1. Fondazione nella luce. Occhio del corpo e
occhio della mente
L'uomo non è luce da se stesso e per se stesso.1
Se fosse così, afferma Agostino, non sarebbe mai soggetto all'errore
e al dubbio.2 L'essere
dell'uomo è sì un essere nella luce, ma questa luce promana da una
fonte impenetrabile che si trova paradossalmente al di sopra e presso
l'uomo.3 Per questo
egli tenta, ma invano, di comprenderla. Quello che Agostino cerca
di far capire, è che l'uomo è per natura «illuminato». Anche se questa
affermazione sfocia poi nel campo della fede, in ogni caso le dimostrazioni
per provare la veridicità di una illuminazione ontologica-gnoseologica
sono di natura prettamente razionale.4
Essere illuminati non significa altro che essere fondati.5
Questa luce in cui ogni uomo vive, permette di formulare giudizi e
di intuire con l'intellectus o mens6
le regole eterne e immutabili che consentono alla ratio
di assolvere alla sua funzione giudicante.7
È un lumen naturale quello che possiede l'uomo, un
lumen non da lui creato, ma cui deve rivolgere interiormente
il suo sguardo per riconoscerlo come ragione fondativa: «potius
credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut
rebus intellegibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta
sic ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quemadmodum
oculus carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius
lucis capax eique congruens est creatus» «bisogna piuttosto
ritenere che la natura dell'anima intellettiva è stata fatta in modo
che, unita, secondo l'ordine naturale disposto dal Creatore, alle
cose intelligibili, le percepisce in una luce incorporea speciale,
allo stesso modo che l'occhio carnale percepisce ciò che lo circonda,
nella luce corporea, essendo stato capace di questa luce ed ad essa
ordinato».8 Quest'illuminazione
dunque non ha alcunché di soprannaturale, ma si inscrive in un processo
del tutto naturale. Come si manifesta? Attraverso i giudizi di valore,
innanzitutto: quando l'uomo cioè pronuncia giudizi su ciò che si deve
o non si deve fare, su ciò che è giusto e su ciò che non lo è, «dove
sono dunque iscritte queste regole, in cui riconosce ciò che è giusto
anche lo spirito che non è giusto, in cui vede che bisogna avere ciò
che esso non ha? dove sono dunque iscritte, se non nel libro di quella
luce che si chiama verità?».9
La luce diventa così veicolo di verità,10
una verità che, ancora, è presso l'uomo e al tempo stesso a lui trascendente.
Ciò che è straordinario in Agostino, e che, tra l'altro, sconfessa
le interpretazioni estremistiche su una grazia che si rivolge a pochi
eletti, è questo: l'uomo può non accorgersi dell'illuminazione di
cui partecipa, può addirittura compiere l'aversio
dalla luce, ciononostante, rimane comunque fondato in essa, rimane,
almeno potenzialmente, nella grazia. Insomma, la luce, quand'anche
l'uomo fosse completamente immerso nelle tenebre dell'ignoranza,11
non cesserebbe di toccarlo, di svolgere la sua funzione fondativa.
Ovviamente, nell'ottica del filosofo, tra riconoscere o meno la fonte
della luce si gioca la salvezza o la dannazione dell'uomo. Che però
non viene mai abbandonato, in questa vita, dal lumen.
Non sarebbe neanche pensabile, visto che la possibilità di vedere
nasce con l'uomo, nel momento in cui entra nella vita.12
Per riuscire a orientare lo sguardo verso la fonte luminosa, gli occhi
del corpo devono farsi da parte per lasciare spazio all'occhio dell'intellectus.
L'esteriorità non consente di avvicinarsi alla luce. Per osservare
il sole sensibile dobbiamo alzare lo sguardo e uscire da un luogo
chiuso, ma per percepire il sole intelligibile dobbiamo entrare in
noi stessi e volgere lo sguardo in interiore homine.13
Nonostante esso si trovi supra nos, più guardiamo
nell'interiorità, più riusciamo a coglierlo con un atto intellettivo.
L'illuminazione mentale, come constatato, si basa su una costante
analogia con il meccanismo della vista: «nam mentis
quasi sui sunt oculi sensus animae; disciplinarum autem quaeque certissima
talia sunt, qualia illa quae sole illustrantur, ut videri possint,
veluti terra est atque terrena omnia», «difatti le facoltà
interiori sono, per così dire, gli occhi propri della mente e i principi
assolutamente certi delle discipline sono in analogia con oggetti
come la terra e tutte le cose terrestri che, per apparire alla vista,
devono essere illuminate dal sole».14
Il pensiero è nelle menti come lo sguardo negli occhi.15
Il sole intelligibile che diffonde i suoi raggi nella nostra vista
interiore16 può essere
accolto solo da un occhio puro: «oculus animae mens
est ab omni labe corporis pura, id est, a cupiditatibus rerum mortalium
iam remota atque purgata», «occhio dell'anima è la mente immune
da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dai desideri
delle cose caduche». È necessario perciò avere già intrapreso la «fuga
dal sensibile».17
Una fuga che non è tanto, come sembra in alcuni passi del mito della
caverna, un uscire fuori di sé, ma un ritornare in sé. Se lo sguardo
dell'anima è pensiero, come deve essere questo sguardo? Un aspicere
o un videre, un guardare o un vedere? Vorrebbe poter
essere un videre, ossia un possedere (habere)
la luce, ma non può che arrestarsi a un aspicere,
a un intueri. Ciò che permette di vedere tutto, ciò
in ragione di cui esistiamo ed esiste il mondo, l'onnipotente luce,
non può essere vista nella sua interezza. Dobbiamo accontentarci di
una docta ignorantia e di una conoscenza parziale.
2. Conoscenza «per speculum»
e «in aenigmate»
Solo questo è concesso all'uomo: un invisibiliter videre
la sorgente della luce che è illuminata da se stessa.18
Il nostro, come afferma egregiamente Sciacca, è un «vedere senza vedere».19
Per Agostino è impossibile contemplare le rationes aeternae
così come esse sono nella luce autosufficiente. Ciò comporterebbe
la visione diretta della fonte, visto che le idee ne costituiscono
l'essenza.20 Ma nessuno
può avere una visione facie ad faciem21
del sole intelligibile e rimanere in vita. Perciò la luce deve rimanere
secreta, occulta. La causa della
massima visibilità resta, per l'uomo che ne partecipa, invisibile.
Seppure il Sole si trovi presso l'occhio della spirito, non entra
direttamente nel suo campo di visione.22
È precluso all'uomo comprehendere.23
Può intueri, ma nemmeno questo lo preserva da future
ricadute nelle catene. Agostino non formula la tesi della docta
ignorantia24 e
dell'impossibilità di avere scienza del principio intelligibile solo
in ossequio alle Scritture. Sarebbe riduttivo pensare così. Piuttosto
le ragioni per cui la Luce deve rimanere nascosta all'uomo sono più
profonde. Come riuscirebbe infatti un essere finito e limitato ad
abbracciare qualcosa che per natura gli è completamente dissimile?
O si finitizza l'infinito, o si diventa, in qualche modo e paradossalmente,
infiniti. Per questo il filosofo parla di una conoscenza delle rationes
aeternae che avviene tramite uno specchio.25
L'uomo, in sostanza, intuisce delle immagini di queste idee.26
Il suo intelletto le vede riflesse in se stesso, quasi adeguate alla
sua finitezza. Il nascondimento27
e la percezione in aenigmate salvaguardano l'alterità
della fonte luminosa e permettono di considerare l'uomo nelle sue
capacità limitate. Pur essendo capax di intueri
le idee, non è capace però di scorgerle «in sé» e direttamente.
Ora la distinzione che abbiamo posto prima tra aspicere
e videre si arricchisce di un ulteriore significato:
si può, afferma Agostino, videre il Padre della luce
intelligibile e della nostra illuminazione,28
ma è un videre senza comprehensio,
cioè un intueri: «aliud est enim
videre, aliud est totum videndo comprehendere».29
Solo sulla base di questa precisazione, si può interpretare correttamente
l'affermazione: «cum praesens est, non videtur».30
In un certo senso, l'uomo coglie indirettamente la fonte dell'illuminazione
(sebbene essa abiti in una luce inaccessibile e segreta31):
attraverso i suoi atti intellettuali. Ma lo sguardo dell'uomo, che
è fondato fin dalla nascita nella luce, non potrebbe apparire passivo?
Non potrebbe essere tacciato di immobilismo? Insomma, dove risiede
la dýnamis dello sguardo? Se l'uomo è nella luce,
non significa che sappia di esserlo.32
Ecco, l'attività dell'occhio dell'intellectus (acies
mentis, acutezza della mente) risiede proprio nella presa di coscienza
della fonte luminosa. È l'occhio della mens che scopre
la presenza-assenza della Luce. Lo stesso incamminarsi nella strada
della ricerca significa che l'occhio interiore incomincia a capire
di non essere luce a se stesso, altrimenti non ricercherebbe.
3. Lo sguardo frontale dei prigionieri e lo sguardo
che non sa vedere se stesso
Affinché non sembri forzato e fuorviante un breve raffronto tra Agostino
e Platone, è bene sottolineare che è lo stesso Padre della chiesa
ad indicarci di guardare al pensatore greco,33
il cui mito della caverna Agostino ha sinteticamente rielaborato all'interno
dei Soliloquia.34
Pur essendo consapevoli del discrimine che separa i due filosofi (la
rivelazione), tuttavia non ci sembra azzardato affermare che l'elemento
che li accomuna è la trascendentalità35
del sole intelligibile spiegata attraverso l'analogia con il meccanismo
della vista.36 In
entrambi la sorgente luminosa è luce per l'intelletto dell'uomo, è
colei che dà l'intelligentia.37
In entrambi la frontalità dello sguardo è segno di insufficienza rispetto
alla potenzialità di cui è capace. I prigionieri della caverna riescono
solo a guardare dinnanzi a sé,38
dal momento che le catene impediscono di girare la testa. Lo stesso
sguardo frontale caratterizza, in Agostino, quanti non operano una
conversio interiore dello sguardo. Finché non si
gira la testa e lo sguardo non è in grado di vedere se stesso (il
che significa, non è in grado di pensarsi), l'unica vita concessa
all'uomo è l'esteriorità. Non a caso uno dei primi atti che compie
il prigioniero appena le catene sono sciolte è quello di periágein
ton auxéna, di girare la testa. Lo sguardo a trecentosessanta
gradi in Platone e lo sguardo interiore di Agostino sono la prima
tappa nella ricerca della fonte della massima visibilità. L'occhio
che si libera dalla frontalità è l'occhio della mente che opera una
epistrophé, un cambiamento direzionale verso quella
luce di cui partecipano gli stessi prigionieri nella caverna. Essi
infatti vivono nella luce pur non sapendolo. Che altro significano
infatti quell'ingresso aperto alla luce39
e quel fuoco che brilla nel carcere,40
se non una fondazione dell'uomo platonico nella luce? Proprio come
l'uomo di Agostino che vive, si muove ed è nella luce, anche l'uomo
di Platone si trova in rapporto con la luce. Una luce che è presente,
in qualche modo, anche nella caverna. Certo, dietro i prigionieri.
Ma per quante siano le tenebre e le catene che li sprofondano nell'ignoranza
«l'ingresso» della caverna non verrà mai precluso alla luce. Come
in Agostino: l'uomo può avere lo sguardo guasto, frontale, esteriore,
e tuttavia rimane comunque toccato dalla luce.41
E l'ingresso di cui parla l'Ateniese pare simboleggiare la condizione
della natura umana.42
D'altra parte, se non si fosse fondati nella luce e se non si partecipasse
di qualche raggio luminoso, come ci si potrebbe girare per intraprendere
il cammino di ricerca verso la condizione che permette di vedere tutto?
Qui però incominciano alcune difficoltà. Chi orienta nel cammino
verso la fonte della massima intelligibilità? Come abbiamo analizzato,
per Agostino è un precettore interiore,43
anche se nel testo della rielaborazione del mito fa riferimento, contraddicendosi,
a maestri in carne ed ossa.44
Per Platone si tratta di un maestro esterno che ridiscende nella caverna
per liberare gli altri, ma non è escluso che ognuno di noi possa essere
maestro a se stesso. Non che questo implichi la non necessità di un
sapiente che ci orienti in ogni caso nella salita, ma potrebbe affiancare
all'interpretazione che prevede qualcuno che ci liberi dalle catene,
quella secondo cui chi libera potrebbe essere lo stesso sguardo dell'uomo45
in qualche modo costretto da se stesso. In questo caso il movimento
partirebbe dall'uomo stesso. L'elemento fondamentale però presente
in entrambi è che nessun maestro esterno può immettere nell'uomo la
vista. Essa c'è già come possibilità di rivolgersi alla fonte della
luce. Platone lo dice senza fraintendimenti: «proprio di questo dunque,
vi sarebbe un'arte, di questa conversione dell'anima, in che modo
possa essere più facilmente ed efficacemente rivoltata, non già
dell'infondervi il vedere, ma del procacciare questo come con
chi abbia sì tale facoltà ma non sia voltato dalla parte giusta, né
veda là dove dovrebbe».46
Nessun maestro pertanto può arrogarsi il diritto di infondere lo sguardo
intelligibile che potenzialmente è già presente nell'uomo.47
4. L'ascesi verso la causa della visibilità:
lo sguardo che lotta e viene costretto
Non è certo uno sguardo pacifico quello che si dirige verso la fonte
luminosa: lo frenano passioni, desideri, catene sensibili. Lo sguardo
sensibile è l'atto più semplice, non richiede impegno ed esercizio:
si guarda e basta. Ma quello della mente deve ingaggiare una vera
e propria rixa48
con i suoi oppositori. Qui si manifesta l'attività dello sguardo interno.
L'atto del volgersi è già una prima purificazione,49
ma si deve giungere alla liberazione dalla tenebre, dallo sguardo
frontale e passivo. Per i due filosofi non c'è dubbio sulla natura
delle tenebre: «cibi, piaceri, mollezze».50
Sono loro che rivolgono lo sguardo dell'uomo, naturalmente tendente
all'alto, in basso. È lo sguardo passivo dell'uomo che condanna. Ma
una volta superato lo scoglio sensibile, subito si presenta un'altra
difficoltà: l'intensità della luce che, al paragone con le tenebre,
fa trepidare, tanto da indurre l'uomo a ritornare
allo sguardo frontale.51
Per questo lo sguardo deve cernere, combattere, deve
essere costretto con la forza a tollerare l'abisso tra il non vedere
e il vedere. Non a caso nel mito platonico si riscontra, con una certa
frequenza, l'uso del verbo anankázein52
e di sostantivi che significano «forza» e «violenza». Bisogna obbligare
lo sguardo a sforzarsi53
di contemplare, a non lasciarsi intimidire dal bagliore.54
Perciò esso deve seguire un percorso graduale nella conversione55
che pare costituito da momenti più fissi in Platone, e da tappe più
elastiche in Agostino.56
La consapevolezza di essere fondati nella luce non si disgiunge quindi
dal momento della lotta. Non basta girarsi, farsi interni, e contemplare.
Posta su questo piano, soprattutto per il pensiero di Agostino, la
tematica dello sguardo e dell'illuminazione sembra quasi banale. Ma
non si deve invece dimenticare tutto l'aspetto battagliero di questo
sguardo, perché non è facile e non è immediato vedere se stessi. Anche
se in Agostino si riscontra un elemento assente nel mito platonico,
e cioè il desiderio, l'amor da cui l'occhio è sospinto
a vedere, tuttavia questo desiderio è un desiderio che deve, di nuovo,
lottare ed educarsi. L'occhio interiore deve sopportare il dolore57
(che è il dolore per la scoperta della propria non autosufficienza,58
della propria non autoilluminazione), la sofferenza,59
la difficoltà.60 È
un occhio, afferma Agostino, che batte le palpebre. Ma tutti gli sguardi
dell'intelletto rimangono trepidantes nel momento
della metabolé, del cambiamento direzionale, o ce
n'è qualcuno che non prova sofferenza e fastidio? Per Agostino sì:
«nam sunt nonnulli oculi tam sani et vegeti, qui se,
mox ut aperti fuerint, in ipsum solem sine ulla trepidatione convertant»,
«vi sono infatti occhi tanto sani e validi che possono, appena aperti,
rivolgersi al sole senza alcuna trepidazione».61
Forse sono gli occhi di qualche sapiente, o di qualche santo, Agostino
comunque non lo spiega. Dice soltanto però che anche questi occhi
sani e vegeti hanno bisogno soltanto, forse, di
un orientamento.62
Nel mito platonico invece, non si fa cenno a una simile possibilità.
Pertanto sembra che non possa esserci nessuno sguardo in grado di
girarsi senza provare dolore e rimanere abbagliato.
5. La luce che fonda la capacità di vedere «intuita»
in Agostino, «vista» in Platone
Siamo nella luce, nati per la luce, eppure di lei non possiamo che
ricevere un riflesso, come in uno specchio, essendo preclusa all'uomo
la possibilità di vederla comprendendola. Così, si diceva, per Agostino.
Abbiamo già evidenziato che questa posizione non deriva esclusivamente
dalle Scritture, ma è sostenuta da motivazioni, che possono essere
accettate o meno, di natura razionale. L'argomentazione, sinteticamente,
è questa: come può una natura finita videre comprehendendo
una Luce che, al pari di quella platonica, è al di là del divenire
e del sensibile, e pertanto eterna e incorruttibile, totalmente altra
rispetto alla natura umana? Per Agostino non ci possono essere eccezioni:
questa fonte che permette di vedere, formulare giudizi, intuire le
ragioni immutabili, rimane ineffabilis e incomprehensibilis.63
Com'è veramente, sicuti est, non la possiamo vedere.
Tutt'altra posizione invece in Platone. Il percorso verso la sorgente
termina con la visione completa del sole: lo si osserva hóiós
estin, quale è, e all'autón kath'autón en te autóu
chóra,64 esso
stesso nella sua propria sede. Anche per Agostino l'ascesi termina,
come afferma nella rielaborazione del mito platonico, con la visione
del sole,65 ma, memori
della fondamentale distinzione tra il vedere (intuire) e il vedere
comprendendo, non sarà mai una visione diretta. Non è un caso che
Platone, per indicare la visione penetrante il sole, usi quasi esclusivamente
il verbo horáo, che, dato il suo legame con la parola
idéa, suggerisce appunto un vedere dentro l'idea.66
Nessuna intuizione dunque, ma una comprensione vera e propria del
sole. Ne deriva che lo sguardo, da frontale divenuto circolare, non
potrà mai ricadere nella frontalità iniziale. Ossia, Platone non ipotizza
che, ridiscendendo dall'alto, l'occhio dell'uomo possa di nuovo essere
catturato dalle tenebre. La visione diretta della condizione di visibilità
rende immune lo sguardo da qualsiasi (ri)contaminazione frontale.
L'unica difficoltà che lo sguardo deve affrontare è quella di riabituarsi,
nel momento in cui l'uomo ritorna -- a suo rischio e pericolo67
-- dai prigionieri, a una condizione di non visibilità. Sembra quasi
che la contemplazione fornisca allo sguardo dell'uomo platonico una
corazza contro gli sguardi deviati. Invece l'intuizione agostiniana
della luce, di cui l'occhio partecipa, per quanto acuta possa essere,
non salvaguarda lo sguardo da future ricadute, non lo rende immune
dal diventare uno sguardo che non sa più vedere se stesso.68
Questo accade proprio perché non si dà una comprensione totale della
Luce che conferisca allo sguardo la certezza di quello che ha visto.
Agostino, pertanto, non risparmia accuse ai platonici (e indirettamente
a Platone) per la loro pretesa di lucem incommutabilis
veritatis contingere.69
Si può perciò legittimamente affermare che in Platone lo sguardo depone
-- una volta vista nella sua totalità la fonte dell'intelligibilità
-- il suo aspetto conflittuale, che mantiene sino a che non raggiunge
la meta. Potremmo dire, senza alcuna forzatura, che diviene uno sguardo
pacifico. In Agostino, invece, lo sguardo che è arrivato in prossimità
della meta, non decreterà mai (almeno in questa vita) una tregua definitiva
con i suoi nemici, i sensi,70
che possono sempre corromperlo. Lo sguardo rim
Su queste basi si capisce il motivo per cui Agostino non accenna,
nella rielaborazione del mito, alla possibilità che lo sguardo rimanga
lassù, nella sede del sole. Dal momento che lo sguardo, pur riconoscendosi
soggetto ricevente l'illuminazione, non può andare più in là di un'«intuizione»,
non può neanche voler rimanere in una luce che gli rimane occulta
e nascosta nella sua natura. È una luce intelligibile,71
certo, ma al tempo stesso «invisibile». È una luce «presente», dal
momento che l'uomo la intuisce nei suoi atti di intellezione e nelle
idee -- racchiuse nella mens -- che sono le immagini
riflesse delle idee contenute nella Luce, ma è contemporaneamente
assente. L'abisso incolmabile tra l'aspicere (o videre
o intueri) e il videndo comprehendere
(la visione completa della sorgente luminosa) presente in Agostino,
diventa uno stesso momento in Platone: qui, lo sguardo, nel momento
in cui guarda, vede intrinsecamente. Al guardare segue immediatamente
la visio, la contemplatio totale.
È perciò uno sguardo del tutto appagato. Anche in Agostino l'abisso
sarà colmato così che lo sguardo possa finalmente essere uno sguardo
comprensivo. Solo nell'altra vita però, quando allo sguardo rectus
atque perfectus seguirà la visio.72
6. Nota bibliografica
- Ch. Boyer, L'idée de vérité dans
la philosophie de saint Augustin, Paris, 1940.
- Ch. Boyer, S. Agostino filosofo, tr.
it., Bologna, 1965.
- R.J. Connelly, Light and Reality
in Saint Augustine, in «The Modern Schoolman»,
LVI, 3 (1979), pp. 237-250.
- Etienne Gilson, Introduzione allo studio
di Sant'Agostino, tr. it., Casale Monferrato, 1983 (soprattutto
pp. 87-120).
- Bernardus Jansen, Augustini theoria
illuminationis, in «Gregorianum», vol. XI, Roma (1930), pp.
146-158.
- R. Jolivet, La doctrine augustinienne
de l'illumination, in «Melanges Augustiniens»,
Paris (1931), pp. 52-172.
- Franz Körner, Abstraktion oder
Illumination?, in «Recherches Augustiniennes»,
vol. II, Paris, (1962), pp. 81-109.
- Andrè Mandouze, Saint Augustin,
Paris, 1968.
- Tina Manferdini, Comunicazione ed estetica
in Sant'Agostino, Bologna, 1995, (vedi pp. 68-93).
- H.I. Marrou, S. Agostino e l'agostinismo,
tr. it, Milano, 1960.
- Gerard O'Daly, La filosofia della mente in
Agostino, tr. it, Palermo, 1988.
- Ismael Quiles, Para una interpretación
de la iluminación agustiniana, in «Augustinus», III (1958),
pp. 255-268.
- Athanase Sage, La dialectique de
l'illumination, in «Recherches Augustiniennes»,
vol. II, Paris, 1962, pp. 111-123.
- M.F. Sciacca, Sant'Agostino, Palermo,
1991 (soprattutto pp. 255-276).
- I. Sestili, Thomae Aquinatis cum
Augustino de illuminatione concordia, in «Divus Thomas» 30
(1928), pp. 54-56.
- F.-J. Thonnard, La notion de lumière
en philosophie augustinienne, in «Recherches
Augustiniennes», vol. II, Paris (1962), pp. 125-175.
Note
-
Il rapporto che intercorre
tra l'uomo e la fonte della verità è simile a quello che c'è tra
il sole e la luna, vedi De Civ. Dei, 10,
2.
-
Sermo
182, 5, 5: «Lumen tibi esse non potes»
«tu non puoi essere luce a te stesso»; «Lucerna
et accendi potest, et exstingui potest: lumen verum accendere
potest, exstingui non potest» «una lampada si può accendere
e si può spegnere: la luce vera può accendere, non si può spegnere».
-
De Trin.
15, 6, 10: «Quam tamen sic intuebamur, ut nec
longe a nobis esset, et supra nos esset, non loco, sed ipsa sui
venerabili mirabilique praestantia, ita ut apud nos esse suo praesenti
lumine videretur» «tuttavia noi la intuivamo non lontana
da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile
e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso
di noi per la pienezza della sua luce».
-
De libero
arbitrio 2, 11, 32 -- 12, 34
-
De Trin.,
4, 1, 3: «in illa (riferito a lux) vivimus et
movemur et sumus» «nella luce viviamo, ci muoviamo e siamo»
e De Gen. C. Man., 1, 3, 6: «quia
illud lumen omnem hominem illuminat venientem in hunc mundum»
«poiché quella luce illumina ogni uomo che viene in questo mondo».
-
Ivi, 15, 7, 11: «Non
igitur anima, sed quod excellit in anima mens vocatur»
«non dunque l'anima ma la parte migliore dell'anima è chiamata
mente». La mens è come caput, oculus,
facies dell'anima.
-
In Ioann.
Ev., tract. XXXV, c. 8, n. 3: «ed avendo conosciuto che
anche la ragione è soggetta a mutamenti mi sono ritirato nel luogo
più alto della mia intelligenza. Ed è qui che, messe da parte
le illusioni tutte dell'abitudine e i fantasmi dell'immaginazione,
mi domandai dunque qual era questa luce per cui è illuminata la
mia ragione, quando giudica che ciò che non soffre mutamento è
migliore di ciò che muta e da dove le derivi la nozione di questa
natura immutabile, che essa non avrebbe posta, come ha fatto,
al di sopra del mutabile tutto, se non l'avesse conosciuta; ed
infine riuscii a contemplare per un istante e con sguardo tremante
ciò che sommamente è».
-
De Trinitate,
12, 15, 24.
-
Ivi, 14, 15, 21: «Ubinam
sunt istae regulae scriptae, ubi quid sit iustum et iniustus agnoscit,
ubi cernit habendum esse quod ipse non habet? Ubi ergo scriptae
sunt, nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur».
Vedi anche Ivi, 12, 15, 24: «Denique cur de solis
rebus intellegibilibus id fieri potest, ut bene interrogatus quisque
respondeat quod ad quamque pertinet disciplinam, etiamsi eius
ignarus est?» «Infine, perché soltanto a riguardo delle
cose intelligibili può accadere che qualcuno risponda, se lo si
interroga ad arte, su ciò che appartiene a qualsiasi disciplina,
sebbene la ignori del tutto?»; cfr. Retractationes,
1, 4, 4: «Credibilius est enim propterea vera
respondere de quibusdam disciplinis etiam imperitos earum, quando
bene interrogantur, quia praesens est eis, quantum id capere possunt,
lumen rationis aeternae, ubi haec immutabilia vera conspiciunt,
non quia ea noverant aliquando et obliti sunt, quod Platoni vel
talibus visum est» «c'è piuttosto da ritenere che anche
degli indotti siano in grado di fornire risposte conformi a verità
su talune discipline, quando vengano fatte loro delle domande
in forma corretta; ma ciò avviene perché risplende in loro la
luce della ragione eterna nella quale contemplano, nei limiti
in cui è dato loro di farlo, le verità immutabili, non perché
le abbiano conosciute un tempo e se ne siano poi dimenticati,
come hanno creduto Platone e quelli che la pensano come lui».
-
Ivi, 9, 6, 9: «intuemur
inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus, definiamus,
non qualis sit uniuscuiusque hominis mens, sed qualis esse sempiternis
rationibus debeat» «intuiamo l'inviolabile verità secondo
la quale definiamo in modo perfetto in quanto è possibile, non
ciò che lo spirito di ciascun uomo è, ma ciò che deve essere secondo
le ragioni eterne».
-
De pecc.
mer. et rem., 1, 25, 37: «illo lumine intus
mens eius [dell'uomo] aspergitur, quod aeternum manet, quod etiam
in tenebris lucet» «la sua mente è pervasa nell'intimo
da quella luce che dura eterna e splende anche nelle tenebre».
Vedi anche De Trin. 14, 15, 21: «Sed
commemoratur, ut convertatur ad Dominum, tamquam ad eam lucem
qua etiam cum ab illo averteretur quodam modo tangebatur»
«ma si può far ricordare allo spirito il Signore, perché si volga
a lui, come verso quella luce che lo toccava in qualche modo,
anche quando si allontanava da lui»; cfr. Sermo
133, 6: «et si ego forte obscuritatis aliquid
habeo, nec comprehendere ad perfectum valeam, illa lucet»
«se per caso ho dell'oscurità, così che non sono idoneo a comprenderla
perfettamente, quella luce risplende»; vedi anche Enarr.
In Ps. 6, 7, 8: «Nam ea est caecitas mentis.
In eam quisquis datus fuerit, ab interiore Dei luce secluditur;
sed nondum penitus cum in hac vita est» «è questa infatti
la cecità dello spirito e chiunque è abbandonato ad essa, è escluso
dall'interiore luce di Dio, ma non ancora del tutto finchè è in
questa vita».
-
De pecc.
mer. et rem., 1, 25, 38: «non resistendum
est tunc eam fieri, cum anima creatur, et non absurde hoc intellegi,
cum homo venit in mundum» «tale illuminazione avviene nel
momento stesso della creazione dell'anima». Anche sulla base di
questo ed altri passi, risulta un po' fuorviante la suddivisione
da parte di Sciacca, seppur, forse, motivata da esigenze didattiche,
dei vari tipi di illuminazione, incorrendo nel rischio di far
credere che ci siano più luci e più illuminazioni (M. F. Sciacca,
Sant'Agostino, Palermo, 1991). Invece l'illuminazione
è unica, c'è un'unica luce che è al tempo stesso naturale
e speciale. Il lume della ragione è lo stesso lume di
cui partecipa l'intelligenza.
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De magistro,
11, 38: «De universis autem quae intellegimus
non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem
consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti»
«sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l'individuo
che parla all'esterno, ma con la verità che nell'interiorità regge
la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole», cfr.
anche De pecc. mer. et rem., 1, 25, 36:
«ne quisquam putaret ab eo se illuminari, a quo
aliquid audit ut discat, non dico, si quemquam magnum hominem,
sed nec si angelum ei contingat habere doctorem» «perché
nessuno pensi di essere illuminato da chi lo istruisce, anche
se ha per maestro, non dico un grande uomo, ma addirittura un
angelo».
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Soliloquia,
1, 5, 11 -- 6, 12; vedi anche Ivi, 1, 8, 15: «Ergo
et illa quae in disciplinis traduntur, quae quisquis intellegit,
verissima esse nulla dubitatione concedit, credendum est ea non
posse intellegi, nisi ab alio quasi suo sole illustrentur»
«quindi si deve ritenere che anche i concetti relativi alle scienze,
che chiunque intende ritiene assolutamente veri, non possono essere
intesi se non vengono illuminati, per così dire, da un proprio
sole», cfr. In Io. Evang., tract. 35, 3:
«Come gli occhi, che abbiamo in faccia e che chiamiamo luci, anche
quando sono sani e aperti hanno bisogno della luce che viene dall'esterno
-- sottraendo o mancando la quale, benché sani e aperti, non vedono
--, così la nostra mente, che è l'occhio dell'anima (corsivo
nostro), se non viene irradiata dalla luce della verità e non
viene prodigiosamente rischiarata da colui che illumina senza
dover essere illuminato, non potrà pervenire né alla sapienza
né alla giustizia».
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De ordine,
2, 3, 10 -- 4, 10: «menti hoc est intellegere,
quod sensui videre» «il pensare è per l'intelligenza ciò
che il vedere per la vista»; la differenza che Agostino pone,
con molta originalità e quasi precorrendo posizioni idealistiche,
tra l'occhio corporeo e quello della mente risiede in questo:
l'occhio corporeo non può cadere sotto il suo sguardo, non vede
se stesso se non in uno specchio. Invece l'occhio della mente
si vede pensandosi, e quando pensa se stesso «ritorna su di sé
non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale»
. Vedi In Io. Evang., tract. 47, 3: «Tutto
ciò che intendiamo, lo intendiamo mediante l'intelligenza; ma
l'intelligenza medesima, in che modo l'intendiamo se non con l'intelligenza
stessa? Forse si può dire altrettanto per l'occhio del corpo:
che vede le altre cose e vede se stesso? No: l'uomo vede con i
suoi occhi ma non vede i suoi occhi. L'occhio del corpo può vedere
le altre cose, ma non se stesso; l'intelletto invece intende le
altre cose e anche se stesso». Vedere se stessi è anche pensare
se stessi: cfr. De Trin., 14, 6, 8, «tuttavia
è così grande la forza del pensiero che la mente stessa non si
pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stessa».
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De beata
vita, 4, 35.
-
De imm.
animae, 10, 17.
-
Tractatus
14, 1: «Lumen autem illuminans a seipso lumen
est, et sibi lumen est, et non indiget alio lumine ut lucere possit,
sed ipso indigent cetera ut luceant» «la luce che illumina
è luce per se stessa, è luce a se stessa, e non ha bisogno di
altra luce per risplendere, ma di essa hanno bisogno le altre,
affinché le illumini».
-
Op. cit. p. 267.
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De diversis
quaestionibus 83, 46, 2: «sunt namque ideae
principales quaedam formae vel rationes rerum stabiles atque incommutabiles,
quae ipsae formatae non sunt ac per hoc aeternae ac semper eodem
modo sese habentes, quae divina intellegentia continentur»
«Le idee sono infatti forme primarie o ragioni stabili e immutabili
delle cose: non essendo state formate, sono perciò eterne e sempre
uguali a se stesse e sono contenute nell'intelligenza divina».
-
Nemmeno a uomini eccezionali,
come Mosè, è stato permesso, ricorda Agostino, di godere di una
comprensione totale della Luce. Non a caso essa si è mostrata
non nella sua natura, ma secondo l'aspetto che ha voluto. Cfr.
Ep. 147, 8, 20, 21, 22 e Sermo,
23, 14: «Moysi apparebat latens» «a Mosè
appariva, ma occulto».
-
Ep.
147, 8, 20: «nemo potest eum in hac vita videre
vivens sicuti est». «nessuno da vivo può vederlo [Dio,
la Luce] in questa vita come egli è».
-
Sermo
117, 3, 5: «De Deo loquimur, quid mirum si non
comprehendis? Si enim comprehendis, non est Deus. Sit pia confessio
ignorantiae magis, quam temeraria professio scientiae (...) comprehendere
autem, omnino impossibile» «dal momento che parliamo di
Dio, che meraviglia se non comprendi? In verità, se comprendi
non è Dio. Piuttosto si riconosca umilmente di non capire, invece
di fare una temeraria professione di scienza (...) quanto a comprenderlo,
invece, è assolutamente impossibile».
-
Ivi, 130, 15, 28.
-
De Trin.,
15, 23, 44 e 25, 45.
-
Nessuno può essere filosofo,
dichiara Agostino insieme a Platone, se non le ha intuite: De
div. quaest., 45, 1.
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Sermo,
23, 14: «Si ergo capis, si intellegis, potest
hoc Deus simul et apparere et latere, apparere specie, latere
natura» «se dunque riesci a capire, se riesci a comprendere,
Dio può insieme e essere visto e rimanere occulto, essere visto
in una qualche forma, rimanere occulto nella natura».
-
Soliloquia,
1, 1, 2: «pater intellegibilis lucis, pater evigilationis
atque illuminationis nostrae».
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Ep.
147, 8, 9: «una cosa infatti è vedere, un'altra è percepire interamente
con la vista» e continua: «Quandoquidem id videtur,
quod praesens utcumque sentitur: totum autem comprehenditur videndo,
quod ita videtur ut nihil eius lateat videntem, aut cuius fines
circumspici possunt; sicut te nihil latet praesentis voluntatis
tuae, circumspicere autem potes fines annuli tui» «poiché
si vede ciò che si percepisce in qualche modo presente: ma si
percepisce con la vista nella sua interezza una cosa di cui nessuna
parte sfugge a chi la guarda o di cui si possano abbracciare con
la vista i limiti».
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Ep.
147, 6, 18: «è qui presente, eppure non lo si vede». Ovviamente
il videre di cui parla qui Agostino è il videre accompagnato da
comprehensio.
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De trin.,
15, 6, 10: «lux illa ineffabilis» e Ep.,
147, 19, 46. Si parla di «secretissimo Deo»
(Soliloquia, 1, 7, 14) e di «invisibilia
Dei» (De trin., 15, 6, 10).
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De Sermone
Domini in monte, 2, 3, 14: «et in ipsa
conversione purgatio interioris oculi» «e nell'atto del
volgersi avviene la purificazione dell'occhio interiore».
-
Ecco i meriti che Agostino
esorta a vedere nella filosofia di Platone e dei platonici (tenendo
presente che la fonte della luce, che in Platone è l'idea del
Bene, per Agostino è, ovviamente, Dio), De civ.
Dei, 8, 6: «Propter hanc incommutabilitatem
et simplicitatem intellexerunt eum et omnia ista fecisse, et ipsum
a nullo fieri potuisse» «i platonici compresero che per
questa sua non soggezione al divenire e alla molteplicità egli
ha creato tutte le cose e che è impossibile la sua dipendenza
nell'essere da un altro», e ancora Ivi «viderunt
esse aliquid ubi prima esset incommutabilis et ideo nec conparabilis;
atque ibi esse rerum principium rectissime crediderunt, quod factum
non esset et ex quo facta cuncta essent» «ebbero l'intuizione
dunque che esiste un essere in cui la forma prima è fuori del
divenire e quindi assoluta e ritennero con molta coerenza che
in lui è la ragione ideale non creata delle cose e nella quale
tutto è stato creato». Cfr. anche Ivi, 8, 5; 8, 8 e 11, 25.
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Per la rielaborazione del
mito, vedi soprattutto Soliloquia, 1, 13,
23, ma anche, per una maggiore comprensione, 1, 4, 24-25; 1, 4,
15, 27 e prima 1, 5, 6, 12-15.
-
Repubblica
VI, 508a-c.
-
Così come la vista che è
insita negli occhi non svolge la sua funzione in assenza di luce,
allo stesso modo c'è bisogno di una luce intelligibile che illumini
l'intelletto, cfr. Repubblica VI, 508c: «ciò che
il bene è nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli
intelligibili, altrettanto è questo (il sole) nel visibile rispetto
alla vista e agli oggetti visibili». (Bur, Milano 1997). Perciò
l'intelletto non è sole a se stesso come la vista o l'occhio non
sono il sole.
-
Agostino parla dell'auctor
come «intelligentiae dator»; Platone, Repubblica,
517c, definisce l'idea del Bene: «én te noetó auté
kyría alétheian kai vóun paraschoméne» «nell'intelligibile
essa stessa (idea del Bene) legittima largitrice di verità e di
ragione»; oltre ad affermare Ivi, 518e: «he de areté
tou phronésai pantós mállon theiotérou tinós tynchánei» «(la
virtù) del comprendere appartiene quanto mai a un più divino elemento».
-
Repubblica
VII, 514a: «éis te to prósthen mónon horán».
-
Ivi, 514b.
-
Ivi, 517b: «to
de tou pyrós en auté phós té tou helíou dynámei» «(assomigliando)
la luce del fuoco che ivi (nella dimora del carcere) brilla all'azione
del sole».
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Vedi nota
9.
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Questa lettura ci sembra
giustificata dallo stesso incipit del libro settimo: quando cioè
Platone dichiara che questo mito rappresenta la natura umana nei
suoi due aspetti di sapienza e ignoranza.
-
Vedi nota
11.
-
Soliloquia,
1, 13, 23: «Tale aliquid sapientiae studiosissimis,
nec acute, iam tamen videntibus, magistri optimi faciunt»
«e i migliori maestri adottano tale ascesi per coloro che vivono
in amoroso studio di sapienza e che già veggono sebbene ancora
non con acutezza».
-
Se si analizza Rep.
517a, pare chiaro che chi libera è colui che ridiscende («kai
ton epicheiróunta lýein te kai anágein», «e colui che
[corsivo nostro] cercasse di scioglierli e tirarli su». Ma, se
si prende in considerazione (Rep. 519c)
il participio aoristo passivo apallagén (dal
verbo apallátto: liberare) che ha valore soprattutto
mediale-riflessivo (ossia liberarsi), si potrebbe essere indotti
a pensare a un movimento che prende avvio dall'anima.
-
Ivi, 518d: «Tóutou
tónyn, én d'egó, autóu téchne án éie, tes periagogés, tína trópon
hos rástá te kai anysimótata metastraphésetai, ou tóu empoiésai
autó to horán, all'hos échonti men autó, ouk orthós de tetramméno
oudé bléponti hói édei, tóuto diamechanésasthai», contro coloro
che Rep. 518c: «phasí dé pou
ouk enóuses en té psyché epistémes sphéis entithénai, hóion typhlóis
ophtalmóis ópsin entithéntes» «dicono che, non essendovi alcuna
conoscenza nell'anima, loro ce la mettono dentro, quasi infondendo
la vista ad occhi ciechi».
-
Molti hanno interpretato
la dottrina dell'illuminazione agostiniana come un sostitutivo
della dottrina della reminiscenza platonica. Non so quanto possa
essere corretto visto che, in Platone, la facoltà di vedere è
insita nell'uomo come dýnamis, e non tanto, o
non solo, perché un tempo abbia contemplato. Nel mito non c'è
relazione esplicita tra uno sguardo potenziale dell'uomo e una
sua vita precedente.
-
Vedi In
Io. Evang. tr. 34, 10 e vedi anche De vera
rel. 35, 65.
-
De Sermone
Domini in monte, 2, 3, 14: «et in ipsa
conversione purgatio interioris oculis» «e nell'atto del
volgersi avviene la purificazione dell'occhio interiore».
-
Rep.
519b.
-
Ivi, 515e: «e se quegli
lo costringesse a guardare alla luce stessa, non credi che gli
farebbero male gli occhi, e che fuggirebbe tornando a rivolgersi
a quegli oggetti che può scorgere, e questi riterrebbe davvero
più chiari di quelli mostratigli?». Stessa affermazione in Agostino,
Soliloquia, 1, 13, 23: «alii
vero ipso quem videre vehementer desiderant, fulgore feriuntur,
et eo non viso saepe in tenebras cum delectatione redeunt»
«altri rimangono abbacinati proprio dallo splendore che desiderano
ardentemente di vedere e, poiché non l'hanno visto, tornano con
diletto alle tenebre».
-
Rep.,
515d-e («anankázoito», «anankázoi»
«fosse costretto, costringesse»), Ivi, 516a («Ei
de, én d'egó, entéuthen hélkoi tis autón bía» «se uno lo trascinasse
via a forza»), Ivi, 519d («anankásai»).
-
La fatica dello sguardo
è esemplificata in De Gen ad litt. 12,
31, 59: «quae cum conatur [corsivo nostro]
lumen illud intueri palpitat infirmitate et minus valet»
«quando si sforza (l'anima) di contemplare quella luce, batte
le palpebre a causa della sua debolezza e non riesce a vederla
interamente».
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De Trin.,
15, 6, 10: «Sed quia lux ineffabilis nostrum reverberabat
obtutum» «ma poiché quella luce ineffabile abbagliava il
nostro sguardo».
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Per il percorso di ascesi
verso la fonte della completa visibilità -- l'idea del Bene --
(un percorso che non può avvenire exáiphnes,
tutto d'un tratto) vedi Rep., 516b («avrebbe
bisogno, io credo, di abituarvisi, per poter vedere gli oggetti
alla superficie; e anzitutto discernerebbe più facilmente le ombre,
poi le immagini umane e degli altri oggetti riflesse nell'acqua,
infine gli oggetti stessi; quindi egli vedrebbe più facilmente
i corpi celesti e il cielo stesso di notte, guardando la luce
delle stelle e della luna, anziché di giorno il sole e la luce
solare»). Per il percorso che in Agostino lo sguardo deve compiere,
vedi Solil. 1, 13, 23: «Primo
enim quaedam illis demonstrata sunt quae non per se lucent, sed
per lucem videri possint, ut vestis, aut paries, aut aliquid horum.
Deinde quod non per se quidem, sed tamen per illam lucem pulchrius
effulgeat, ut aurum, argentum et similia, nec tamen ita radiatum
ut oculos laedat. Tunc fortasse terrenus iste ignis modeste demonstrandus
est, deinde sidera, deinde luna, deinde aurorae fulgor, et albescentis
coeli nitori» «dapprima si devono loro mostrare oggetti
che non hanno luce propria, ma che possono essere veduti mediante
la luce come una veste, una parete e qualcosa di simile. In seguito
mostrare qualche oggetto che non di per sé ma mediante la luce
più intensamente rifulga come l'oro, l'argento e simili, comunque
non tanto colpito dai raggi del sole che possa offendere gli occhi.
Allora convenientemente forse si può mostrare il fuoco sensibile
e poi le stelle, in seguito la luna, il chiarore dell'aurora e
la splendidezza del cielo mentre albeggia».
-
Mentre Agostino ipotizza
la possibilità di saltare qualche gradino del percorso educativo
(Ivi, «sive per totum ordinem, sive quibusdam
contemptis» «sia attraverso l'intera serie dei momenti,
o anche tralasciandone qualcuno»), Platone non lo dichiara, inducendo
così a pensare che le tappe siano, probabilmente, vincolanti.
-
Rep.
515 c.
-
Infatti, scoprendo che l'idea
del Bene è causa di tutto ciò che è nel mondo intelligibile (vedi
Rep. 516c: «e dopo di ciò egli potrebbe
ormai argomentare su di esso, che è lui a produrre le stagioni
e gli anni, e a sovrintendere a tutto ciò che è nel mondo visibile,
e causa, in certo qual modo di tutte quelle cose che essi prima
vedevano») l'uomo si scopre anch'esso come «prodotto», «derivato».
-
Rep.,
516a (vedi il verbo che indica il soffrire, «odynásthai»).
-
Ivi. , 515 D (vedi il verbo
che indica la difficoltà, «aporéin»).
-
Soliloquia,
1, 13, 23. Invece di seguire la traduzione secondo cui quel «sine
ulla trepidatione» andrebbe reso con «senza rimanere abbacinati»,
ho preferito mantenere la parola latina che, a mio avviso, fa
capire meglio il vacillamento dello sguardo e le sue difficoltà.
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Ivi, «His
quodammodo ipsa lux sanitas est, ned doctore indigent, sed sola
fortasse admonitione».
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Sol.
1, 13, 23. (Si faccia attenzione ai problemi che crea, considerate
le premesse, quel «comprehendit» che compare
in Ivi, «Quippe pro sua quisque sanitate ac firmitate
comprehendit illud singulare ac verissimum bonum» «ciascuno,
a seconda della propria salute e robustezza, può possedere
[corsivo nostro] il vero e unico bene»).
-
Rep.,
516b.
-
Sol.,
1, 13, 23: «sine trepidatione et cum magna voluptate
solem videbit» «senza trepidazione e con grande diletto
vedrà il sole».
-
Rep.,
517c (il verbo variamente coniugato nei suoi vari modi, horásthai,
ophthéisa, idéin), Ivi., 517 E (idónton),
519 D (idéin, idósi), 520 C (heorakénai).
-
Per quanto riguarda Platone,
vedi Ivi, 517a. Agostino dichiara, genericamente, (Sol.,
1, 13, 23) «Quibus pericolosum est, quamvis iam
talibus ut sani recte dici possint, velle ostendere quod adhuc
videre non valent» «ed è pericoloso tentare di far comprendere
ad essi, sebbene in simili condizioni si possono considerare ormai
guariti, che non sono capaci di vedere».
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Sol.,
1, 14, 26: «Sed, quaeso te, si quid in me vales,
ut me tentes per aliqua compendia ducere, ut vel vicinitate nonnulla
lucis illius, quam, si quid profeci, tolerare iam possum, pigeat
oculos referre ad illas tenebras, quas reliqui; si tamen relictae
dicendae sunt, quae caecitati meae adhuc blandiri audent»
«ti prego, se hai dei poteri su di me, provati a condurmi attraverso
qualche scorciatoia in prossimità di quella luce. Vicino a lei
ormai, nell'ipotesi di un mio progresso spirituale, posso sopportare,
mi rincrescerà di volgere gli occhi alle tenebre che ho abbandonato,
seppur si possono dire abbandonate quando osano ancora lusingare
la mia cecità» e ancora, Ivi, 1, 14, 25: «Non mi rifugerò più
nelle tenebre quando vedrò il sole. Ed anche simile discorso sembrerebbe
quasi conveniente alla retta ascesi, mentre è assai lontano dall'esserlo»,
ed, Ivi, «noi ci illudiamo di percepire di quanto siamo emersi
dalle tenebre, ma non ci è permesso né di aver coscienza né di
avvertire fino a qual punto eravamo immersi e fin dove abbiamo
progredito».
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De Trin.,
4, 15, 20: «nonnulli eorum potuerunt aciem mentis
ultra omnem creaturam transmittere, et lucem incommutabilis veritatis
quantulacumque ex parte contingere», «alcuni di essi sono
riusciti a sollevare la punta della mente al di sopra di ogni
creatura e attingere, per quanto poco, la luce dell'immutabile
verità».
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Sol.,
1, 7, 14: «i sensi possono sempre generare dei dubbi».
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Ep.,
120, 2, 10: «[Lumen] invisibiliter et ineffabiliter,
et tamen intelligibiliter lucet» «[questa Luce] brilla
in modo invisibile e ineffabile, ma purtuttavia in modo intelligibile».
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Sol.,
1, 6, 13.
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