Io argomento ex suppositione, figurandomi un moto verso un punto, il quale partendosi dalla quiete vada accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima proposizione con la quale cresce il tempo; e di questo moto io dimostro concludentemente molti accidenti: soggiungo poi, che se l'esperienza non mostrasse che tali accidenti si ritrovassero nel moto dei gravi naturalmente descendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto medesimo che da me fu definito e supposto; quanto che no, le mie dimostrazioni, fabbricate sopra la mia supposizione, niente perdevano della sua forza e concludenza ... ma nel moto figurato da me è accaduto che tutte le passioni, che io ne dimostro, si verificano nel moto dei gravi naturalmente descendenti.1
Un Galilei ormai canuto e agli «arresti domiciliari» confessa, tra le righe, che la pietra -- dello scandalo -- dalla torre non è stata mai lanciata.
Feyerabend, distinguendo fra lo scienziato e il metascienziato, definisce l'uno e l'altro «truffatore».2 Per Feyerabend, infatti, i discorsi di Galilei sono argomentazioni solo in apparenza: «Galileo si serve dei mezzi di propaganda. Oltre a tutte le ragioni intellettuali che può offrire egli fa ricorso anche a trucchi psicologici. Questi trucchi hanno molto successo e lo conducono alla vittoria». Questo Galilei procede controinduttivamente3 poiché inventa con audacia, astuzia e «opportunismo» una nuova esperienza in favore della sua teoria. Cambiando i presupposti accettati comunemente dalla concezione aristotelica, cambia anche l'esperienza ed il dato sensoriale che da assi derivano; muovendosi, cioè, all'interno della corrispondenza, voluta dall'empirismo, tra esperienza e teoria, la sfrutta e la manipola a suo vantaggio, a vantaggio e a sostegno della sua «esperienza».
«Truffatore» è dunque un elogio sinonimo di audace, brillante e determinato, ma non basta: le critiche a tale provocatoria affermazione si fanno ugualmente indignate e la risoluzione del problema metodologico muta in questione storica e storiografica.4 Storica nel senso di filosofia della storia -- la scienza deve o meno avvalersi della propria storia? --, storiografica nel senso stretto del termine in quanto ricostruzione il più possibile fedele e documentata dell'accaduto.
Così il Galilei feyerabendiano, psicologo e propagandista oltre che ottimo retore, non sembra proprio essere lo stesso Galilei letto e studiato dagli altri interpreti che, invece, prima d'ogni cosa lo definiscono scienziato nel senso più moderno (e sperimentale) del termine.
Queste sono pagine di libri, riviste e quotidiani dei nostri giorni;5 ciò che invece è problema (filosofico) precedente è il circolo esistente fra metascienza, scienza e storia della scienza, circolo che ricorda quello tra metafilosofia, filosofia e storia della filosofia, e che, anche per questo, rischia di trasformarsi in vizioso. Eppure se la storia della filosofia, o anche delle filosofie, abbondano, la storia delle scienze è cosa per studiosi, neppure per studenti.
È lavoro dello scienziato o del filosofo assolvere ad un simile compito? Ed il circolo sembra davvero farsi vizioso...
Solo per iniziare non si concorda neppure sul bisogno, da parte della scienza, della propria memoria storica: in opposizione all'analisi storica viene, infatti, proposta una impostazione assiologica per la comprensione del metodo scientifico, secondo la quale «l'impostazione storica [...] risulta impraticabile».6 Per continuare, poi, si deve tener presente il dibattito -- mai risolto -- tra i sostenitori di una storia interna che non prende in considerazione nulla all'infuori dell'accadimento scientifico e che è sostanzialmente tesa a conservare l'indipendenza e l'autonomia della ricerca, ed una storia esterna che si apre, invece, all'analisi dell'influenza esercitata dalla situazione politica ed economica e dalle dinamiche sociali in senso ampio.7 Fino a giungere all'altro sostanziale quanto irrisolto problema della concezione del tempo inteso o come lineare e progressivo o come ciclico e stratificato sottostante all'idea di progresso scientifico che ogni interprete, necessariamente, deve prendere in considerazione in una delle suddette accezioni.
Sembra dunque che non esista una vera e propria metodologia del fare storia della scienza: non esiste, cioè, una disciplina unitaria con un proprio statuto metodologico acquisito e condiviso che consenta di analizzare l'oggetto scienza secondo comuni coordinate, distinguendo, senza però eliminare, l'aspetto scientifico in senso stretto e quello filosofico.
Statuto epistemologico e metodologico che invece la storia delle religioni, intesa quale disciplina, è riuscita a definire chiaramente, pur nella pluralità e condivisibilità (o meno) delle diverse scuole. Risulta così chiaro chi deve fare storia delle religione, come deve farla, entro quali canoni e criteri e documenti ed interpretazioni deve muoversi per dare rigore al proprio lavoro.
Dunque per costruire una storia delle religioni, in senso moderno e storicista, si deve mettere in campo un ateo -- quantomeno un laico -- si deve tener conto della molteplice valenza del termine sacro, si devono rimettere in discussione certezze apparentemente consolidate. La nostra cultura ormai ampiamente desecolarizzata ha già condotto ad una simile operazione, ma al contempo, in sostituzione, si è fatta sempre più scientifica anche se in un senso dinamico e mutevole. A conclusione di un ampio e generalizzato processo di secolarizzazione ha, infatti, corrisposto una nuova sacralità, nuovi valori hanno sostituito i precedenti: «l'idea di una dernìere science e lo scientismo, il demone di Laplace, il Panopticon di Bentham, the invisible hand degli economisti sono figure cardine di questi processi di sacralizzazione»,8 «secondaria», come la definisce Ceruti. Come dire: dio è morto, ma la scienza no, e la nietzschiana morte non ha condotto con sé la liberazione cercata, ma una nuova condanna di valori sostitutivi, e l'oltreuomo, capace e felice di vivere senza certezze, non è ancora giunto...
Nell'eracliteo tutto scorre dell'accadimento scientifico c'è ancora un qualche cosa di immobile, di immutato ed immutabile. Cambiano le teorie, i laboratori e gli esperimenti, non cambia però l'assunto di base, quell'apriori scientifico che è il riferimento empirico-oggettuale, che è il metodo sperimentale, che è la corrispondenza fra investigazione ed oggetto da investigare, fra ordine del pensiero e ordine delle cose.
Se è vero che «il pensiero è una paura trasformata, è una paura che si è data un'attrezzatura metodica»,9 proprio per questo non può essere misura d'ogni cosa e in ogni dove. Feyerabend lancia in proposito provocazioni metodologicamente «anarchiche», più vicine all'estetica Dada che non all'anarchismo politico vero e proprio, sia quello di uno Stirner o di un Bakunin. Eppure la sua argomentazione ha pretese storiografiche, dettagliatamente storiografiche, tenendo in conto che i suoi primi studi furono scientifici, e non filosofici.
E Feyerabend, epistemologo tanto curioso ed intrigante quanto criticato e criticabile, fa anche storia della scienza, con le conseguenze a tutti note. Sarà forse che l'accostamento fra storia e scienza stride ancor più di quello, peraltro dimostrato valido, fra storia e religione? Che quell'immobile cui si è precedentemente accennato perde il proprio fondamento (o auto-fondamento) se viene forzato e sottoposto alla storicità del quotidiano?
Ed il principio di coerenza e di invarianza di significato,10 principi cardine dell'epistemologia empirista, sono scientificamente dimostrabili o sono invece quegli a priori, esistenti fuori da ogni reale storia e che, proprio e solo per questo, garantiscono la legittimità del pensare e del procedere sperimentale?
Sembra, così, che sia più agevole sottoporre la scienza ad un processo destorificante, piuttosto che ad una storicizzazione integrale.
Lo storicismo sui generis e spesso inconsapevole del dada-filosofo Feyerabend è però immemore del dibattito ormai classico ed acquisito: il riferimento a Hegel riguarda solo la dialettica e non lo storicismo idealistico; non reca con sé reminiscenze crociane o gramsciane; non sembra neppure influenzato dalle posizioni mitteleuropee o dal grande confronto diltheyano che oppone scienze della natura e scienze umane. Storicismo orfano, questo, che conduce velocemente al relativismo, comunque in nome della «laicizzazione» della scienza, o della sua storicizzazione.
E piuttosto usuale è, ormai, il paragone fra scienza e religione,11 così come è, ed era precedentemente stato, quello fra scienza ed arte.
«La scienza può, al contrario, esser considerata alla stregua di una moderna religione»,12 oppure: «tanto più la società è tecnologizzata, tanto più la sua ideologia è magica. Può essere magia bianca, per elargire benefici all'umanità, come pensano gli scientisti, oppure magia nera, stregoneria, e suscitare l'inferno delle catastrofi ecologiche e belliche, come pensano gli avversari della scienza».13
È questa interpretazione di scienza e religione come due strategie capaci di strutturare il reale investendolo di norme e di valori a giustificare l'applicazione del metodo antropologico-storicista al nucleo empirista, o per dirla con Gargani feticista, della scienza. Feyerabend si avvicina allo studio della metodologia scientifica come «un antropologo [che] si avvicina ai contorsionismi mentali degli stregoni di una associazione di tribù appena scoperta»,14 e fa piacevolmente sorridere.
Ma Gargani parla di «cerimonia epistemologica» che «si svolge press'a poco così: si assume come noto -- in virtù di un'intuizione filosofica o cosmologica privilegiata (in questi casi, si sa, prendere o lasciare) -- l'ordine e la struttura della natura, e talvolta, con un'assunzione addizionale, si assume come nota la posizione dell'uomo in tale situazione. Successivamente si passa a dire che l'uomo può conoscere l'ordine della natura perché questa natura è fatta così e così e l'uomo si trova in essa in una situazione così e così»15 ... e non c'è più molto spazio per sorridere (piacevolmente).
Il problema da risolvere è, infatti, un problema che l'uomo, da sempre, ha cercato di circoscrivere strutturando l'opposizione natura-cultura in modo da creare dei campi in cui l'agire culturalmente è un'agire guidato da un orizzonte di senso di tipo causale ed in cui il caotico non-senso casuale della natura non può e non deve interferire. Lo steccato che delimita il villaggio separandolo e proteggendolo dalla foresta è assimilabile allo steccato che divide le leggi metodologiche dal caos in cui potrebbero disperdersi e perdere senso: «la ripetizione rituale dei modelli mitici assolve la funzione esistenziale di proteggere dal terrore della storia e di dare un fondamento e una prospettiva alla precarietà della condizione umana».16
Questo rinvia alla religione demartiniana che è tesa a «strutturare» creando orizzonti di senso formalizzato in cui l'uomo può difendersi dal pericolo di trasformarsi in un «me variopinto», trasformarsi cioè in una «presenza che passa con ciò che passa e che si annienta in questo annientarsi della sua potenza di oggettivazione».17 È dunque una produzione umana che agisce da meccanismo di difesa contro «il dispiegarsi delle forze naturali ciecamente distruttive, la morte fisica della persona cara, le malattie mortali, le fasi dello sviluppo sessuale, la fame insaziata senza prospettiva, [che] racchiudono -- in date circostanze -- l'esperienza acuta del conflitto fra la perentorietà di un «dover fare qualche cosa» e il funesto patire del «non c'è nulla da fare», da intendersi non già come rassegnazione morale (nel qual caso sarebbe una forza) ma come crollo esistenziale».18 Il soggetto, inteso come culturalmente e socialmente determinato, deve cioè trovare una valida risposta cognitiva a ciò che passa senza e contro di lui: all'inconoscibile, all'imponderabile, all'imprevedibile.
E Feyerabend più volte parla di mito scientifico in senso antropologico, mito che -- in questa prospettiva e a mio avviso -- presenta profonde connessioni strutturali e linguistiche con quello religioso: entrambi conducono, infatti, ad una prassi di tipo rituale, entrambi producono le loro norme e le loro convenzioni, entrambi proteggono l'uomo dalla paura dell'agire privo di senso e dalla paura, ancor maggiore, dell'inconoscibile, difendendolo così, fisicamente e psicologicamente, dalle conseguenze di un'agire casuale e rapsodico. Infine, entrambi, forniscono il fondamento, ovvero la certezza di una giustificazione non soggetta al fluttuare mondano e storico ma garantita e legittimata da una condizione destorificata già avvenuta in illo tempore che assicura il nesso mitico-rituale;19 è in questo senso che scienza e religione sono risposte culturali dell'uomo al suo ambiente.
La destorificazione rituale analizzata da De Martino, atta a preservare l'integrità della presenza nei momenti critici, è paragonabile alla destorificazione, in ambito scientifico, delle normative metodologiche e della logica. Destorificare equivale in questo caso a preservare.
Ciò che rimane fuori dalla storia e dal suo movimento sembra essere ciò che non deve fluire, che non deve esser sottoponibile a mutamento e revoca e contemporaneamente che deve essere garanzia dell'agire umano culturalmente determinato, sia esso religioso o scientifico.
Evidente appare come ogni qualvolta ci sia stato un radicale mutamento nella storia della scienza sia ad esso seguito un mutamento cosmologico entro il quale risiede sì la teoria, ma prima ancora la percezione.
Galilei, pur non avendo esperito realmente la caduta di un grave nel vuoto perché «il necesse determina l'esse. La buona fisica si fa a priori. La teoria precede il fatto. L'esperienza è inutile perché, prima di ogni esperienza, noi siamo già in possesso della conoscenza che stiamo cercando»,20 ha pagato il suo temperamento creativo ed innovativo, ha pagato la storificazione dei presupposti aristotelici, fino ad allora destorificati, e grazie -- anche -- a questo è stato in grado di pensare «l'impensabile», di prendere in considerazioni possibilità teoriche e percettive inusuali per la cultura e per la cosmologia del tempo.
Parte dell'attuale fisica quantistica è, ancora una volta e non si sa con quale fortuna, una sovversione dell'esperibile a partire dalla sensazione, dalla percezione e dal senso comune fino a giungere al principio di non contraddizione e all'ontologia sottostante. Pur senza poter esprimere alcun giudizio di merito quasi conforta l'idea di poter aver altre possibilità non considerate, altre soluzioni possibili del reale, altre scelte da poter fare e altri schieramenti per cui, eventualmente, poter parteggiare.
«È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e dal disordine, corrispondente ad un uso che essi hanno fatto della propria vita».21
La matrice del procedere scientifico è, dunque, essenzialmente sociale, gli abiti intellettuali trovano la propria genealogia nella prassi maggiormente indispensabile: quella della sopravvivenza nel mondo come uomini dotati di presenza, coscienza, cultura e potere decisionale. Nulla viene tolto a nulla: la scienza rimane ciò che è, ma la sua storia non potrà non ricordarle la provenienza tutta umana e particolare di un fondamento che invece si voleva universale; non potrà non ricordarle l'intrinseca circoscrizione dell'oggettività percettiva entro i limiti di una sola cultura o di una sola cosmologia; così come non potrà mentire sull'estrema relatività della sua tradizione qualora si volesse guardare, e solo per esempio, un po' più ad Oriente.22
Qui, solo ora e con tanti problemi insoluti lo storicismo sposa il relativismo. Sottolineando che solo Feyerabend ha scelto questa tortuosa strada, mentre gli altri, i padri dello storicismo vero e proprio, hanno sempre fortemente e coerentemente negato la possibilità di una soluzione relativistica anche là dove la consapevolezza dell'altro e del diverso da sè si è trasformata in consapevolezza etica e in dovere culturale, come nel caso di De Martino e del suo etnocentrismo critico.
Nel precario equilibrio del connubio fra storicismo e relativismo tutti gli dei -- religione, morale, scienza, ideologia -- sono stati sacrificati e redenti allo stesso tempo. «Il politeismo di Feyerabend si colloca quindi all'estremo confine del mondo moderno, della Neuzeit, là dove, al compimento della Götterdämmerung, l'uomo moderno tenta l'ultimo tentativo a lui possibile: il recupero «archivistico», che è insieme «redenzione» storica, di tutte le immagini degli dei tramontati [...] ... Ma perché questo recupero e questa redenzione siano compiutamente e stabilmente attuati, l'uomo moderno deve avere abbandonato definitivamente ogni fede, deve essersi liberato in modo completo, senza cadute e senza tentennamenti, di ogni divinità. È riuscito a tanto Feyerabend?».23 Pur non dimenticando i suoi molti meriti, sembrerebbe di no. Tutti gli dei, proprio tutti, sono morti e risorti, la scienza e stata condannata e assolta, la morale si è trasformata in etica, lo stato è mutato in una democrazia multietnica e garantista. Gli a priori storici sono tornati immobili a svolgere il loro ruolo. Gli uomini perpetrano, con più o meno successo, la loro cultura di appartenza, quale essa sia, e fra tutti gli occidentali bianchi, colti e benestanti anche l'irriverente Feyerabend di Contro il metodo.
Copyright © 2003 Angela Spinelli
Angela Spinelli. «Storicismi e destorificazioni: Galilei, Feyerabend, De Martino. Cercando una storia del metodo scientifico». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 5 (2003) [inserito il 20 luglio 2003], disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [32 KB], ISSN 1128-5478.
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