Oltre il
genoma c’è la proteomica Sono
32 mila i nostri geni, ma ognuno crea molte catene di aminoacidi.
Non avranno più segreti DI
ROSSELLA CASTELNUOVO
Il progetto "genoma
umano" si è concluso con un bottino molto inferiore al previsto.
Ci si aspettava di trovare circa 300 mila geni. Due anni
fa le stime scesero a 140 mila e ora che il lavoro è (quasi)
completo sappiamo di averne solo 32 mila. Non molti di più
dei 19 mila di un verme (il Caenorhabditis elegans) e dei
13.600 del moscerino Drosophila melanogaster. Ridimensionati,
ancora una volta, dopo la fine della centralità dell’uomo
nell’universo, con Copernico, e la scoperta della diretta
discendenza dalle scimmie con Darwin. Eppure siamo diversi,
molto diversi. Non solo dai vermi e dagli insetti, ma anche
tra noi. Come spiegare tanta variabilità se il Dna – lo
"stampo" primario di ogni vivente – è così "piccolo"?
Una delle risposte possibili risiede nell’analisi dei prodotti
generati direttamente dal Dna: le proteine. Tante, tantissime,
complesse, mobili, variabili e inafferrabili, spesso, anche
al più astuto e attrezzato dei biologi molecolari. Si pensava,
fino a pochi anni fa, che il loro numero fosse corrispondente
alle sequenze codificanti del Dna, secondo la regola di
"un geneuna proteina". Ma anche questo dogma è crollato.
Ogni gene può dare il via alla formazione di più proteine,
moltiplicando così il numero dei "mattoni" con cui è costruito
il nostro organismo.
La stima corrente del rapporto geniproteine è di uno a tre.
In ogni cellula ci sarebbero quindi 100 mila proteine da
cui dipende ogni attimo della nostra vita. Conoscerle tutte
è la prossima tappa della big science in campo biomedico.
Il bello del genoma, insomma, sta per cominciare e si chiama
"proteoma".
Secondo la rivista Nature, l’impresa è degna di un nuovo
progetto globale in cui mettere insieme soldi, industrie
ed eccellenti istituti di ricerca come è stato fatto per
l’analisi del Dna. Un modello che, come spiega Giuliano
D’Agnolo, direttore del laboratorio di biologia cellulare
dell’Istituto superiore di sanità, è diventato il capostipite
di tante "omiche" come la trascriptomica, per lo studio
di tutti gli Rnamessaggeri (le molecole che trasmettono
i comandi dal Dna alla cellula); la metabolomica, per lo
studio di tutti i metaboliti; la glucidomica, per lo studio
degli zuccheri e così via.
«La proteomica è la più importante, soprattutto per le applicazioni
in medicina» sottolinea D’Agnolo. «L’idea fondamentale è
che nelle cellule sane e in quelle malate il Dna è lo stesso,
ma c’è una espressione genica diversa e, quindi, la presenza
di proteine diverse o alterate. Queste potranno diventare
i bersagli di nuovi farmaci o la spia per diagnosticare
malattie prima che si manifestino».
Un esempio? I tumori del seno. «Esistono geni, come il Brca1
e il Brca2, che predispongono alla malattia» spiega D’Agnolo.
«Ma le donne che ne sono portatrici sanno solo che hanno
una maggior probabilità di ammalarsi, senza alcuna certezza
sul se, come e quando. Conoscere le proteine che segnano
il passaggio da questa fase di "probabilità" della malattia
al suo effettivo sviluppo sarebbe una rivoluzione nella
prevenzione del cancro in una fase in cui bloccarlo non
è difficile».
Passare dal genoma al proteoma significa, quindi, passare
dal progetto (di quello che potremmo essere) alla realtà
(di quello che siamo). O, secondo una ben nota metafora,
passare dalla conoscenza dell’"alfabeto della vita" (le
sequenze del Dna) alla comprensione delle parole (le proteine)
e del loro significato. Anche se, proprio come in un discorso,
il loro significato (la loro funzione) cambia a seconda
del contesto (cellule giovani, vecchie, sane, malate….).
Nasce così l’era del proteoma, il futuro del genoma.