Il significato
della vita
Prefazione
La filosofia sembra consistere in una
catena di domande e tentativi di risposte ricorrenti nel
tempo. Domande e risposte sono di un tipo particolare
e relativamente facile da riconoscere. Esse riguardano
più o meno che cosa possiamo sapere, che cosa dobbiamo
fare e che cosa possiamo sperare. Come ha scritto Michael
Dummett: "Ciò che ha dato alla filosofia la sua
unità storica, ciò che l'ha caratterizzata
come un'unica disciplina attraverso i secoli, è
la gamma di questioni che i filosofi hanno tentato di
risolvere: ci sono state relativamente poche variazioni
su che cosa si riconosca come un problema filosofico.
Ciò che ha invece subito rivolgimenti incredibili
è il modo in cui i filosofi hanno in generale caratterizzato
l'ambito dei problemi che hanno tentato di risolvere e
il tipo di ragionamento che hanno ammesso in risposta
a tali problemi". (1)
Alcuni ritengono che l'attività filosofica,
nella varietà dei suoi stili nello spazio e nel
tempo, consista più precisamente nella soluzione
di una gamma sufficientemente stabile di problemi filosofici.
Le soluzioni, a loro volta, possono consistere in spiegazioni
o dimostrazioni; in ogni caso, si ottengono grazie a argomenti
o ragionamenti che si pretendono irresistibili e comunque
migliori di tutti gli altri alternativi, disponibili al
momento.
Altri filosofi sono convinti che la filosofia
non sia essenzialmente in grado di risolvere la gamma
dei suoi inevitabili problemi, almeno nel modo in cui
riteniamo correntemente che la matematica o la biologia
sono in grado di fornire soluzioni ai loro problemi. In
questa prospettiva, la filosofia può al massimo
gettar luce sulla natura dei nostri problemi e dei nostri
dilemmi. È impossibile dimostrare che per ciascun
problema esaminato esiste un'unica soluzione giusta: per
questo, come sostiene Robert Nozick, la filosofia cerca
piuttosto di esplorare possibilità di soluzioni
alternative soppesando i pro e i contro di ciascuna con
lo scopo essenziale e non fatuo di accrescere la nostra
comprensione del problema e di darci strumenti per continuare
a riflettere su di esso.(2)
In ogni caso, molte delle domande filosofiche – e
forse le più importanti – sono destinate tanto
a rimanere senza una risposta conclusiva quanto a ripresentarsi
sistematicamente. Una tesi filosofica è che ciò
sia un fatto desiderabile.
"La filosofia è diversa dalla scienza
e dalla matematica. Diversamente dalla scienza non fa
assegnamento sugli esperimenti o l'osservazione, ma solo
sul pensiero. E diversamente dalla matematica non ha un
metodo formale di dimostrazione. La si fa solo ponendo
questioni, argomentando, elaborando idee e pensando a
argomenti possibili per confutarle, e chiedendosi come
davvero funzionano i nostri concetti": così Thomas
Nagel, nelle pagine di apertura a questa "brevissima"
introduzione alla filosofia.
Nagel ha chiarito a più riprese in
Questioni mortali e, in modo sistematico, in Uno
sguardo da nessun luogo la sua interpretazione favorita
della natura dei genuini problemi filosofici.(3)
L'idea è più o meno la seguente: i
problemi filosofici sono quei particolari problemi generati
dalla tensione o dalla collisione fra le pretese di un
punto di vista impersonale e oggettivo, esterno, che noi
possiamo adottare su noi e sul mondo e quelle di un punto
di vista personale e soggettivo, interno, che noi (sempre
noi) possiamo al tempo stesso adottare su noi e sul mondo.
È perché siamo esseri privi di una prospettiva
naturalmente unificata che riconosciamo come effettivi
problemi i problemi filosofici.
Si potrebbe sostenere che gli esseri umani
sono essenzialmente animali filosofici: animali per i
quali hanno significato i problemi filosofici. Questo
darebbe un senso lievemente meno assurdo alla serietà
con cui i filosofi si sono impegnati e si impegnano nel
tempo a risolvere razionalmente enigmi per i quali sanno
in anticipo di non poter aspirare a una soluzione irresistibile
e conclusiva. Nonostante l'autocompiacimento intellettuale
della professione, la filosofia non è di per
sé importante: essa riceve la sua importanza
(se è il caso) da quanto si assume i problemi intorno
a cui si affanna siano importanti per esseri del
tipo quali noi siamo, con tutta la nostra cultura e la
nostra biologia. Come ha osservato Bernard Williams a
proposito della moralità e dei suoi problemi, un
tratto particolarmente importante di tali problemi è
l'importanza che noi attribuiamo loro, alla
fin fine.(4) Credo sia necessaria una certa
dose di umiltà e di sobria consapevolezza dei limiti
della filosofia come attività intellettuale: essa
è un tentativo al tempo stesso eroico e goffo e
comunque intrinsecamente inadeguato di prendere sul serio
la sfida della migliore comprensione possibile di ciò
che fa problema per noi, ciò che tocca le ragioni
che abbiamo per credere e per agire.
Imponenti tradizioni filosofiche hanno finito
per ritenere più importante il lessico solenne
(e spesso oscuro) della filosofia dei problemi di cui
esso tratta. Altre tradizioni hanno finito per subire
il fascino indiscreto e rassicurante del metodo, ritenendolo
analogamente più importante dei problemi cui si
applica. Nel primo caso, in cui non è difficile
riconoscere una silhouette di maniera della tradizione
continentale, la filosofia è lo stile (retorico);
nel secondo, più vicino a una silhouette,
altrettanto di maniera, di un lungo tratto della tradizione
analitica, la filosofia è il metodo (logico). In
entrambi i casi, i problemi e le domande per cui ha senso
l'attività filosofica sembrano destinate a passare
in secondo piano. La filosofia come stile trasforma problemi
e domande nelle loro controparti in un mondo espressivo
e metaforico (molto metaforico). La filosofia come metodo
è meno ospitale; ma, sfortunatamente, essa finisce
per escludere problemi importanti perché relativamente
intrattabili (alla luce dei criteri disponibili e accettati).
Sembra di poter dire che negli ultimi anni i filosofi
hanno cominciato a avvertire il particolare disagio di
un destino oscillante fra la profondità oscura
e la chiarezza futile. Più precisamente, ritengo
che questo sia un merito da ascrivere alla più
recente filosofia analitica che si usa chiamare post-empiristica.
Thomas Nagel è uno dei protagonisti
più acuti e sensibili di questo slittamento nell'ambito
della filosofia analitica. Nella Introduzione a
Uno sguardo da nessun luogo, egli ha sostenuto
che uno dei compiti più difficili per la filosofia
è quello di esprimere nel linguaggio problemi informi,
ma intuitivamente percepiti, senza
perderne il senso.(5) (Ciò conferma
quanto, per altre ragioni più sistematiche, ha
asserito Dummett: che i filosofi sono costretti a forzare
il linguaggio fino al limite di rottura.)
(6) La filosofia, concludeva Nagel, è "l'infanzia
dell'intelletto, e una cultura che cerchi di farne a meno
non crescerà mai". (7)
Una brevissima introduzione alla filosofia
prende le mosse da questa convinzione. L'idea che
la filosofia sia l'infanzia o, come preferirei dire, l'adolescenza
dell'intelletto non è (solo) una metafora. "Le
nostre capacità analitiche sono spesso altamente
sviluppate prima che abbiamo imparato gran che sul mondo,
e intorno ai quattordici anni di età le persone
cominciano a pensare per conto loro ai problemi filosofici
– su quello che esiste davvero, se possiamo conoscere
qualcosa, se qualcosa è veramente giusto o sbagliato,
se la vita ha qualche significato, se la morte è
la fine. Si è scritto per centinaia di anni su
questi problemi, ma il materiale filosofico grezzo viene
direttamente dal mondo, e dalla nostra relazione con esso,
non dagli scritti del passato. Ecco perché quei
problemi si ripresentano continuamente nella testa della
gente che non ha letto nulla in proposito." Questo libro
di Nagel è destinato prevalentemente a chi ha o
riconosce immediatamente come problemi quel tipo di problemi
ricorrenti su cui si è arrovellata nel tempo la
comunità dei filosofi. Tra questi numerosi problemi,
Nagel ne ha selezionati nove: come conosciamo qualcosa,
il problema delle altre menti, il problema mente-corpo,
la natura del linguaggio, il libero arbitrio, il fondamento
della moralità, l'idea di giustizia sociale, la
natura della morte, il significato della vita. In nove
concisi capitoli, il lettore esperto riconosce, sia nella
composizione della lista dei problemi sia nelle principali
tesi filosofiche, esposte con esemplare chiarezza, le
questioni canoniche dello scetticismo, del solipsismo,
del relativismo e del determinismo, del fisicalismo, ecc.
La lista dei problemi rivela quella tendenza post-empiristica,
cui ho accennato e conferma la tesi sulle ragioni dell'importanza
non intrinseca della filosofia.
Una brevissima introduzione alla filosofia
è, da questo punto di vista, una lettura molto
attraente per i filosofi o gli studiosi di filosofia;
ma essa offre, al tempo stesso, un percorso intellettuale
accessibile e importante per chi avverte e riconosce come
importanti i problemi affrontati, senza saper quasi nulla
di filosofia. (Sempre che si sia disposti a ammettere,
come suggeriva Pascal, che vi sono cose che è possibile
dimostrare solo con l'indurre il lettore a riflettere
su se stesso; e che, almeno una volta, in questo posto
strano e complicato che è il nostro mondo, ci sia
accaduto chiederci: "What does it all mean?".) Il libro
si presta efficacemente a questa duplice lettura: per
filosofi e per non addetti ai lavori.
È sul secondo tipo di lettura che
vorrei suggerire, in margine, qualche spunto di riflessione
a proposito di quella situazione istituzionale in cui
uno è letteralmente alle prese con la filosofia
come adolescenza dell'intelletto. Alludo al difficile
problema dell'insegnamento della filosofia nelle nostre
scuole superiori. Credo che poche istituzioni siano importanti
per una società quanto la scuola e che poche siano,
come la scuola, sistematicamente sottovalutate. Prendere
sul serio la scuola significa prendere sul serio regole,
modelli, istituzioni e persone che vi sono coinvolte.
Non mi addentro nell'esame e nella discussione della vicenda
intricata e a tratti deprimente della riforma degli ordinamenti
della scuola superiore italiana. Mi limito a una modesta
proposta. Chiunque di noi si trovi a praticare quella
professione che Freud riteneva essere fra quelle praticamente
impossibili e comunque molto difficili che è l'insegnamento,
è al corrente dei problemi ordinari e quotidiani
e della querelle pluriennale su come insegnare
filosofia.
A partire almeno dal 1970, la questione
del ruolo e dello spazio della filosofia nell'ambito delle
discipline degli istituti superiori, è stata al
centro di intense discussioni, diverse proposte, accese
controversie. Un volume come L'insegnamento della filosofia
(Rapporto della Società filosofica italiana),
a cura di Luciana Vigone e Clemente
Lanzetti, (8) può dare un quadro e un'informazione
interessante sullo stato della questione. Sembra che non
goda più del prestigio di un tempo l'idea un po'
enfatica secondo cui la filosofia costituisce qualcosa
come il "coronamento della formazione umanistica". D'altra
parte, non vi è accordo su che tipo di sapere sia
quello filosofico, ma si rifiuta prevalentemente la sua
assimilazione a altri tipi di conoscenza e si tende comunque
a riconoscere una certa autonomia e specificità
alla filosofia in quanto tale. Modelli di insegnamento
della filosofia che si articolino per reti di problemi,
piuttosto che sulla storia delle idee, non raccolgono
grande successo; e, tuttavia, si lamenta che l'insegnamento
della filosofia si riduca a una sorta di "dossografia"
accelerata. A chi sostiene la tesi dei problemi, si obietta
ragionevolmente che i problemi non sorgono e si formulano
nel vuoto pneumatico ma entro contesti e che ciò
ha luogo in relazione a forme di vita, tradizioni e, naturalmente,
altri tipi di conoscenza e comprensione, scientifica,
religiosa, culturale o artistica che sia. Tuttavia, questa
ragionevole obiezione ci riporta inesorabilmente al dilemma
della dossografia.
Non ho idea di come si possa risolvere un
insieme così intricato di questioni. Mi chiedo
se, rifiutando la tesi della filosofia come "coronamento"
e accettando quella più generale, che mi sembra
essere condivisa, per cui la scuola dovrebbe sempre più
essere un'istituzione in cui "si impara a imparare", non
si potrebbe prendere più sul serio l'idea della
filosofia come "adolescenza dell'intelletto". Se non altro,
solo come un primo passo elementare; come la celebre "scala",
se uno preferisce la citazione dotta: come un modo per
consentire ai nostri figli e nipoti di riconoscere, riflessivamente,
l'importanza dei problemi per cui la filosofia è
importante e di capire che senso ha continuare a leggere
Platone o Cartesio, Leibniz, Hume o Kant, Frege o Wittgenstein.
Se è vero che la filosofia è
l'adolescenza dell'intelletto, una scuola che la escluda
dalla sua dieta o ne fornisca un surrogato "dossografico",
privo di importanza riconoscibile, non favorirà,
per quanto le è possibile, quella maturità
cui dovrebbe nei suoi limiti, aspirare una istituzione
educativa degna di questo nome.
Salvatore Veca
Capitolo successivo