Gottfried Leibniz (fonte)

L'infinito nel mondo

Profondamente coinvolto nella vita politica e culturale del suo tempo, Gottfried Leibniz [p] intende far tesoro di tutte le giuste intuizioni della storia del pensiero per dar vita ad un sistema filosofico che dia ragione della ricchezza e complessità dell'universo. I suoi interessi spaziano in ogni campo del sapere. Meriti indiscussi vennero ottenuti nella matematica, dove contemporaneamente ad Isaac Newton [p] elabora le tecniche del «calcolo infinitesimale», che permette di affrontare problemi altrimenti insolubili (come il calcolo dell'area di superfici delimitate da linee curve). Grandi risultati vengono ottenuti anche nel campo della logica, concepita come la scienza di maggiore generalità in quanto studia ogni formula per la sua sola forma, a prescindere dal significato dato ai termini. La concezione logica più gravida di conseguenze riguarda la verità: vera è solo la proposizione che esprime ciò che è già implicito nel soggetto. Ciò non elimina tuttavia la differenza tra proposizioni necessarie (che sarebbero vere in qualsiasi mondo possibile) e contingenti (che potrebbero essere false in un diverso universo non contraddittorio). È questa distinzione che secondo Leibniz conserva anche uno spazio per la libertà umana. 

Dalla teoria della verità Leibniz ricava la concezione della sostanza: essa deve comprendere una nozione così completa da poter derivare da essa tutti i possibili predicati veri, in altre parole tutta la sua storia, compresi i rapporti con le altre sostanze. Ciò significa che ogni sostanza (detta anche «mònade») costituisce un mondo a sé, e rispecchia le altre sostanze non perché esse esercitino un'influenza su di essa, ma piuttosto perché Dio ha prestabilito tra loro un'«armonia». Dalle stesse premesse e suggestionato dal calcolo infinitesimale e dalle sue indagine fisiche, Leibniz ricava anche la concezione di un'universo infinitamente ricco, vivo in ogni sua infinitesima parte e pieno di energia. Il principio dell'armonia prestabilita permette d'altra parte di risolvere tanto il problema del rapporto tra corpo e anima (non ha senso cercare di determinare come interagiscano fra di loro), quanto il problema della conoscenza (ogni nozione ha in realtà origine all'interno della mente). Questa forma peculiare di innatismo viene precisata attraverso il confronto critico con John Locke [p]

Le ripercussioni teologiche sono forse le più celebri del pensiero di Leibniz. Egli non solo condivide in buona parte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio trasmesse dalla tradizione (aggiungendo di suo la prova basata sull'armonia prestabilita), ma ritiene che la teoria dei mondi possibili sia una premessa sufficiente per fondare un perfetto ottimismo: Dio non avrebbe avuto alcun motivo di creare proprio questo mondo se esso non fosse il migliore. Il male evidentemente esistente dunque va considerato quello inevitabile per non rendere il mondo contraddittorio e dunque impossibile. In questo modo l'uomo possiede a priori l'assicurazione che il suo destino ultimo supera ogni desiderio e speranza.  


Lipsia, 1646 -- Hannover, 1716. Studiò a Lipsia diritto e filosofia. Nel 1667 iniziò la carriera politico-diplomatica. Questa gli permise di entrare in contatto con il mondo intellettuale internazionale, con il quale tenne anche intensi scambi epistolari. Nel frattempo vagheggiò il progetto di una unificazione politica e religiosa dell'Europa. Opere principali (per lo più in francese, raramente in latino): Discorso di metafisica (titolo originale Trattato delle perfezioni di Dio, 1686, pubblicato nel 1846); Sistema nuovo della natura e della comunicazione delle sostanze, nonché dell'unione che c'è tra l'anima e il corpo (1695); Nuovi saggi sull'intelletto umano (1704, pubblicati nel 1765); Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male (1710); Princìpi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714, pubblicato nel 1718); Monadologia (originariamente senza titolo, 1714, pubblicato nel 1720).

1. L'opera

Quando si osserva la produzione di Leibniz, la prima cosa che impressiona è l'ampiezza dei suoi interessi congiunta all'importanza dei risultati che egli raggiunse in molti campi: oltre alla filosofia infatti occupano un rilevante spazio nelle sue ricerche anche la matematica, la fisica, il diritto, la teologia, la storia, la linguistica (senza considerare l'importanza anche della sua attività pratica in campo diplomatico-politico e diplomatico-religioso). Da questo punto di vista si tratta di uno degli ultimi intellettuali veramente universali comparsi nella storia europea. Lo stesso spirito di universalità contraddistingue anche la sua opera filosofica in senso stretto, nella quale egli si preoccupa non tanto di contestare, quanto di elaborare un punto di vista dal quale si mostri la parziale verità delle opinioni prima di lui sostenute:

 

Io approvo la maggior parte di ciò che leggo. Sapendo da quanti lati le cose possono essere prese, trovo sempre qualche circostanza che scusa o difende il mio autore (Lettera a Placcius, 1693). La maggior parte delle sette hanno ragione in buona parte di ciò che sostengono, ma non tanto in ciò che negano (Erd. 702 a).

Questa volontà di ricerca di conciliazione spiega il gran numero di influenze che è possibile rilevare nel suo pensiero. Anzitutto la grande filosofia greca (Platone a preferenza di Aristòtele), ma anche la Scolastica (particolarmente Tommaso d'Aquino), che egli contrariamente a molti contemporanei valuta positivamente, e poi soprattutto i grandi filosofi del Seicento, confrontandosi con i quali sviluppa alcune delle sue idee più originali: particolarmente Descartes [p], Spinoza [p], Locke, Newton, Bayle [p]. Questo eclettismo si accompagna ad una profonda fiducia nella possibilità della ragione umana e in particolare della filosofia: Leibniz è perfettamente convinto che sia possibile giungere ad una spiegazione dei princìpi della realtà definitiva, e quella che cerca è -- con una espressione che diventerà celebre e sarà talvolta ripresa -- la philosophia perennis, strutturata in maniera rigorosa e coerente.

Ciò malgrado, Leibniz non espose mai la sua filosofia in un'opera sistematica e completa, probabilmente perché troppo preso dai suoi impegni pubblici per credere importante il compito di divulgare le sue maggiori intuizioni. I suoi due testi più ampi -- i Nuovi saggi sull'intelletto umano e i Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male -- sono infatti scarsamente sistematici, affrontano solo problemi specifici, e per di più avendo di mira più la facilità di comprensione che l'esattezza. Presentazioni globali del suo pensiero vanno invece cercate in diversi piccoli saggi e importanti approfondimenti si trovano nell'epistolario. Le piccole discordanze che si possono trovare in tali scritti (probabilmente favorite proprio dalla mancanza di un'opera complessiva, che avrebbe dato l'occasione ad una revisione globale) non impediscono di tracciare un quadro sostanzialmente coerente, che eserciterà tra l'altro nei suoi vari elementi grande influenza sull'illuminismo tedesco.

2. Il calcolo infinitesimale

2.1. I problemi

La fama di Leibniz come matematico è legata soprattutto alla prima sistemazione organica del «calcolo infinitesimale». Di essa egli diede notizia in due articoli pubblicati negli Acta Eruditorum («Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, quae nec fractas, nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus», 1684 e «De geometria recondita et analysi indivisibilium atque infinitorum», 1686). Tale pubblicazione diede origine ad una violenta polemica a distanza con Isaac Newton, il quale rivendicò la priorità della scoperta e giunse praticamente ad accusare Leibniz di plagio. I documenti che possediamo sembrano far capire che entrambi giunsero indipendentemente alla stessa scoperta (formulata solo in termini differenti), che del resto era all'epoca preparata dalla soluzione già nota di diversi casi particolari. Diamo qui, in una forma molto semplificata, un'idea dei problemi che il calcolo infinitesimale affronta e degli strumenti coi quali li risolve.

Il presupposto del calcolo infinitesimale è l'elaborazione della geometria analitica da parte di Descartes, vale a dire della possibilità di tradurre problemi geometrici in problemi algebrici e viceversa. Sul piano cartesiano, infatti, ogni funzione f(x) = y è rappresentata da una linea. Come è noto, i polinomi di primo grado sono rappresentati da linee rette, quelli di grado superiore e le funzioni di altro tipo da linee curve. Proprio in relazione a questo secondo caso sorgono due importanti problemi:

  1. Come calcolare l'area di una figura delimitata da linee curve? Esaminiamo il caso più semplice: quello del trapezoide delimitato dai due assi, da una retta parallela all'asse delle ordinate e da una linea curva di funzione f(x) = y. È facile immaginare un metodo approssimato per calcolare quest'area: basta dividere il trapezoide in sottili rettangoli verticali e sommarne l'area. La base di ognuno di essi sarà parte dell'asse delle ascisse, l'altezza sarà calcolata usando la funzione f(x). Ora, è evidente che quanto maggiore sarà il numero dei rettangoli, tanto più preciso sarà il calcolo dell'area. Ma come calcolare l'area esatta? Bisognerebbe dividere la figura in infiniti rettangoli e sommarne le infinitesime aree. È possibile ciò?

  2. Come calcolare il coefficiente angolare della retta tangente ad un dato punto di una linea curva? Anche qui si può pensare ad un sistema approssimato. Si può scegliere nelle vicinanze dell'ascissa data un'altra ascissa, e calcolare le ordinate corrispondenti. Dividendo la differenza delle due ordinate per la differenza delle due ascisse si avrà -- come è noto -- il coefficiente angolare della retta passante per i due punti così individuati. Non si tratta però di una tangente, perché essa attraversa la linea curva in due punti. Per ottenere il coefficiente della tangente bisognerebbe rendere infinitamente piccola la distanza tra le due ascisse (e di conseguenza tra le due ordinate), e calcolare il quoziente tra due infinitesimi. È possibile?

I due problemi fondamentali del calcolo infinitesimale. Qual è il coefficiente angolare della retta tangente in un punto di ascissa x' ad una curva f(x) = y? Qual è l'area del trapezoide delimitato dai due assi, dalla retta x = x' e dalla curva f(x) = y?


2.2. Il calcolo differenziale e integrale

Il problema della tangente venne risolto con quello che Leibniz chiamò «calcolo differenziale». Con esso viene ricavata dalla funzione data y una funzione dy/dx (detta «rapporto differenziale», da leggere «de ipsilon su de ics»), dove la d è un operatore che indica il «differenziale» ovvero l'«incremento infinitesimo» delle variabili. Tale funzione esprime dunque il coefficiente angolare della retta tangente al punto di ascissa x della funzione originaria. Nel caso dei polinomi sono sufficienti due semplici regole:

 

d(y + z) / dx = dy / dx + dz / dx

d(axn) / dx = anxn-1

La prima regola stabilisce che il differenziale di una somma è uguale alla somma dei differenziali degli addendi: in un polinomio quindi si tratta semplicemente di differenziare separatamente ogni termine. La seconda regola indica quale sia il rapporto differenziale di un monomio. Si noti che essa è valida anche nel caso di costanti (che vanno considerati monomi di grado nullo) e di monomi con esponente negativo o frazionario. Benché la dimostrazione di queste due regole sia relativamente facile, la loro formulazione in termini così generali fu senza dubbio geniale.

Integrazione: Riguardo alla notazione e alla terminologia, abbiamo usato quasi esattamente quella di Leibniz, che era sempre molto attento alla necessità di elaborare simboli comodi e coerenti. Essa è ancor oggi (con poche modifiche) usata, quantunque sia stata abbandonata la teoria intuitiva degli «infinitesimi» che le stava alla base. Il simbolo dx rimane così solo una comoda indicazione della variabile indipendente rispetto a cui bisogna differenziare la funzione (e anche un omaggio a Leibniz). Ai termini «rapporto differenziale» e «differenziare» vengono però oggi preferiti «derivata» e «derivare», che risalgono a Joseph-Louis Lagrange [p] (1736-1813), che adoperò per primo anche il simbolo y' (oggi largamente usato) per indicare la derivata di y. Fine dell'integrazione

La situazione è simile per quanto riguarda il problema dell'area. Il procedimento qui introdotto venne chiamato da Leibniz «calcolo integrale». Con esso dalla funzione data y viene ricavata una funzione Sy dx (detta «integrale», da leggere «integrale di ipsilon de ics»), in cui il simbolo S è una esse allungata che simboleggia la somma degli infiniti prodotti degli infinitesimi incrementi dell'ascissa per le ordinate corrispondenti. L'integrale dunque esprime, per ogni valore della funzione originaria, l'area del trapezoide delimitato nel modo prima descritto. Anche in questo caso per i polinomi bastano due semplici regole:

 

S (y + z) dx = Sy dx + Sz dx

S (axn) dx = ax (n + 1) / (n + 1)

Integrazione: Ecco un esempio di calcolo differenziale e e uno di calcolo integrale:

d (x3 - 3x2 + 4) dx = 3x2 - 6x

S (2x3 - 4x + 2) dx = x4 / 2 + 2x2 + 2x

2.3. Il teorema fondamentale

La scoperta forse più importante di Leibniz è che i due problemi ora considerati sono strettamente legati, al punto che differenziazione e integrazione sono operazioni inverse: questo viene chiamato il «teorema fondamentale» del calcolo infinitesimale. Ciò può essere osservato già nelle regole per i polinomi prima presentate. In termini simbolici:

 

(d Sy dx) / dx = y

S (dy / dx) dx = y + c

Nella seconda espressione, la c indica che l'equivalenza è vera a meno di una costante, come può essere facilmente verificato anche intuitivamente.

Integrazione: Questo teorema fondamentale aiuta a chiarire alcune importanti applicazioni del calcolo infinitesimale nella fisica. Data la funzione che esprime lo spostamento di un corpo in dipendenza del tempo, la derivata rappresenta la velocità, la derivata della velocità (ovvero la «derivata seconda» dello spostamento) rappresenta l'accelerazione. Inversamente, data la funzione che esprime l'accelerazione in dipendenza del tempo, l'integrale del tempo rappresenta la velocità, l'integrale della velocità rappresenta lo spostamento. La celebre formula s = 1/2 gt2 (scoperta già da Galilei) è dunque un semplice integrale secondo della funzione f(t) = g. Queste applicazioni fisiche furono il punto di partenza della sistemazione del calcolo infinitesimale operata da Newton. In suo onore in tali casi si usa ancora la simbologia che egli elaborò, in cui la derivata («flussione», diceva Newton) è indicata da un punto sopra la variabile.

Nella matematica contemporanea il «calcolo infinitesimale» viene per lo più spiegato prescindendo dall'idea intuitiva di «infinitesimo» e usando invece il concetto più facilmente definibile di «limite» (al nome di «calcolo infinitesimale» viene di conseguenza preferito quello di «analisi», introdotto nell'uso soprattutto da Leonhard Euler [p] [1707-1783]). Questa diversa interpretazione, anticipata da Jean Le Rond d'Alembert [p] (1717-1783) nella celebre Encyclopédie e resa rigorosa da Augustin-Louis Cauchy [p] (1789-1857), fa evidentemente vacillare le conseguenze metafisiche che Leibniz credeva di poter trarre. Bisogna però anche ricordare che il problema del «continuo», che Leibniz affrontò in connessione con il calcolo infinitesimale, è ancora oggi di grande attualità e per diversi aspetti insoluto. Inoltre, negli anni '60 il matematico Abraham Robinson [p] (Non-standard Analysis, North-Holland, Amsterdam 1966) mostrò come fosse possibile dare un fondamento rigoroso all'idea di infinitesimo, partendo da alcuni sviluppi della teoria dei «numeri transfiniti» di Georg Cantor [p] (1845-1918), un matematico che come Leibniz sostenne l'esigenza di ammettere l'infinito attuale. Fine dell'integrazione

3. La logica

3.1. L'arte combinatoria

Benché le ricerche di Leibniz nel campo della logica siano in sé molto importanti, la loro importanza storica è molto limitata: egli infatti non pubblicò praticamente nulla di ciò che scoprì, e si dovette attendere la fine dell'Ottocento perché ciò che per lui era già cosa nota venisse gradualmente riscoperto. Lo studio della logica è visto da Leibniz in gran parte come alternativa al Discorso sul metodo di Descartes, giudicato troppo vago nei suoi criteri della «chiarezza e distinzione»:

 

Vedo che gli uomini del nostro tempo abusano molto di quel famoso principio continuamente ripetuto: qualsiasi cosa percepisco chiaramente e distintamente di qualcosa, è vero, ovvero può essere enunciato di essa. Spesso infatti agli uomini che giudicano frettolosamente sembrano chiare e distinte cosa oscure e confuse. Dunque l'assioma è inutile se non vengono usati dei criteri del chiaro e del distinto ... e se non consta la verità delle idee. Del resto non sono da disprezzare quei criteri di verità degli enunciati che sono le regole della logica comune, che anche i geometri usano, che cioè nulla va ammesso come certo se non è provato da un'accurata esperienza o da una solida dimostrazione; e solida dimostrazione è quella che rispetta la forma prescritta dalla logica, non come se fossero necessari i sillogismi ordinati al modo scolastico ... , ma almeno in modo che l'argomentazione sia conclusiva in virtù della forma (come esempio di un'argomentazione nella forma debita potresti dire anche un qualsiasi calcolo legittimo); così né bisogna omettere qualche premessa necessaria, e tutte le premesse o devono essere già da prima dimostrate, o almeno vanno assunte a mo' d'ipotesi, nel qual caso anche la conclusione è ipotetica. Coloro che osserveranno attentamente queste norme facilmente si proteggeranno da idee ingannevoli (Meditationes de cognitione, veritate et ideis [G 4.422-426]).

Leibniz non intende però semplicemente riprendere la logica antica e medioevale, ma concepisce l'idea di una sua radicale rifondazione, che viene da lui posta sotto il nome di «arte combinatoria» e che eserciterà una certa influenza anche sui posteri. In tale denominazione è implicito un netto progresso rispetto alle idee precedenti in materia:

 

Chiamo arte combinatoria quella scienza (che si può dire anche in generale caratteristica, o speciosa), in cui si tratta di tutte le forme o formule delle cose, cioè della qualità in genere, o del simile e dissimile, in quanto da a, b, c, ecc. (che possono rappresentare quantità o altro), tra loro combinate nascono via via altre formule; essa si distingue dall'algebra che tratta delle formule applicate alla quantità, ovvero dell'eguale e dell'ineguale. L'algebra, pertanto, è subordinata alla combinatoria, e si serve continuamente delle sue regole, che peraltro sono di gran lunga più generali, e valgono non solo per l'algebra soltanto, ma anche per l'arte decifratoria, per vari generi di giochi, per la stessa geometria trattata linearmente al modo degli antichi, insomma, dovunque entri in gioco la similitudine (Sulla sintesi e l'analisi universale, fine [G 7.292-298]).

Leibniz concepisce insomma la logica come una scienza puramente formale, che offre una base universale per tutte le scienze. Il modello di tale scienza è offerto dalla matematica: in essa infatti il linguaggio naturale, di sua natura soggetto ad ambiguità e fraintendimenti, è abbandonato in favore di un linguaggio artificiale, che permette di effettuare la deduzione come un semplice «calcolo» di natura meccanica, cioè tramite la combinazione degli elementi del linguaggio; la stessa cosa deve avvenire nella logica, che dunque assume l'aspetto di una sorta di matematica generalizzata (e che perciò viene chiamata da Leibniz anche «mathesis universalis»). Anche il nome «caratteristica» allude allo stesso fatto: la logica deve operare su simboli («caratteri») indipendentemente dal loro significato. Quest'idea, benché in parte ispirata dalla lettura di Hobbes e di Lullo, è in realtà di gran lunga più profonda; tra l'altro, essa rispecchia esattamente la concezione di logica che si affermerà nel Novecento, e che per questi motivi viene spesso chiamata «logica matematica».

3.2. La concezione della verità

Esiste una nozione logica che assume un'importanza fondamentale per l'intera filosofia di Leibniz. Si tratta del concetto di verità, evidentemente legato alla comprensione della logica come «arte combinatoria» e dunque puramente formale. Ecco uno dei numerosi testi in cui Leibniz si pronuncia con chiarezza al riguardo:

 

È palese che ogni predicazione vera ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica, vale a dire quando il predicato non è compreso espressamente nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente, e questo è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così bisogna che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, di modo che colui che intendesse perfettamente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il predicato gli appartiene. ... Dio, vedendo la nozione individuale o ecceità di Alessandro [Magno], vi vede in pari tempo il fondamento e la ragione di tutti i predicati che si possono dire di lui con verità, come per esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a conoscere a priori (e non per esperienza) se è morto di una morte naturale o avvelenato, il che noi possiamo sapere solo grazie alla storia (Discorso di Metafisica, 8 [G 4.427-463]).

In sintesi: la ragione della verità di una proposizione va trovata sempre e solo all'interno della proposizione stessa, e cioè nell'inclusione del predicato nel soggetto; questa inclusione può essere o evidente («il triangolo equilatero è un triangolo») o soltanto virtuale, nel qual caso è necessaria un'analisi completa del soggetto per mostrarvi la presenza del predicato, benché quest'analisi alla mente limitata dell'uomo possa risultare di fatto impossibile. Tutte le proposizioni vere hanno dunque di per sé la loro dimostrazione a priori, cioè indipendentemente dall'esperienza, anche se la maggior parte vengono conosciute dall'uomo solo a posteriori, e cioè dall'esperienza: che il 1º gennaio del 2000 a Roma faccia un certo tempo di per sé ha la sua dimostrazione a priori, in séguito cioè ad un'analisi del concetto di atmosfera terrestre; ma di fatto noi lo verremo a sapere solo quando giungerà quel giorno, dunque per esperienza. Tale concezione di verità non identifica però la realtà con la necessità, come avviene in Spinoza? Leibniz rifiuta esplicitamente questa conseguenza tirata già a suo tempo da Aristotele:

 

Sembra che in questo modo sarà distrutta la differenza tra le verità contingenti e necessarie, che la libertà umana non avrà più alcun luogo, e che una fatalità assoluta regnerà su tutte le nostre azioni così come su tutti gli altri avvenimenti del mondo. ... Io dico che la connessione o conseguenza è di due tipi: una è assolutamente necessaria, e il suo contrario implica contraddizione, e questa deduzione ha luogo nelle verità eterne, come sono quelle della geometria; l'altra è necessaria solo ex hypothesi, e per così dire per accidente, ma essa è contingente in sé, quando il contrario non implica affatto contraddizione. E questa connessione è fondata non sulle idee del tutto pure e sul semplice intelletto di Dio, ma ancora sui suoi liberi decreti e sulla connessione dell'universo (Discorso di Metafisica, 13 [G 4.427-463]).

Si tratta di un punto di estrema importanza nella filosofia di Leibniz, che dunque va ben chiarito. Le due proposizioni «il triangolo ha gli angoli interni eguali a due retti» e «Alessandro Magno vince Dario» hanno entrambe il motivo della loro verità in sé stesse, cioè i predicati sono presenti nei rispettivi soggetti. La loro differenza è chiara però quando si esaminano le proposizioni contrarie: «il triangolo non ha gli angoli interni eguali a due retti» e «Alessandro Magno non vince Dario». La prima è una proposizione certamente falsa, perché il concetto di «triangolo con gli angoli interni non eguali a due retti» è contraddittorio, come può essere facilmente dimostrato nella geometria euclidea. Ma il concetto di «Alessandro Magno che non vince Dario» non è in sé contraddittorio: benché nel nostro mondo esso non abbia esistenza, è immaginabile un mondo diverso in cui Alessandro Magno perda. Le verità necessarie (o di ragione) sono quindi quelle valide in tutti i mondi possibili (e cioè non contraddittori), le verità contingenti (o di fatto) sono quelle valide nel mondo reale ma non in tutti i mondi possibili. Esse sono dunque necessarie solo sulla base di una premessa (ex hypothesi): dato che questo è il mondo esistente, allora necessariamente Alessandro vince Dario. Ciò si può esprimere anche dicendo che le verità necessarie sono fondate sull'intelletto di Dio, che pensa tutti i mondi possibili, mentre quelle contingenti sono fondate sulla volontà di Dio, che ha deciso quale di questi mondi possibili creare, cioè rendere reale.

Integrazione: Da ciò si ricava anche che ci sono in realtà proposizioni contingenti che, contro la regola generale, non hanno una prova a priori, o perlomeno non nel senso in cui la posseggono le altre: le proposizioni esistenziali, che affermano se qualcosa esiste o no. Nel concetto di Alessandro Magno non è compresa la sua esistenza. Ciò avviene -- eccezione dell'eccezione -- solo nel caso di Dio. Fine dell'integrazione

Da questa concezione della verità discende la supremazia di due princìpi logici:

 

I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princìpi:

il principio di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che la includa, e vero ciò che è opposto al contraddittorio o falso;

e il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che nessun fatto potrebbe essere vero, o esistente, nessuna enunciazione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, benché queste ragioni il più delle volte possano non esserci affatto note.

... La ragione sufficiente si deve trovare anche nelle verità contingenti o di fatto, cioè nella sequenza delle cose distribuite nell'universo delle creature, dove la risoluzione in ragioni particolari potrebbe andare fino ad un dettaglio senza limiti, a causa della varietà immensa delle cose della natura e della divisione dei corpi all'infinito (Monadologia, 31-32; 36 [G 6.607-623]).

I due princìpi sono in gran parte complementari: se infatti il principio di contraddizione (detto anche «di non contraddizione») afferma che le proposizioni in cui il predicato è incluso nel soggetto sono vere, il principio di ragion sufficiente afferma che nelle proposizioni vere dev'esserci una ragione della loro verità, e cioè anzitutto l'inclusione del predicato nel soggetto. Leibniz si preoccupa di far notare che questo principio si applica anche alle verità contingenti, in cui l'analisi del soggetto potrebbe dover andare all'infinito e dunque essere di fatto impossibile all'uomo (un'idea questa evidentemente ispirata dal calcolo infinitesimale).

Integrazione: Ciò non significa -- come spesso è stato affermato -- che il principio di non contraddizione riguardi solo le verità necessarie e quello di ragion sufficiente solo le verità contingenti: entrambi riguardano ogni verità. È però vero che il principio di ragion sufficiente ha un'estensione maggiore di quello di non contraddizione, perché si estende anche alle proposizioni contingenti esistenziali, sebbene mutando leggermente di significato: lì la ragion sufficiente della verità non può consistere certo nella presenza del predicato nel soggetto. Proprio quest'uso del principio di ragion sufficiente è in grado secondo Leibniz di condurre alla metafisica, che s'interroga sull'esistenza delle cose e sulla sua causa. Fine dell'integrazione

4. La teoria della sostanza

4.1. I princìpi

Dalla teoria della verità discende direttamente la teoria della sostanza, che Leibniz riteneva un caposaldo della sua filosofia e sviluppò soprattutto nel confronto con Descartes e Spinoza. Fondamentalmente viene accettata la definizione logica, di origine aristotelica, secondo cui sostanza è il soggetto di cui vengono predicati gli accidenti, mentre essa stessa non è predicata di null'altro. Ma tale definizione va completata sulla base del concetto di verità prima esaminato:

 

Possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è di avere una nozione così completa da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto a cui questa nozione è attribuita. Al contrario l'accidente è un essere la cui nozione non implica affatto tutto ciò che si può attribuire al soggetto cui si attribuisce questa nozione (Discorso di Metafisica, 8 [G 4.427-463]).

Non è quindi sufficiente indicare la sostanza come soggetto di attribuzione, ma bisogna aggiungere che essa deve effettivamente comprendere tutti i possibili attributi veri. Questa semplice premessa è in effetti ricca di conseguenze:

 

Di qui seguono diversi notevoli paradossi. Tra gli altri, che non è vero che due sostanze si rassomiglino interamente, e siano differenti solo numero, e ciò che San Tommaso su questo punto assicura degli angeli o intelligenze, quod ibi omne individuum sit species infima, è vero di tutte le sostanze, purché si prenda la differenza specifica come i geometri la prendono riguardo alle loro figure.

Allo stesso modo, che una sostanza potrà cominciare solo per creazione e perire solo per annichilazione; che una sostanza non si divide in due né di due se ne fa una, e che così il numero delle sostanze non aumenta né diminuisce naturalmente per quanto siano spesso trasformate.

Inoltre, ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio o meglio di tutto l'universo, che ciascuna esprime a modo suo, più o meno come una stessa città è diversamente rappresentata secondo le differenti posizioni di colui che la osserva (Discorso di Metafisica, 9 [G 4.427-463]).

Esaminiamo in ordine queste tre conseguenze. La prima, il principio di identità degli indiscernibili, discende direttamente dalla «completezza» che la nozione di ogni sostanza deve possedere. Che due sostanze distinte siano eguali per la loro nozione significherebbe che ad esse potrebbero essere attribuiti tutti e solo gli stessi attributi, anche accidentali: ma questo è evidentemente assurdo. Ogni sostanza costituisce quindi una «specie» a sé. Ugualmente dalla completezza della nozione nasce la seconda conseguenza: se una sostanza si dividesse in due ne verrebbero due nozioni incomplete, e dunque due accidenti, se due sostanze invece si unissero nascerebbe l'assurdo di una nozione «doppia»: dunque il numero delle sostanze può aumentare o diminuire solo in modo extra-naturale, cioè tramite il loro venire dal nulla o il loro (eventuale) tornarvi: cioè appunto creazione e annichilazione. La terza conseguenza è più sottile. Se nella nozione di Alessandro Magno è compreso il fatto che egli vince Dario, tramite essa posso in qualche modo conoscere anche quest'ultimo: e dato che nell'universo tutto è connesso (non costituirebbe altrimenti un unico universo) ogni sostanza riflette tutte le altre infinite sostanze dell'universo, seppure in modo più forte e vicino oppure più debole e lontano.

La definizione della sostanza porta però ancora una conseguenza, che Leibniz riteneva tanto importante da determinare la caratteristica fondamentale della sua filosofia:

 

Ciascuna sostanza è come un mondo a parte, indipendente da ogni altra cosa, fuorché da Dio; così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci può mai capitare, sono solo delle conseguenze del nostro essere; e come questi fenomeni rispettano un certo ordine conforme alla nostra natura, o per così dire al mondo che è in noi (ordine che fa in modo che possiamo fare osservazioni utili per regolare la nostra condotta che sono giustificate dal successo dei fenomeni futuri, e che così possiamo sovente giudicare sull'avvenire grazie al passato senza ingannarci), ciò basterebbe per dire che questi fenomeni sono veri senza preoccuparci se sono fuori di noi e se altri li percepiscono così: tuttavia è verissimo che le percezioni o espressioni di tutte le sostanze si corrispondono, di modo che ciascuno, seguendo con cura certe ragioni o leggi che ha osservato, s'incontra con l'altro che fa altrettanto. ... Ora, c'è solo Dio ... che può essere causa di questa corrispondenza dei loro fenomeni, e che può fare in modo che ciò che è particolare ad uno sia pubblico a tutti (Discorso di Metafisica, 14 [G 4.427-463]).

Il motivo di ciò è semplice da capire: se la sostanza possiede una nozione realmente completa, tutto ciò che le accadrà è già scritto nella sua natura, e non dipende da una reale influenza di un'altra sostanza. Che io ora veda un libro dipende dal fatto che nella mia nozione è compresa tale percezione, e non dal fatto che il libro eserciti un'influenza sulla mia sensibilità. La sostanza «non ha né porte né finestre»: con un paragone moderno, le sue percezioni assomigliano piuttosto alla proiezione di una pellicola che è già presente internamente. Ciò però non significa che il mondo che percepiamo è illusorio: dobbiamo anzi credere (seppure ne manchi una prova rigorosa) che esso esista, e che le percezioni di tutte le sostanze si corrispondano perfettamente come se esse avessero realmente influenza le une sulle altre. Ma questa corrispondenza non può nascere spontaneamente, ma dev'essere predisposta da Dio: esiste dunque una armonia prestabilita tra tutte le sostanze.

Integrazione: Tutto ciò fa capire perché Leibniz da un certo momento preferì a «sostanza» il termine «mònade» (dal greco monás, cioè «unità»), che evidenziava più chiaramente l'assoluta semplicità: «La monade non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, vale a dire senza parti» (Monadologia, 1 [G 6.607-623]). Sostanza non è più quindi soltanto l'unità organica, come per esempio nella filosofia aristotelica, ma ogni infinitesima parte della realtà, considerata nella totalità delle sue determinazioni. Talvolta Leibniz usa anche il termine aristotelico entelécheia, il quale sottolinea la compiutezza e autosufficienza della singola sostanza. Fine dell'integrazione

4.2. Le qualità delle sostanze

Il principio di identità degli indiscernibili, e cioè la necessità che tutte le monadi siano distinte per le loro qualità, conduce Leibniz ad ulteriori notevoli conseguenze:

 

Una monade in sé stessa non può essere attualmente distinta da un'altra se non per mezzo della qualità e delle azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè, le rappresentazioni nel semplice del composto ovvero di ciò che è esterno) e le sue appetizioni (cioè il suo tendere da una percezione all'altra): questi sono i princìpi del mutamento. Infatti la semplicità della sostanza non esclude la molteplicità delle modificazioni, che devono trovarsi insieme in quella stessa sostanza semplice, e devono consistere nella varietà delle relazioni con le cose esterne (Princìpi della natura e della grazia, 2 [G 6.598-606]).

Da una parte diventa più chiaro dunque che cosa significhi che ogni monade è uno «specchio vivente dell'universo» (Monadologia, 56 [G 6.607-623]): essa lo è proprio perché viene individuata dall'insieme delle proprie percezioni. Dall'altra si comprende, dato che solo percezione e appetizione (cioè desiderio) possono dare individualità, che ogni monade è di sua natura viva, e l'intero universo è dunque totalmente pieno di vita in ogni sua infinitesima parte (un punto di vista questo che Leibniz vede confermato dalle osservazioni rese possibili ai suoi tempi dall'invenzione del microscopio):

 

Ciascuna porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo della pianta, ciascun membro dell'animale, ciascuna goccia dei suoi liquidi è ancora un tale giardino o un tale stagno (Monadologia, 67 [G 6.607-623]).

Ciò tuttavia non significa che la vita delle monadi sia tutta dello stesso livello. Bisogna invece distinguere tre gradi gerarchici. Il primo è quello della semplice monade, che è come visto dotata di percezione e appetizione; il secondo è quello dell'anima, che è una monade dotata in più di memoria: gli esseri che la posseggono sono gli animali; il terzo infine è quello della mente (o spirito), che è un'anima dotata in più di ragione e coscienza: e sono solo gli uomini a possederla. L'esistenza di tale gerarchia secondo Leibniz serve anche a smentire l'equivalenza sostenuta da Descartes tra percezione e coscienza: tutti gli animali e i viventi inferiori posseggono percezioni senza averne coscienza riflessa, e anche nell'uomo la maggior parte delle percezioni avvengono in maniera inconscia, senza cioè che si ponga attenzione alla loro presenza, o addirittura senza che sia possibile farlo (come per esempio nel sonno).

Ma come è possibile concepire con queste premesse l'unità dell'anima con il corpo e il loro reciproco rapporto? Riguardo al primo problema la difficoltà consiste da una parte nell'impossibilità di concepire l'unione di più sostanze in un'unica, dall'altra nella necessità di attribuire sostanzialità anche alla minima particella del corpo. Per Leibniz la soluzione (espressa del resto in termini non poco oscillanti) consiste nel concepire un rapporto di subordinazione, che prevede una monade «dominante» o «centrale»; tale rapporto permette di parlare del vivente complesso -- seppure in modo un po' improprio -- come se fosse un'unica sostanza:

 

Ciascuna sostanza semplice o monade distinta, che costituisce il centro d'una sostanza [composta] (ad esempio d'un animale), nonché il principio della sua unicità, è circondata da una massa composta da una infinità di altre monadi, che formano il corpo proprio di quella monade centrale, che si rappresenta secondo le affezioni di esso, come una specie di centro, le cose che le sono esterne (Princìpi della natura e della grazia, 3 [G 6.598-606])

Ciò ovviamente non toglie che il corpo continuamente si trasformi, e che quindi delle monadi continuamente entrino nella sfera propria dell'anima e ne escano. Il secondo problema è di soluzione più semplice, date le premesse. La soluzione non è infatti altro che un'applicazione del principio dell'armonia prestabilita:

 

Immaginatevi due orologi da parete o da polso che vanno perfettamente d'accordo. Ora, ciò può avvenire in tre modi. Il primo consiste nell'influenza reciproca di un orologio sull'altro; la seconda nell'opera di un uomo che vi si preoccupa; la terza nella loro propria esattezza. ... Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due orologi. Il loro accordo o simpatia arriverà anche in uno di questi tre modi. La via dell'influenza è quella della filosofia comune; ma poiché non si riuscirà a concepire che particelle materiali o specie o qualità immateriali possano passare da una sostanza all'altra, si è obbligati ad abbandonare questa sensazione. La via dell'assistenza è quella del sistema delle cause occasionali; ma ritengo che ciò significa introdurre un Deus ex machina in una cosa naturale e ordinaria, laddove secondo la ragione egli deve intervenire solo in modo da concorrere a tutte le altre cose della natura. Così resta solo la mia ipotesi, cioè la via dell'armonia prestabilita da un artefice divino previdente, il quale fin dall'inizio ha formato ciascuna di queste sostanze in una maniera così perfetta, e l'ha regolata con tanta esattezza, che solo seguendo le proprie leggi, ricevute insieme con il suo essere, essa si accorda così con l'altra; tutto come se ci fosse una influenza mutua, o come se Dio vi mettesse sempre la mano al di là del suo concorso generale (Nuovo sistema della natura, e 3 [G 4.477-487]).

4.3. La materia

La teoria delle monadi trova importanti applicazioni e specificazioni anche nel campo fisico, al quale Leibniz dedicò molta attenzione. Un primo àmbito di problemi riguarda il cosiddetto «labirinto del continuo», così chiamato per l'evidente difficoltà che ne presenta lo studio, nel quale è facile per la mente umana smarrirsi. Il punto di partenza può essere considerato il fatto che la materia ci si presenta come divisibile. Ma divisibile fin dove? Ammettere che la divisione debba ad un certo punto fermarsi significherebbe ammettere degli atomi, cioè delle parti ultime, estesi. Ma ciò contraddice la teoria della sostanza, secondo cui i costituenti ultimi della realtà devono essere assolutamente semplici, cioè privi di parti e dunque di estensione. Del resto, anche ammettere che la divisione può andare all'infinito non risolve il problema, perché significa ammettere che non esistano parti semplici: ma senza il semplice non può esistere il complesso. Per Leibniz c'è un'unica soluzione: malgrado i paradossi che ciò comporta (messi in evidenza fin da Aristòtele), è necessario ammettere l'esistenza dell'infinito attuale, e non solo potenziale:

 

Ciascuna porzione della materia non è soltanto divisibile all'infinito, come hanno riconosciuto gli antichi, ma anche suddivisa attualmente senza fine, ciascuna parte in parti di cui ciascuna ha qualche movimento proprio (Monadologia, 65 [G 6.607-623]).

Ciò che a noi appare come materia continua è in realtà dunque l'aggregato di infinite monadi di dimensioni infinitesime (ancora una volta è una posizione chiaramente ispirata dalla scoperta del calcolo infinitesimale). In questo modo dunque viene anche cancellata l'assoluta distinzione che Descartes poneva tra spirito e materia.

La teoria della sostanza, e più precisamente il principio di ragion sufficiente e il principio di identità degli indiscernibili, offre a Leibniz anche la possibilità di confutare l'opinione di Newton secondo la quale spazio e tempo sono enti in sé, autonomi dalle cose che vi sono poste:

 

Lo spazio è qualcosa di assolutamente uniforme; e, senza le cose che vi si trovano, un punto dello spazio non differisce assolutamente in nessun aspetto da un altro punto dello spazio. Ora di qui segue (supponendo che lo spazio sia in sé stesso qualcosa, oltre l'ordine dei corpi tra loro), che non può esserci una ragione perché Dio, conservando le stesse posizioni dei corpi tra loro, abbia situato i corpi nello spazio in un certo modo e non altrimenti; perché tutto non sia stato invece posto a rovescio, per esempio scambiando l'oriente con l'occidente. Ma se lo spazio non è altro che quell'ordine o rapporto, e non è nulla affatto senza i corpi (se non la possibilità di metterne) allora quei due stati, l'uno come è ora, l'altro supposto al rovescio, non differirebbero affatto tra loro. La loro differenza non si trova dunque che nella nostra supposizione chimerica della realtà dello spazio in sé stesso. ...

È la stessa cosa rispetto al tempo. Supponendo che qualcuno domandi perché Dio non ha creato tutto un anno prima, e la stessa persona voglia da ciò dedurre che Dio ha fatto qualcosa di cui non può esserci una ragione perché l'abbia fatto così e non diversamente, gli si risponderebbe che la sua deduzione sarebbe vera se il tempo fosse qualcosa separato dalle cose temporali, perché allora non potrebbero esserci ragioni perché le cose siano state applicate a certi istanti piuttosto che ad altri, ferma restando la loro successione. Lo stesso argomento prova che gli istanti, distinti delle cose, non sono nulla, e che essi non consistono in altro che nell'ordine successivo delle cose; restando questo lo stesso, uno dei due stati (come quello della immaginata anticipazione [della creazione]) non differirebbe in nulla e non potrebbe essere distinto dall'altro che esiste ora (Disputa tra Leibniz e Clarke, 5.5-6 [G 7.345-440]).

Queste premesse rendono impossibile a Leibniz indicare -- come aveva fatto Descartes -- nell'estensione l'essenza della materia. Bisogna piuttosto secondo lui riconoscere due caratteristiche essenziali, entrambe le quali sono di carattere dinamico e non semplicemente geometrico. La prima è l'inerzia, ed è la tendenza a perseverare nello stato di quiete o di moto finché non intervenga una causa esterna (in questo senso si parla di materia prima); la seconda è la forza viva, che è la causa del movimento (in questo senso si parla di materia seconda).

Integrazione: Entrambe queste caratteristiche infatti rispettano una norma che la teoria della sostanza ha dimostrato essenziale: esse si conservano, senza né aumentare né diminuire, in un sistema isolato. Nel primo caso infatti è in questione la «conservazione della massa», nel secondo la «conservazione della forza viva», o, come oggi si dice, dell'«energia cinetica» (mv2). La scoperta di questo secondo principio viene rivendicato da Leibniz come un suo particolare merito; contemporaneamente viene dimostrato falso il presunto «principio di conservazione della quantità di moto» (mv) che era stato affermato da Descartes, e che Leibniz correttamente giudica vero solo quando si considera il moto in una certa direzione. In questo modo tra l'altro viene anche confutata la teoria con cui Descartes voleva spiegare l'influenza tra anima e corpo: la prima poteva secondo lui deviare il movimento corporeo verso un'altra direzione, senza con ciò violare il principio di conservazione. Malgrado i limiti contenuti nella teoria di Leibniz, la sua formulazione delle leggi di conservazione è in effetti la migliore che poteva esserci con le conoscenze dell'epoca. Anche laddove si notano incoerenze, che paiono rendere la filosofia naturale di Leibniz di minor qualità rispetto a quella di Newton, gli sviluppi della fisica contemporanea hanno mostrato come in effetti il primo avesse intravisto i problemi con più radicalità rispetto al secondo. Fine dell'integrazione

Un ultimo problema consiste nella conciliazione tra la teoria della monade e la teoria della materia, che sembrano far riferimento a princìpi incompatibili tra loro nella spiegazione del divenire. Ma si tratta di applicare ancora una volta il principio dell'armonia prestabilita:

 

Le percezioni nella monade nascono l'una dall'altra per le leggi delle appetizioni o delle cause finali del bene e del male, che consistono nelle percezioni osservabili, regolate o no; mentre i mutamenti dei corpi e i fenomeni esterni nascono gli uni dagli altri per le leggi delle cause efficienti, cioè dei movimenti. Ora, tra le percezioni della monade ed i movimenti dei corpi c'è una armonia perfetta, prestabilita fin dal principio tra il sistema delle cause efficienti e quello delle cause finali (Princìpi della natura e della grazia, 3 [G 6.598-606]).

In questo modo Leibniz respinge l'eliminazione delle cause finali che aveva effettuato Spinoza, ma contemporaneamente non ammette che esse possano mutare l'ordine naturale dei movimenti, come sosteneva Descartes nella sua teoria del rapporto tra anima e corpo.

5. La conoscenza umana

L'occasione per Leibniz di approfondire il problema della conoscenza venne dalla lettura del Saggio di John Locke. Rispondendo punto per punto alle opinioni di quell'opera, e ripetendone persino la struttura, Leibniz compose i Nuovi saggi, che tuttavia non pubblicò quando seppe della morte di Locke, sembrandogli scorretto contestare le idee di chi non poteva più replicare. In questione non erano più i princìpi della conoscenza, che già erano stati studiati in ambito logico, ma piuttosto le facoltà e le modalità tramite cui la verità viene raggiunta dall'uomo. Leibniz assume una posizione eclettica, posta però sullo sfondo di un sostanziale neoplatonismo. Di origine neoplatonica è anzitutto la distinzione che viene tracciata tra sensibilità e intelletto o ragione:

 

Le idee intellettuali, che sono la sorgente delle verità necessarie, non vengono affatto dai sensi: e voi riconoscete che ci sono idee che sono dovute alla riflessione della mente, quando essa riflette su sé stessa. Del resto è vero che la conoscenza esplicita delle verità è posteriore (tempore vel natura) alla conoscenza esplicita delle idee (come la natura delle verità dipende dalla natura delle idee prima che si formino esplicitamente le une e le altre), e le verità dove sono coinvolte le idee che vengono dai sensi dipendono dai sensi, almeno in parte. Ma le idee che vengono dai sensi sono confuse, e le verità che ne dipendono lo sono pure, almeno in parte; invece le idee intellettuali e le verità che ne dipendono sono distinte, e non hanno origine né le une né le altre dai sensi, sebbene sia vero che non le penseremmo mai senza i sensi (Nuovi saggi, 1.1.11 [G 5.39-509]).

Va osservato che questa distinzione è semplicemente qualitativa, e per di più si compie attraverso infiniti gradi intermedi per il «principio di continuità»: sensibilità e ragione sono quindi solo due espressioni della stessa facoltà percettiva. Alla ragione, in particolare, spetta il compito di indagare le verità eterne, o appunto «di ragione», che sono valide in qualsiasi mondo possibile, dal momento che le verità contingenti possono invece essere conosciute dall'uomo solo per esperienza, e dunque con l'aiuto dei sensi. Questa distinzione viene usata da Leibniz anche per rifiutare l'empirismo radicale di Locke, secondo il quale nell'uomo non esiste alcuna idea innata anteriore e indipendente dall'esperienza:

 

Si tratta di sapere se l'anima in sé sia interamente vuota come delle tavolette dove non è ancora stato scritto nulla (tabula rasa), seguendo Aristòtele e l'autore del Saggio [Locke], e se tutto ciò che vi è tracciato venga unicamente dai sensi e dall'esperienza; o se l'anima contenga originariamente i princìpi di più nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle occasioni, come io credo con Platone e anche con gli scolastici. ... Da ciò nasce un'altra questione, cioè se tutte le verità dipendano dall'esperienza, vale a dire dall'induzione e dagli esempi; o se ci siano verità che hanno ancora un altro fondamento. Infatti se alcuni avvenimenti possono essere previsti prima di ogni prova che si possa fare, è manifesto che vi contribuiamo con qualche cosa da parte nostra. I sensi, quantunque necessari per tutte le nostre conoscenze attuali, non sono affatto sufficienti per darcele tutte, poiché i sensi non dànno mai altro che esempi, vale a dire verità particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi che confermano una verità generale, di qualunque numero siano, non bastano per stabilire la necessità universale di questa stessa verità: infatti non è necessario che ciò che è successo succederà sempre allo stesso modo. ... La logica con la metafisica e la morale (delle quali l'una forma la teologia l'altra la giurisprudenza, naturali entrambe) sono piene di tali verità; e di conseguenza la loro prova può venire solo da princìpi interni, che vengono chiamati innati (Nuovi saggi, Prefazione [G 5.39-509]).

In sintesi: l'esperienza non può fornire mai verità universali; ma l'uomo di fatto conosce verità universali; dunque la loro fonte deve essere all'infuori dell'esperienza e trovarsi nell'uomo stesso. È questo il motivo per cui Leibniz altre volte si dichiara sostanzialmente in sintonia con la teoria della reminiscenza platonica: ammettere princìpi innati non significa dichiarare che l'uomo fin dalla nascita li possegga nella loro forma compiuta, ma piuttosto che la struttura del suo intelletto è già predisposta per portarle alla luce. Si tratta quindi di verità presenti virtualmente, come sarebbero in un blocco di marmo delle venature che già delineino la forma che ne verrà tratta. Con questo stesso significato l'assioma aristotelico-scolastico «nulla c'è nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi» viene ammesso, ma purché si aggiunga: «tranne l'intelletto stesso». Così intesa anche la posizione di Locke può essere accettata:

 

Forse il nostro abile autore [Locke] non s'allontana del tutto dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo primo libro a rigettare i lumi innati, presi in un certo senso, dichiara tuttavia all'inizio del secondo e nel seguito che le idee che non hanno la loro origine nella sensazione vengono dalla riflessione. Ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a ciò che è in noi, e i sensi non ci dànno affatto ciò che noi portiamo già con noi. Stando così le cose, si può forse negare che c'è molto di innato nella nostra mente, giacché noi siamo per così dire innati a noi stessi? (Nuovi saggi, Prefazione [G 5.39-509]).

Si comprende così quale sia il legame tra ragione e coscienza (o appercezione), che in effetti sono le due caratteristiche che abbiamo visto contraddistinguere l'anima umana.

Integrazione: Benché questa teoria di Leibniz sia diventata molto celebre, è necessario osservare che in realtà essa si pone da un punto di vista solo «popolare». I princìpi della sua filosofia permettevano infatti affermazioni molto più radicali, giacché in senso rigoroso tutte le idee, intellettuali o sensibili che siano, sono innate nell'uomo:

Nulla entra nella mente da fuori, ed è una nostra cattiva abitudine ragionare come se la nostra anima ricevesse delle specie messaggere e come se avesse porte e finestre. Noi abbiamo nella mente tutte queste forme, e per di più di ogni tempo, perché la mente esprime sempre tutti i suoi pensieri futuri, e pensa già confusamente tutto ciò che penserà distintamente. E nulla potrebbe essere appreso se non ne avessimo già nella mente l'idea, che è come la materia di cui questo pensiero si forma. ... Aristòtele ha preferito paragonare la nostra anima a tavolette ancora vuote, dove c'è posto per scrivere, e ha sostenuto che nel nostro intelletto non c'è nulla che non provenga dai sensi. Ciò si accorda di più con le nozioni popolari, come è abitudine di Aristòtele, mentre Platone va più a fondo. Tuttavia questi tipi di dossologie o praticologie possono essere tollerate nell'uso ordinario, più o meno come vediamo che coloro che seguono Copernico non smettono di dire che il sole si leva e tramonta (Discorso di Metafisica, 26-27 [G 4.427-463]).

Fine dell'integrazione

6. La teologia razionale

6.1. L'esistenza di Dio

Così come già avveniva in Aristòtele, la metafisica di Leibniz culmina di sua natura in una teoria di Dio. Il primo passo consiste nel dimostrarne l'esistenza. Differenti prove vengono ritenute valide. La prima è la prova a priori di Anselmo, che era stata ripetuta da Descartes: data la nozione di essere perfettissimo, ad essa bisogna necessariamente riconoscere l'esistenza, perché altrimenti le si negherebbe una perfezione, cadendo in contraddizione. A tale prova va però aggiunto un passo preliminare, e cioè la dimostrazione che la nozione di essere perfettissimo è effettivamente possibile e cioè non contraddittoria: il che è facilmente fatto quando si osserva che la contraddizione, e cioè l'incompatibilità tra differenti perfezioni, può nascere solo quando nella nozione di una sia contenuto un elemento contrario alla nozione di un altro, il che però non può avvenire quando si suppongono perfezioni assolutamente positive e semplici. La validità di questo argomento mostra che la nozione di Dio è l'unica che implica l'esistenza, e dunque Dio è l'unico essere necessario.

La seconda prova usa in maniera peculiare il principio di ragion sufficiente, e viene talvolta giudicata da Leibniz la più solida:

 

Posto questo principio, la prima questione che si ha il diritto di porre è: perché esiste qualcosa anziché nulla? Infatti il nulla è più semplice e più facile del qualcosa. ...

Ora, questa ragione sufficiente dell'universo non potrebbe trovarsi nella serie delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle rappresentazioni loro nelle anime: perché, essendo la materia in sé stessa indifferente al moto e alla quiete, e a questo o a quel movimento, è impossibile trovarvi la ragione del movimento, e ancor meno d'un determinato movimento. E benché il movimento attuale della materia venga dal precedente, e questo ancora da uno precedente, non ci si trova in una situazione migliore, quand'anche si vada lontano quanto si voglia: infatti, resta sempre la stessa questione. È necessario, quindi, che la ragion sufficiente, la quale non abbia più bisogno di un'altra ragione, sia fuori della serie delle cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne sia causa, ovvero in un essere necessario, portante con sé la ragione della sua esistenza; altrimenti non s'avrebbe ancora una ragione sufficiente a cui fermarsi. Quest'ultima ragione delle cose è chiamata Dio (Princìpi della natura e della grazia, 7-8 [G 6.598-606]).

Integrazione: Altre due prove sono tratte l'una dall'esistenza delle verità eterne, l'altra dall'armonia prestabilita. Secondo la prima, le verità eterne o di ragione non potrebbero esistere e dunque essere conosciute se non ci fosse l'intelletto di Dio che le pensasse. Secondo l'altra, le sostanze non potrebbero mostrare quella perfetta reciproca armonia se non ci fosse un essere perfetto che le ha create così armonizzate. Entrambe queste due ultime prove appaiono in realtà molto fragili. Quella basata sulle verità eterne sembra essere una petitio principii, perché suppone già la loro dipendenza dall'intelletto divino. La seconda, benché talvolta venga citata da Leibniz come evidente, sembra in realtà basarsi sul presupposto che la conoscenza sia causata dagli oggetti esterni, dei quali quindi si possa accertare l'armonia: il che è proprio ciò che la teoria dell'armonia prestabilita esclude! Tale sostanziale difetto si aggira soltanto ritenendo questa prova identica al classico argomento basato sul finalismo e la bellezza della natura, che benché «evidente» e ricco di forza psicologica è tutt'altro che rigoroso, come la contemporanea filosofia di Spinoza mette bene in evidenza. Fine dell'integrazione

6.2. La teodicea

Il più tipico interesse di Leibniz in campo teologico razionale riguarda però il problema del rapporto tra Dio e il male, che Leibniz affrontò nei Saggi di Teodicea, il cui tema è appunto la «giustizia» di Dio (secondo l'etimologia del termine «teodicea», coniato da Leibniz). La scrittura di quest'opera venne in parte stimolata dalla lettura del Dizionario storico e critico (1697) di Pierre Bayle, in cui, su uno sfondo di avversione alla teologia razionale e in generale alla conciliabilità di fede e ragione, veniva sostenuta una soluzione manichea: bene e male sono due princìpi aventi uguale realtà. Molti dei temi dei Saggi di Leibniz erano in realtà già anticipati in opere precedenti, spesso nati dal confronto con Descartes o Spinoza.

Punto di partenza per il problema della teodicea può essere considerato ancora una volta il principio di ragion sufficiente: esso infatti deve spiegare non solo perché il mondo esista, ma anche perché tra gli infiniti mondi possibili concepiti dall'intelletto di Dio proprio questo sia stato scelto dalla sua volontà: «supposto che alcune cose debbano esistere, è necessario poter rendere ragione perché esse debbano esistere così e non altrimenti» (Princìpi della natura e della grazia, 7 [G 6.598-606]). Dalla risposta a questa domanda discende una delle dottrine più caratteristiche di Leibniz:

 

Dalla perfezione suprema di Dio segue che egli, producendo l'universo, ha scelto il miglior piano possibile, in cui c'è la più grande varietà unita al massimo ordine; in cui il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati, il maggior effetto è ottenuto con i mezzi più semplici e le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicità e bontà che l'universo poteva conseguire. Infatti, poiché tutti i possibili pretendono all'esistenza nell'intelletto di Dio, il risultato di tutte queste pretese dev'essere il più perfetto mondo attuale che sia possibile. Senza di ciò non si potrebbe rendere ragione di perché le cose sono andate così e non altrimenti (Princìpi della natura e della grazia, 10 [G 6.598-606]).

Più in particolare, Leibniz interpreta questa perfezione del mondo reale sulla base del principio generale della bontà dell'essere: il mondo migliore è quello che contiene più esistenza di tutti gli altri. Che poi la scelta del mondo migliore da parte di Dio non impedisca la libertà dell'uomo, si deduce dallo stesso motivo, già visto, per il quale sussiste una reale differenza tra proposizioni contingenti e necessarie (e ciò risolve il «labirinto della libertà»).

Integrazione: L'interpretazione della libertà umana in contesto teologico -- e dunque in rapporto alla grazia divina -- pone Leibniz nel vivo di un dibattito molto acceso nel suo secolo. Con la sua soluzione egli si avvicina sostanzialmente alla teoria sostenuta dal gesuita spagnolo Luís de Molina [p] (1536-1600), secondo il quale bisognava ammettere tre diversi tipi di conoscenza in Dio: oltre alla conoscenza della possibilità (scienza di intelligenza) e alla conoscenza della realtà (scienza di visione), anche la conoscenza del reale condizionale, vale a dire di ciò che avverrebbe poste certe condizioni (scientia media); ora, grazie a quest'ultima Dio ha portato all'essere un certo ordinamento di grazia, distribuendo i suoi doni in previsione della libera risposta degli uomini. Leibniz accetta questa soluzione (Saggi di teodicea, 1.40-44 [G 6.21-436]), unificando però, con la sua teoria dei mondi possibili, la scienza d'intelligenza con la scienza media. Il molinismo venne avversato soprattutto dai teologi domenicani, che sostenevano un'efficacia intrinseca della grazia di Dio. La disputa che ne nacque (controversia de auxiliis) venne portata nel 1607 davanti al papa, che si limitò però a proibire ad entrambe le parti di accusare di eresia quella avversa, ordinando ai contendenti di tornare «in patrias aut domus suas» in attesa che «Sua Sanctitas declarationem et determinationem, quae expectabatur, opportune promulgaret» (DS 1090). La dichiarazione ovviamente non arrivò mai. Fine dell'integrazione

Ma come giustificare l'evidente esistenza in questo mondo del male e del peccato? È esso compatibile con la bontà e onnipotenza di Dio?

 

Qualche avversario ... risponderà forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, è tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, benché questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che è stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Così nulla può essere cambiato nell'universo (così come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualità numerica. Così, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe più lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, è stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto.

È vero che si possono immaginare mondi possibili senza peccato e senza infelicità, e se ne potrebbero fare dei romanzi, delle utopie; ma questi stessi mondi sarebbero per altri aspetti molto inferiori al nostro nel bene. Non saprei mostrarvelo in dettaglio: come potrei infatti conoscere e rappresentarvi degli infiniti, e confrontarli assieme? Ma voi lo dovete giudicare con me ab effectu, perché Dio ha scelto questo mondo tale qual è. Sappiamo d'altronde che sovente un male causa un bene, al quale non si sarebbe affatto giunti senza questo male. ... Non è forse vero che si canta così nella veglia di Pasqua nelle Chiese del rito romano?

O certe necessarium Adae peccatum,
quod Christi morte deletum est!
O felix culpa, quae talem et tantum
meruit habere redemptorem!
(Saggi di teodicea, 1.9-10 [G 6.21-436]).

Integrazione: Questa soluzione, benché elaborata da Leibniz nel contesto del cristianesimo, differisce dalla tradizionale opinione scolastica, che sostiene sì che Dio creando questo mondo ha fatto la cosa migliore, ma da questo non deduce affatto che questo sia il miglior mondo possibile. Ma la differenza fondamentale è che Leibniz imposta la questione sulla base di un'idea di libertà umana sostanzialmente ridotta rispetto a quella tradizionale cristiana, in cui si distingue chiaramente tra l'atto creativo di Dio e la storia del mondo: questa è realmente co-affidata alla libertà dell'uomo, una libertà che può essere reale solo a prezzo di poter essere usata anche contro il progetto divino. Fine dell'integrazione

La certezza che questo è il migliore dei mondi possibili, e d'altra parte la possibilità dell'uomo di elevarsi alla conoscenza di Dio grazie alla ragione, costituiscono così i presupposti più solidi per fondare anche l'etica e indicare all'uomo il suo destino:

 

Tutte le menti, sia degli uomini sia dei genii [= angeli], entrando per mezzo della ragione o delle verità eterne in una specie di società con Dio, sono membri della città di Dio, cioè del più perfetto Stato, formato e governato dal più grande e dal migliore dei monarchi: in cui non c'è delitto senza castigo, né buona azione senza ricompensa proporzionata, e infine, tanta virtù e tanta felicità quante ne sono possibili; e ciò non per un deviamento della natura, come se quello che Dio preparava alle anime turbasse le leggi dei corpi, ma per l'ordine stesso delle cose naturali, in virtù dell'armonia prestabilita dall'eternità tra i regni della natura e della grazia, tra Dio come architetto e Dio come monarca; in modo che la natura conduce alla grazia, e la grazia perfeziona la natura con l'avvalersene.

Così, benché la ragione non ci possa insegnare qual è il particolare il grande avvenire, riservato alla rivelazione, noi possiamo essere assicurati da quella stessa ragione che le cose sono fatte in un modo che supera i nostri desideri. Inoltre, poiché Dio è la più perfetta e la più felice delle sostanze, e quindi la più degna d'amore, e poiché il vero amore puro consiste nello stato che fa provar piacere delle perfezioni e della felicità di ciò che si ama, un tale amore deve darci il più grande piacere di cui possiamo esser capaci, quando Dio ne è l'oggetto (Princìpi della natura e della grazia, 15-16 [G 6.598-606]).

«Regno della natura» e «regno della grazia», ovvero anche necessità e libertà, o ancora fisica ed etica, sono così quasi le due facce di una stessa realtà, di cui però è la seconda che indica all'uomo il suo destino.