo
è l'universo del relativo.135
Ma tale universo del relativo non conduce al relativismo: tale posizione,
infatti, sostenendo che ogni verità è soggettiva, finisce per annullare
l'idea di verità stessa -- ovvero qualcosa di valido indipendentemente
dai punti di vista. Camus invece utilizza il termine «relativo» in
un senso totalmente diverso: egli infatti afferma che è compito della
rivolta mantenere sempre i diversi aspetti della realtà -- nonché
i concetti attraverso i quali l'uomo legge tale realtà -- in relazione
tra di loro, evitando di sopprimere tale relazione e dunque evitando
di annullare un termine, assolutizzando l'altro. «Nulla di ciò che
costringe ad escludere è vero»136:
il che significa che bisogna mantenere vivi insieme tutti gli aspetti
del reale, senza escluderne alcuno. Prendiamo ad esempio il binomio
giustizia-libertà. Camus a riguardo afferma:
La rivoluzione del ventesimo secolo ha superato arbitrariamente,
per fini smisurati di conquista, due concetti inseparabili. La libertà
assoluta irride la giustizia. La giustizia assoluta nega la libertà.
Per essere fecondi, i due concetti devono trovare, l'uno nell'altro,
il proprio limite.137
E, allo stesso modo, riguardo al binomio bellezza-giustizia dirà:
La bellezza isolata finisce col far le grinze, la giustizia solitaria
finisce con l'opprimere. Chi vuol servire una escludendo l'altra
non serve nessuno, né se stesso e, alla fine, serve doppiamente
l'ingiustizia. [...] Si, c'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Per difficile che sia l'impresa, vorrei non essere mai infedele
né all'una né agli altri.138
Ecco dunque compreso il senso della relatività in Camus: ogni concetto,
per non essere fonte di legittimazione della sregolatezza omicida,
deve mantenersi di fronte agli altri, in relazione con essi; solo
in tale «essere-insieme» ogni concetto di definisce e si limita allo
stesso tempo. «Esiste dunque una volontà di vivere senza rifiutare
nulla dalla vita, ed è la virtù che io onoro di più in questo mondo.
[...] non eludere nulla e conservare intatta una doppia
memoria»139.
Si tratta in sostanza di rintracciare una misura capace di far coesistere
insieme ogni aspetto del reale. Ciò che è mancato agli atteggiamenti
rivoluzionari e totalitari del ventesimo secolo è proprio tale misura:
Lo smarrimento rivoluzionario si spiega innanzi tutto con l'ignoranza
o il misconoscimento sistematico di quel limite che sembra inseparabile
dalla natura umana e che la rivolta, appunto, rivela. Le concezioni
nichiliste, trascurando questa frontiera, finiscono col gettarsi
in un moto uniformemente accelerato. Nulla le ferma più nelle loro
conseguenze, ed esse giustificano allora la distruzione totale o
la conquista indefinita. Sappiamo ora, al termine di questa lunga
indagine sulla rivolta e sul nichilismo, che la rivoluzione senz'altro
limite che l'efficacia storica, significa servitù senza limiti.
Se il limite scoperto della rivolta trasfigura tutto; se ogni pensiero,
ogni atto che oltrepassi un certo punto nega se stesso, c'è [allora]
una misura delle cose e dell'uomo.
Nel caos dell'esistenza, l'uomo può trovare una misura che gli permetta
di vivere con una certa coerenza nelle contraddizioni, di vivere «rettamente
lì dove si scontrano i contrari»:
Pour un esprit aux prises avec la réalité, la seule règle alors
est de se tenir à l'endroit où les contraires s'affrontent, afin
de ne rien éluder et de reconnaître le chemin qui mène plus loin.
La mesure n'est donc pas la résolution désinvolte des contraires.
Elle n'est rien d'autre que l'affirmation de la contradiction, et
la décision ferme de s'y tenir pour y survivre.140
Camus riprende l'idea di misura dalla cultura greca, nella quale
appunto ritroviamo l'attenersi al limite come caratterizzante ogni
retta esistenza -- la dea Nemesi, dea della dismisura, punisce coloro
che sorpassano il limite invisibile della misura. Ma l'Europa ha ormai
rinnegato -- o forse solamente obliato -- le sue origini elleniche,
gettandosi a piè sospinto nella dismisura e ottenendo come risultato
Auschwitz ed Hiroshima: soltanto ritornando alla grecità e soltanto
attenendosi alla misura che la rivolta suggerisce sarà possibile andare
oltre il nichilismo.141
Esistono dunque, per l'uomo, un'azione e un pensiero possibili
a quel livello medio che gli è proprio. Ogni tentativo più ambizioso
si rivela contraddittorio. L'assoluto non si consegue e soprattutto
non si crea attraverso la storia. La politica non è religione, o
allora è inquisizione. Come potrebbe la società definire un assoluto?
Ognuno forse cerca, per tutti, quest'assoluto. Ma la società e la
politica hanno il solo compito di sbrigare gli affari di tutti perché
ciascuno abbia il tempo e la libertà di questa ricerca comune. La
storia allora non può più essere innalzata a oggetto di culto. È
solo un'occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta
vigile.142
L'affermazione di una natura umana
Lo storicismo crea -- e pone alla fine della storia -- un ideale
di uomo: ad esso, gli uomini reali devono assomigliare il più possibile;
qualora non tentino spontaneamente di assomigliarci, è compito degli
spiriti rivoluzionari di forzarli a ciò. Il motto di Robespierre era
«imporre la virtù, anche con la forza». Ma la rivolta smaschera subito
questo finto umanesimo, riconoscendolo per quel che in realtà è: una
tirannia della virtù -- «la virtù» infatti, «non può scindersi dal
reale senza divenire principio di male».143
La rivolta, al contrario della rivoluzione storicista, non crea un
ideale di uomo: essa lo scopre nell'uomo stesso, non come qualcosa
che è da farsi ma come qualcosa che è già e che va salvaguardato come
un valore in sé.
La rivoluzione assoluta presupponeva l'assoluta plasticità della
natura umana, la sua riduzione possibile allo stato di forza storica.
Ma la rivolta è, nell'uomo, il rifiuto di essere trattato come cosa
e ridotto alla pura storia. È l'affermazione di una natura comune
a tutti gli uomini, che sfugge al mondo della potenza. Certo, la
storia è uno dei limiti dell'uomo; in questo senso il rivoluzionario
ha ragione. Ma reciprocamente l'uomo, nella sua rivolta, pone un
limite alla storia. Su questo limite nasce la promessa di un valore.144
Tale valore è appunto la natura umana: si tratta non di «un ideale
astratto», ma di ciò che, «nell'uomo, non può ridursi all'idea, quella
parte calorosa che a null'altro può servire se non ad essere».145
Tale natura viene scoperta con una dinamica particolare: l'uomo avvertito
-- la cui coscienza finora asservita e assopita ha accettato passivamente
la sua condizione di schiavo -- si rivolta e nega quanto l'opprime;
ma con questa negazione -- apparentemente egoistica -- egli afferma
implicitamente la comunità degli uomini e, soprattutto, la natura
comune ad essi. E quindi a partire da ciò che il singolo individuo
trova ad un tempo desiderabile e insopportabile -- ciò a cui dà l'assenso
e ciò che nega -- che si definisce tale natura: essa reclama la felicità
degli uomini, il loro diritto inviolabile alla libertà, la necessità
della giustizia; al tempo stesso protesta contro l'umiliazione e lo
sfruttamento, la riduzione a cosa o animale di ogni uomo. In questo
si e in questo no, gli uomini possono trovare la loro
unica occasione di incontro di fronte e contro il male:
Ad echeggiare per noi ai confini di questa lunga avventura ribelle
non è qualche formula di ottimismo, di cui non sapremmo che fare
all'estremo della nostra sciagura, ma parole di coraggio e d'intelligenza
che, vicino al male, sono una stessa virtù.
Oggi, nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta
cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che
prendere un nuovo slancio. L'uomo può signoreggiare in sé tutto
ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione
tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che, i bambini moriranno
sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo
maggiore, l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente
il dolore del mondo. Ma ingiustizia e sofferenza perdureranno, e,
per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il "perché"
di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare, l'arte e la rivolta
non moriranno se non con l'ultimo uomo.146
L'opposizione al male
Appare chiaro dunque che un'etica della rivolta, piuttosto che sforzarsi
di decidere arbitrariamente quale sia il vero bene per ognuno, suggerirebbe
invece di preoccuparsi prima di tutto di eliminare le costrizioni
e le sofferenze che affliggono gli uomini, al fine di renderli liberi
di perseguire la loro idea di bene e di felicità.147
La logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per
non accrescere l'ingiustizia della condizione, nello sforzarsi al
linguaggio chiaro per infittire la menzogna universale e nel puntare,
di fronte al dolore degli uomini, sulla felicità.148
L'etica della rivolta, così delineata, è allora un'«un'etica della
cura»: essa afferma che prima di tutto occorre opporsi al male della
creazione e curare gli uomini che questo male patiscono; tutto il
resto viene dopo. Bernard Rieux, protagonista del romanzo La peste,
è il personaggio più rappresentativo a riguardo: di fronte alla peste
che imperversa nella sua città messa in quarantena, mentre i più si
daranno alla preghiera, alla fuga o all'edonismo, egli lotterà da
medico contro la peste, senza domandarsi il perché della necessità
di tale lotta.
«Non posso nello stesso tempo guarire e sapere! E allora guariamo
il più presto possibile: è la cosa che più importa».149
L'etica della rivolta antepone a qualsiasi «ragione teoretica» che
voglia spiegare e comprendere il male la «ragion pratica» della cura.
«Gli uomini muoiono e non sono felici» dirà Caligola: la rivolta,
come tentativo di opporsi a questa verità, è una lotta contro la morte
e per la felicità.
Il problema della violenza
Come si pone l'etica della rivolta di fronte al problema dell'uso
della violenza? La questione è molto complessa. Se è vero che la rivolta,
per quanto abbiamo finora detto, non può certamente aderire alla violenza
come mezzo del proprio agire, lo stesso discorso vale per la non-violenza
assoluta. Una volta ancora ci viene incontro la misura, a riprova
dell'importanza cardinale di tale concetto nell'etica della rivolta:
La non-violenza assoluta fonda negativamente la servitù e le sue
violenze: la violenza sistematica distrugge positivamente la comunità
vivente e l'essere che ne riceviamo. Per essere feconde, queste
due nozioni devono trovare i loro limiti. Nella storia considerata
come assoluto, la violenza si trova legittimata; come rischio relativo,
essa costituisce una frattura nella comunicazione. Deve dunque serbare,
per l'insorto, il suo carattere di provvisoria effrazione, andar
sempre congiunta, se non può evitarsi, a una responsabilità personale,
a un rischio immediato.150
Dunque, lungi dall'uso metodico della violenza, così come da un'estremizzazione
della non-violenza -- che si rivelerebbe sempre e comunque non solo
inefficace ma anche controproducente -- l'etica della rivolta permette,
in situazioni estreme, il ricorso alla violenza:
Allo stesso modo [in cui] L'uomo in rivolta considera l'omicidio
come un limite che deve, qualora vi acceda, consacrare morendo,
così la violenza non può essere nient'altro che un limite estremo
che si oppone a un'altra violenza, per esempio in caso d'insurrezione.
Se l'eccesso di ingiustizia rende quest'ultima impossibile a evitarsi,
chi sia fedele alla rivolta rifiuta in anticipo la violenza al servizio
di una dottrina o di una ragion di Stato.151
La violenza come difesa deve essere allora l'ultimo rimedio estremo
contro coloro i quali ne fanno invece un uso sistematico: che cosa
opporre, infatti, alla forza -- e alla follia -- militare di un Führer?
La non violenza, contro i carrarmati e i bombardamenti, è ingenua
e non può definirsi neanche eroica: un tale gesto potrebbe essere
legittimato solo da una fede superiore, che L'uomo in rivolta
si è ormai negato in nome di una costante lucidità.
Nel mondo d'oggi, solo una filosofia dell'eternità può giustificare
la non-violenza. Allo storicismo assoluto obietterà la creazione
della storia, alla situazione storica chiederà la sua origine. Infine,
consacrando allora l'ingiustizia, rimetterà nelle mani di Dio la
cura della giustizia. Con ciò le sue risposte, a loro volta, esigeranno
la fede. Le si obietterà il male, e il paradosso di un Dio onnipotente
e malefico, o benefico e sterile. Resterà aperta la scelta tra la
grazia e la storia, tra Dio e la spada.152
Tra Dio e la spada, L'uomo in rivolta deve trovare una terza
via che superi sia la colpa originaria dello spirito religioso, sia
l'innocenza atea macchiata di sangue delle rivoluzioni storiciste:
si tratta -- è questa l'espressione di Camus -- di mettersi «sul cammino
di una colpevolezza calcolata» in cui la «sola ma invincibile speranza
s'incarna, al limite, in uccisori innocenti».153
Insoddisfabilità etica e vigilanza continua
Da tutto ciò si deduce che l'etica della rivolta impone vigilanza
e tensione continua, proprio perché, come abbiamo visto, le possibili
deviazioni e degenerazioni sono molto probabili. Possiamo esplicitare
questa perpetua tensione della rivolta continuando a far riferimento
al tema della violenza:
Se esiste rivolta, è in quanto menzogna, ingiustizia e violenza
ne determinano, in parte, le condizioni. L'insorto non può dunque
pretendere assolutamente di non uccidere né mentire, senza rinunciare
alla sua rivolta e accettare una volta per tutto l'omicidio e il
male. Ma non può neppure accettare di uccidere o di mentire, poiché
il movimento inverso che legittimerebbe omicidio e violenza distruggerebbe
anche la ragione della sua insurrezione. L'uomo in rivolta
non può dunque trovar requie. Sa il bene e fa suo malgrado il male.
Il valore che lo sorregge non gli è mai dato una volta per tutte,
egli deve senza posa mantenerlo. L'essere che egli consegue si sfascia
se di nuovo non lo sostiene la rivolta. In ogni caso, se non sempre
può non uccidere, direttamente o indirettamente, può volgere la
sua febbre e la sua passione a diminuire intorno a sé le probabilità
di omicidio. Sua sola virtù sarà, immerso nelle tenebre, non cedere
alla loro vertigine oscura; incatenato al male, trascinarsi ostinatamente
verso il bene.154
Le etiche tradizionali -- soprattutto quelle di derivazione religiosa
-- promettevano una ricompensa ultraterrena per i giusti e un castigo
per i malvagi. L'etica della rivolta insegna invece che tutto è in
gioco sulla terra qui ed ora, senza possibilità di appello né di procrastinazione:
ogni ricompensa ed ogni castigo si ottengono in questa vita. Kant
postulò l'immortalità dell'anima perché, non trovandosi nel mondo
coincidenza di virtù e felicità, deve esserci allora una vita ultraterrena
in cui l'anima possa trovare questa coincidenza. La rivolta, al contrario,
è consapevole sia che la coincidenza di virtù e felicità è impossibile
in questa vita, sia che è assurdo pensarla possibile in un'altra vita
dopo la morte: L'uomo in rivolta dunque non troverà mai pace
né soddisfazione, poiché il male contro cui combatte è ineliminabile.155
Ma allora, ciò premesso, la rivolta sarà un continuo sforzo e una
continua donazione al presente, in nome di una generosità superiore,
ingiustificabile da nessun teorema razionalistico:
Si comprende allora che la rivolta non può fare a meno di uno strano
amore. Colore che non trovano quiete né in Dio né entro la storia
si dannano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere;
per gli umiliati. Il movimento più puro della rivolta si corona
allora del grido lacerante di Karamazov: «Se non sono salvi tutti,
a che serve la salvezza di uno solo! ». [...] È questa la pazza
generosità della rivolta, che dà senza indugio la sua forza d'amore
e rifiuta senza dilazioni l'ingiustizia. Il suo onore sta nel non
calcolare nulla, nel distribuire tutto alla vita presente e ai suoi
fratelli vivi. In questo modo essa giova agli uomini di là da venire.
La vera generosità verso l'avvenire consiste nel dare tutto al
presente.156
Arrivati a questo punto, abbiamo compreso finalmente quali opportunità
e quali sfide la rivolta ci proponga: lontani dalla trascendenza e
dalla sua impossibile quiete, l'uomo deve trovare la sua regola di
condotta autonomamente; consapevole dell'essenza caotica ed anarchica
del reale, deve trovare a partire da sé -- ed in sé stesso -- quei
valori che possano indirizzare coerentemente la propria esistenza;
lungi dal credere in una possibile compiutezza del gesto etico e della
cura, egli deve continuare ciononostante ad operare il bene e ad opporsi
al male.
Le parole conclusive de L'uomo in rivolta possono quindi concludere
ora anche questo nostro lavoro.
Al meriggio del pensiero l'uomo in rivolta rifiuta così la divinità
per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la
terra fedele, il pensiero audace e frugale, l'azione lucida, la
generosità dell'uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro
primo e ultimo amore. I nostri fratelli respirano sotto il nostro
stesso cielo, la giustizia è viva. Allora nasce la gioia strana
che aiuta a vivere e a morire e che rifiuteremo ormai di rimandare
a più tardi. Sulla terra dolorante, essa è la gramigna instancabile,
l'amaro nutrimento, il vento duro venuto dai mari, l'antica e nuova
aurora. Con lei, rifaremo l'anima di questo tempo e un'Europa che,
essa, non escluderà nulla. [...] Ognuno dice all'altro che non è
Dio; qui termina il romanticismo. In quest'ora in cui ognuno di
noi deve tendere l'arco per rifare la prova, per conquistare, entro
e contro la storia, quanto già possiede, la magra messe dei suoi
campi, il breve amore di questa; nell'ora in cui nasce infine un
uomo, bisogna lasciare l'epoca e i suoi furori adolescenti. L'arco
si torce, il legno stride. Al sommo della più alta tensione scaturirà
lo slancio di una dritta freccia, dal tratto più e più libero.157
Copyright © 2010 Giovanni
Gaetani
Giovanni Gaetani. «I risvolti etici della rivolta camusiana».
Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea],
anno 12 (2010) [inserito il 20 dicembre 2010], disponibile su World
Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [201 B], ISSN
1128-5478.
Note
-
Pubblicato nel giugno 1942,
poco prima del Mito (che uscirà ad ottobre dello stesso
anno), il romanzo vede come protagonista Meursault, un modesto
e «silenzioso» impiegato che vive una vita anonima e senza valori.
L'intero romanzo non è altro che una narrazione in prima persona
del protagonista nella quale gli eventi si susseguiranno l'uno
all'altro senza interruzioni né momenti di particolare pathos,
in un sorta di costante mutismo che rappresenta al meglio la
condizione dell'estraneità.
-
Il mito di Sisifo,
p. 16. (corsivo aggiunto)
-
Dirà Camus riguardo a tale
priorità anche temporale della vita sul pensiero che «noi prendiamo
l'abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare».
Il mito di Sisifo, p. 11.
-
Nell'ultima pagina de Lo
straniero, il protagonista Meursault userà l'espressione
«la dolce indifferenza del mondo».
-
La Geworfenheit
è - nelle parole di Jonas - «un carattere fondamentale dell'esserci
e della sua esperienza di sé [...]. Esprime la violenza che
mi è stata fatta, che senza chiedermi nulla mi ha fatto essere
dove sono e ciò che sono, la passività del mio trovarmi in un
mondo che io non ho fatto e la cui legge non è la mia». Hans
Jonas, Tra il nulla e l'eternità, Gallio Editore, Ferrara
1992, p. 40.
-
Il mito di Sisifo,
p. 17. Ho preferito usare degli accorgimenti nella traduzione,
al fine di rendere il testo più comprensibile, evidenziando
le aggiunte con delle parentesi.
-
Il mito di Sisifo,
p. 10 (corsivo mio).
-
Prima, nella condizione
mediterranea. Si leggano a tal proposito i Saggi solari,
raccolta di saggi giovanili pubblicati nel 1954 sotto il titolo
L'estate.
-
Il mito di Sisifo,
p. 30-31.
-
Si legga a tal proposito
l'intera pagina 22, di cui riportiamo solo un piccolo estratto:
«Tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che
possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene. [...] Capisco
allora che, se posso afferrare con la scienza i fenomeni ed
enumerarli, non posso comprende altrettanto bene il mondo».
-
Se cioè essa, secondo
il detto nietzschiano, non vuole più «coniare monete false davanti
a se stessi». F.W. Nietzsche, L'anticristo, XXII ed.
Adelphi, Milano 2006, p. 14.
-
Il mito di Sisifo,
p. 23.
-
David Sherman, in un suo
lavoro monografico su Camus, distingue tra esperienza e concetto
dell'assurdo, facendo derivare questo secondo elemento dal primo:
«The Absurd is both an experience and a concept. As an exceedingly
rough first approximation, we might say that it is a concept
born of an experience [un concetto nato da un'esperienza], a
deep, visceral experience that life, with its joys and its sorrows,
with its loves and its hates, with its spectacular acts of magnanimity
and its despicable acts of pettiness, with its grand victories
and crushing defeats -- in other words, life itself -- finally
adds up to absolutely nothing». David Sherman, Camus,
p. 21, Wiley-Blackwell 2009.
-
Il mito di Sisifo,
p. 29.
-
Il mito di Sisifo,
p. 19-20.
-
Rimandiamo a tal proposito
alla suggestiva composizione musicale The unanswered question
di Charles Ives.
-
Il mito di Sisifo,
p. 28. (corsivo mio).
-
Il mito di Sisifo,
p. 13.
-
Il mito di Sisifo,
p.12.
-
«L'argomento del presente
saggio è appunto il rapporto fra l'assurdo e il suicidio, la
misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell'assurdo.
Si può porre come principio che le azioni di un uomo che non
bari debbano essere regolate da ciò che egli crede vero. La
credenza nell'assurdità dell'esistenza deve, dunque, prescrivere
la sua condotta. È una curiosità legittima chiedersi, chiaramente
e senza falso patetico, se una conclusione di questo genere
esiga che si abbandoni al più presto una condizione incomprensibile.»
Il mito di Sisifo, p. 10. Oppure: «ciò che mi interessa
- voglio ripeterlo ancora - non sono tanto le scoperte assurde,
quanto le loro conseguenze». Il mito di Sisifo, p. 19.
-
Il mito di Sisifo,
p. 7. Anche per la precedente.
-
Il mito di Sisifo,
p. 29
-
Il mito di Sisifo,
p. 9.
-
A tal proposito, ci permettiamo
di considerare errata la lettura che ne da Zygmunt Bauman in
un suo articolo in occasione del 50° anniversario della morte
di Camus, nel quale si sostiene che «l'unica risposta e via
d'uscita» alla maledizione di Sisifo sia il suicidio, che seguirebbe
fedelmente la massima di Plinio il Vecchio secondo cui «nella
miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior
regalo di Dio all'uomo». Ci basta qui ricordare che proprio
il Mito si conclude con le seguenti parole: «Bisogna
immaginare Sisifo felice». Per l'articolo citato: Zygmunt Bauman,
Camus, la «rivolta» 50 anni dopo, tratto dal quotidiano
Avvenire del 28/12/2010, oppure consultabile all'indirizzo
web: www.kore.it/caffe2/Albert_Camus2.htm
-
Il mito di Sisifo,
p. 7. Aprendo con queste parole il Mito, Camus vuole
tracciare con fermezza sin dall'inizio i confini nei quali la
sua filosofia si muoverà: se per millenni l'oggetto per eccellenza
dell'indagine filosofica è stato «la verità», tanto che Aristotele
nella Metafisica definiva la filosofia come «scienza
della verità», nella riflessione camusiana - carica di una sensibilità
tragica che solo il Novecento ha potuto offrire - esso diventa
«il senso della vita». Ciò non significa la fine di qualsiasi
discorso teoretico, logico o gnoseologico, quanto piuttosto
la loro temporanea messa da parte: «questi sono giuochi: bisogna
prima rispondere». Rispondere alla prioritaria domanda sul senso
della vita.
-
Il mito di Sisifo,
p. 28.
-
Il mito di Sisifo,
p. 32.
-
Il mito di Sisifo,
p. 51 (corsivo aggiunto).
-
Opere, p.250. Aniello
Montano dirà a riguardo: «Intuire l'assurdo, rendersene cosciente,
dimostrarlo, significa formulare una verità di cui si deve essere
«preda» per sempre. E se è vero, come crede Camus, che
"l'assurdo è il contrario della speranza", allora solo la rinuncia
ad essere cosciente, vale a dire solo la rinuncia alla ragione,
consente di aprirsi alla speranza». Aniello Montano, Camus.
Un mistico senza Dio. Edizioni Messaggero Padova, 2003,
p. 77.
-
«Per mezzo del solo giuoco
della coscienza, trasformo in regola di vita ciò che era un
invito alla morte - e rifiuto il suicidio». Il mito di Sisifo,
p. 59.
-
Il mito di Sisifo,
p. 52.
-
L'uomo in rivolta,
p. 8.
-
Il mito di Sisifo,
p. 86.
-
Ci permettiamo di dissociarci
dalla lettura camusiana della fenomenologia di Husserl (Il
mito di Sisifo, pagine 41-45), in quanto riteniamo che essa
sia forzata e a tratti caricaturale, ma riconosciamo allo stesso
tempo che il tema dell'essenza fenomenologiche presta il fianco
a certe interpretazioni idealistiche e platoneggianti.
-
Il mito di Sisifo,
p.33-34. Corretta dall'autore una piccola omissione nell'edizione
del Mito citata (manca il termine «che»: il senso della
frase ne risulta sconvolto, «non ci si rivolge a Dio per ottenere
l'impossibile»). In Opere, il passo è scritto correttamente.
-
Il mito di Sisifo,
p. 45.
-
Il mito di Sisifo,
p. 47.
-
Il mito di Sisifo,
p. 39.
-
Il mito di Sisifo,
p. 46-7.
-
Come non nega Dio. Ripetutamente,
infatti, egli sottolinea questo particolare, ad esempio quando,
affermando che «l'assurdo non conduce a Dio», dice in nota:
«non ho detto "esclude Dio", poiché sarebbe una nuova affermazione».
Il mito di Sisifo, p. 39.
-
Il mito di Sisifo,
p. 39.
-
Il mito di Sisifo,
p. 35.
-
Il mito di Sisifo,
p. 31 (corsivo aggiunto).
-
«Non ignoriamo che tutte
le Chiese sono contro noi. Un cuore tanto applicato a questi
problemi sfugge all'eterno, mentre tutte le Chiese, divine o
politiche, aspirano all'eterno. Quello che esse apportano è
una dottrina, alla quale bisogna sottoscrivere. Ma io non so
che farmene delle idee e dell'eterno. Le verità, che sono alla
mia portata, possono essere toccate dalla mia mano. Io non posso
separarmi da loro». Il mito di Sisifo, p. 84.
-
Il mito di Sisifo,
p. 63 (anche per le successive).
-
«Una vita superiore non
può significare per lui un'altra vita. Sarebbe disonesto». Come
per Goethe, il suo campo «è il tempo». Il mito di Sisifo,
p. 63.
-
Il mito di Sisifo,
p. 78.
-
Il mito di Sisifo,
p. 81-82.
-
Il mito di Sisifo,
p. 51.
-
Friedrich Nietzsche, Umano,
troppo umano, XI ed. Adelphi, Milano 2006, aforisma 638,
p. 304-5.
-
Il mito di Sisifo,
p. 39.
-
Il mito di Sisifo,
p. 64.
-
Il mito di Sisifo,
p. 50.
-
Il mito di Sisifo,
p. 49.
-
Per tutte le citazioni
di questo paragrafo: Il mito di Sisifo, pagine 117-121.
-
Il mito di Sisifo,
p. 120.
-
Nell'epigrafe del Mito
troviamo una significativa citazione di Pindaro - «O anima mia,
non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del
possibile» - mentre in quella de L'uomo in rivolta sulla
stessa scia troviamo un altrettanto significativa citazione
di Hölderlin: «E apertamente dedicai il cuore alla terra grave
e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d'amarla
fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico
di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così,
m'avvinsi ad essa di un vincolo mortale.
-
Se queste argomentazioni
non dovessero bastare a sostenere tale provvisorietà della riflessione
camusiana sull'assurdo, rimandiamo allora all'infinita serie
di appunti personali di Camus pubblicati nei suoi Carnets (Albert
Camus, Taccuini, II ed. Bompiani, Milano 2004), in special modo
nel primo libro (1935-1942).
-
Roger Grenier è di opinione
opposta. Rimandiamo a riguardo a Opere, p. IX.
-
Tratto dalla introduzione
di Roger Grenier ad Albert Camus, Opere, I ed. Bompiani,
Milano 1988, pp. VIII-IX.
-
Il mito di Sisifo,
p. 64.
-
L'uomo in rivolta,
p. 7.
-
Il mito di Sisifo,
p. 68.
-
Il mito di Sisifo,
p. 58.
-
Il mito di Sisifo,
p. 77.
-
Il mito di Sisifo,
p. 83.
-
L'uomo in rivolta,
p. 5.
-
«I filosofi hanno soltanto
diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo».
Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969,
pag. 187-190
-
Caligola, p. 20.
-
L'uomo in rivolta,
p. 6.
-
«Se abbiamo coscienza
del nulla e del nonsenso, se troviamo che il mondo è assurdo
e la condizione umana è insopportabile, ciò non significa che
non c'è niente da fare e che possiamo rassegnarci. All'infuori
del suicidio, la reazione dell'uomo è la rivolta istintiva...
Così, dal sentimento dell'assurdo, vediamo sorgere qualcosa
che lo supera». Opere, p. 1318.
-
L'uomo in rivolta,
p. 12.
-
Camus si spingerà così
lontano da affermare che lo stesso vivere è una implicita affermazione
valoriale, tanto che lo stesso «respirare è giudicare».
-
L'uomo in rivolta,
p. 17.
-
L'uomo in rivolta,
p. 18.
-
L'uomo in rivolta,
p. 18-20.
-
Si veda la voce Révolte
nel Dictionnarie Albert Camus, Editions Robert Laffont,
Paris 2009..
-
Caligola, p. 9.
-
Ovviamente c'è anche -
e forse soprattutto - il male inflitto all'uomo dall'uomo stesso,
ma di ciò ne parleremo dopo.
-
L'uomo in rivolta,
p. 20-21.
-
Hume a riguardo si esprimerà
come segue: «È evidente che dei fini ultimi delle azioni umane
non si può mai, in alcun caso, render conto per mezzo della
ragione; essi si raccomandano interamente ai sentimenti e agli
affetti dell'umanità, senza dipendenza alcuna dalle facoltà
intellettive. Domandate ad una persona perché è solita fare
esercizi fisici; essa vi risponderà di farlo, perché
desidera mantenersi in salute. Se voi allora domandate perché
desidera la salute, vi risponderà prontamente: perché
la malattia è dolorosa. Se voi spingete più in là le vostre
ricerche e desiderate conoscere la ragione per cui la persona
in questione odia il dolore, è impossibile che essa vi
dia mai qualche risposta. Questo è un fine ultimo che non si
riferisce mai ad alcun oggetto». Ricerca sui principi della
morale, I ed. Economica Laterza, 1997, p. 203.
-
L'uomo in rivolta,
p. 23-24.
-
Per tutte le citazioni
di questo paragrafo, L'uomo in rivolta, p. 24-25.
-
L'uomo in rivolta,
p. 25-26 (corsivo mio).
-
L'uomo in rivolta,
p. 26.
-
Il protagonista del romanzo
La caduta, l'avvocato Jean-Baptiste Clamence, dirà al
suo interlocutore di «non aspettare il giudizio universale»
poiché «esso avviene ogni giorno»: «N'attendez pas le jugement
dernier. Il a lieu tous les jours». La caduta, p.
63.
-
L'uomo in rivolta,
pg 31.
-
Ibidem.
-
L'uomo in rivolta,
p. 32.
-
Ibidem..
-
L'uomo in rivolta,
p. 33.
-
«L'homme n'est pas entièrement
coupable: il n'a pas commencé l'histoire; ni tout à fait innocent,
puisqu'il la continue». L'homme révolté, Gallimard, 1951,
p. 370.
-
L'uomo in rivolta,
p. 67.
-
L'uomo in rivolta,
pg 43.
-
L'uomo in rivolta,
p. 65.
-
Il rifiuto della salvezza
è proprio il titolo del capitolo dedicato a Dostojevskij ne
L'uomo in rivolta (pp. 65-72).
-
Discorso di Ivan Karamazov,
tratto dal capitolo IV (La rivolta) del quinto libro
de I fratelli Karamazov,. Interessante a tal proposito
è la reazione di Alëša al discorso di Ivan: «Questa è
ribellione» o, secondo un'altra traduzione, «questa è rivolta».
-
L'uomo in rivolta,
p. 66.
-
L'uomo in rivolta,
p. 67.
-
Così parlò Zarathustra,
Friedrich Nietzsche, XXV ed. Adelphi, Milano 2004, p. 6.
-
L'uomo in rivolta,
p. 80.
-
L'uomo in rivolta,
p. 80.
-
È questo il sottotitolo
di una sua opera fondamentale, Crepuscolo degli idoli.
-
Si legga a tal proposito
il seguente insuperabile aforisma 285 della Gaia scienza: «Non
pregherai mai più, non adorerai mai più, non riposerai mai più
in una fiducia senza fine -- è questo che ti neghi: fermare
il passo davanti a un'ultima saggezza, a un ultimo bene, a un'ultima
potenza [...] ... non esiste per te nessuno a retribuirti e
a correggerti in ultimo appello -- non esiste più nessuna ragione
in ciò che accade, nessun amore in ciò che ti accadrà -- più
non si dischiude al tuo cuore un asilo di pace, in cui ci sia
soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo
contro una qualsiasi ultima pace, tu vuoi l'eterno ritorno di
guerra e pace: uomo della rinuncia, in ogni cosa vuoi tu rinunciare?
Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza!».
C'era un lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue
acque e che rialzò una diga laddove fino ad allora trovava deflusso:
da questo momento questo lago cresce sempre più d'altezza. Forse
proprio quella rinuncia darà anche a noi la forza con cui può
essere sopportata la rinuncia stessa; forse l'uomo a partire
da ora crescerà sempre più in alto, non avendo più sbocco
in un dio».
-
Così parlo Zarathustra,
p. 10.
-
L'anticristo,
prefazione.
-
Rimandiamo alla voce
Nietzsche del Dictionnaire Albert Camus.
-
Nietzsche, ormai sprofondato
nella follia, firmava le sue lettere con vari pseudonimi, tra
cui il più famoso era appunto quello di «Dioniso crocifisso».
-
L'uomo in rivolta,
p. 84.
-
«Nella storia dell'intelletto,
fatta eccezione per Marx, l'avventura di Nietzsche non ha equivalenti;
non avremo mai finito di riparare l'ingiustizia che gli è stata
fatta. Si conoscono senza dubbio filosofie che sono state tradotte,
e tradite, nella storia. Ma fino a Nietzsche e al nazionalsocialismo,
non v'è esempio che un pensiero tutto illuminato dalla nobiltà
dilaniata di un animo eccezionale sia stato illustrato agli
occhi del mondo da una parata di menzogne, e dallo spaventoso
ammucchiarsi di cadaveri nei campi di concentramento». L'uomo
in rivolta, p. 88.
-
L'uomo in rivolta,
p. 90.
-
L'uomo in rivolta,
p. 114.
-
L'uomo in rivolta,
p. 114-115.
-
L'uomo in rivolta
-
L'uomo in rivolta,
p. 117
-
Il testo hegeliano principale
su cui si focalizza la critica di Camus è la Fenomenologia
dello spirito, anche e soprattutto attraverso l'apparato
critico fornito dal commentario di Alexandre Kojève Introduction
à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phènomènologie de l'esprit.
A riguardo va ricordato che Jean Paul Sartre arriverà a mettere
in dubbio la competenza filosofica di Camus su Hegel.
-
L'uomo in rivolta,
p. 150-151.
-
L'uomo in rivolta,
p. 151.
-
L'uomo in rivolta,
p. 160.
-
«Ciò che è razionale
è reale, e ciò che reale è razionale». Hegel, Grundlinien
der Philosophie des Rechts, Frankfurt am Main 1972, p. 11.
-
L'uomo in rivolta,
p. 152.
-
«Che Hegel e Nietzsche
servano d'alibi ai signori di Dachau e di Karaganda non condanna
tutta la loro filosofia. Ma ciò lascia supporre che un aspetto
del loro pensiero, e della loro logica, potesse condurre a questi
terribili confini». L'uomo in rivolta, p. 154.
-
L'uomo in rivolta,
p. 165.
-
L'uomo in rivolta,
p. 163.
-
L'uomo in rivolta,
p. 166.
-
A lui - e al marxismo
- è dedicato il capitolo più lungo del libro, Terrorismo
di Stato e terrore razionale.
-
L'uomo in rivolta,
p. 218.
-
L'uomo in rivolta,
p. 219.
-
L'uomo in rivolta,
p. 220.
-
L'uomo in rivolta,
p. 220.
-
L'uomo in rivolta,
pp. 220-222.
-
L'uomo in rivolta,
pp. 242-43
-
L'uomo in rivolta,
p. 243.
-
L'uomo in rivolta,
p. 316.
-
L'uomo in rivolta,
p. 316.
-
Albert Camus, Ritorno
a Tipasa, in L'estate e altri saggi solari, p. 95.
-
L'uomo in rivolta,
p. 318.
-
Albert Camus, Ritorno
a Tipasa, in L'estate e altri saggi solari, p. 95-6,
99.
-
Idem.
-
«Per uno spirito alle
prese con la realtà, la sola regola è allora di attenersi al
diritto lì dove i contrari si affrontano. La misura non è dunque
la risoluzione disinvolta dei contrari. Essa non è nient'altro
che l'affermazione della contraddizione, e la decisione di mantenersi
in essa per sopravvivere». Tratto da Dictionnaire Albert
Camus, Éditions Robert Laffont, Paris 2009, p. 546. Traduzione
mia.
-
Oltre il nichilismo
è il titolo dell'ultimo capitolo del libro, del quale la citazione
seguente è l'incipit.
-
L'uomo in rivolta,
p. 330. In una conferenza tenuta a New York nel 1946, dal titolo
La crisi dell'uomo, Camus dirà analogamente: «La politica
deve per quanto possibile essere riportata nei suoi giusti termini,
che sono termini di contorno. Il suo fine non deve essere quello
di fornirci un vangelo o un catechismo, né politico né morale
[...], il ruolo della politica è di tenerci in ordine la casa,
non di occuparsi delle nostre questioni intime. Per quel che
mi riguarda, non so se un Assoluto ci sia o no. Ma so per certo
che non è un problema politico. L'Assoluto è un affare non di
tutti, ma di ciascuno singolarmente. E i tutti devono regolare
i rapporti con i singoli in modo che ciascuno possa aver spazio
interiore per interrogarsi sull'Assoluto».
-
L'uomo in rivolta,
p. 323.
-
L'uomo in rivolta,
p. 271.
-
L'uomo in rivolta,
p. 23.
-
L'uomo in rivolta,
p. 331.
-
Poiché se è vero che
solo poche persone sanno con certezza cosa sia il bene e la
felicità, se è vero che in molti li ricercano senza averne un
idea chiara, è altrettanto vero che nessuno può arrogarsi il
diritto di decidere il bene e la felicità per un'altra persona.
-
L'uomo in rivolta,
p. 311.
-
L'uomo in rivolta,
p. 162.
-
L'uomo in rivolta,
p. 318.
-
Ibidem.
-
L'uomo in rivolta,
p. 313.
-
L'uomo in rivolta,
p. 324.
-
L'uomo in rivolta,
p. 312.
-
Vale la pena di ricordare
qui uno dei tanti e splendidi dialoghi de La peste (pp.
96-99). Quando Tarrou domanda a Rieux perché egli è diventato
medico, quest'ultimo, dopo una serie di risposte dai toni «anti-eroici»,
dirà: «Rieux: [...] se l'ordine del mondo è regolato dalla morte,
forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti
con tutte le nostre forze contro la morte, senza gli occhi verso
il cielo dove lui tace. Tarrou: [...] Ma le vostre vittorie,
ecco, saranno sempre provvisorie. Rieux: Sempre, lo so. Non
è una ragione per smettere la lotta».
-
L'uomo in rivolta,
p. 160.
-
L'uomo in rivolta,
p. 335.
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