1. Il Due è allorigine
La dualità tiene insieme le alternative.
(S.
Levi Della Torre, Zone di turbolenza)
Due
indici protesi uno verso laltro quasi si toccano, intervallati da
un brevissimo spazio che demarca
la distante prossimità tra il Creatore e la sua creatura, tra Dio
e Adamo, luno di fronte allaltro nella loro
assoluta differenza. Questo particolare della
Creazione,
nel suggestivo affresco dipinto sulla volta della Cappella
Sistina, si presta come raffigurazione emblematica di
unapertura relazionale. Unapertura che luomo sembra
dover sopportare come costitutiva del suo essere al mondo.
Allinizio è infatti la dualità, non lunità,
ricorda la tradizione rabbinica, una dualità simboleggiata
dalla ב bet,
la seconda lettera dellalfabeto ebraico, con valore
numerico due, iniziale di bereît (In
principio
), parola inaugurale della Torah.
Le
riflessioni di Martin Buber muovono a partire da questa
prospettiva. Nel tempo di crisi di ogni certezza il filosofo
ebreo suggerisce di ricominciare dallinizio. Di
ricominciare proprio dalluomo. Non come individuo,
tuttavia, ma nella sua noità originaria. Lungi dal riferirsi
ad unentità unitaria indifferenziata, egli parla
del noi come di una dualità. Pensa cioè il fondamento
del reale come una struttura relazionale raccolta nella
parola io-tu: una dicotomia intrinseca, io
e tu, unantinomia
insolubile. Come quella tra Dio e Adamo nella Creazione michelangiolesca, assicurata
dal breve spazio tra i loro indici rivolti luno
verso laltro. Chi tenta di pensare una sintesi,
afferma Buber, distrugge il senso della situazione
delluomo. Il noi
è una realtà eterogenea: ognuno non riceve laltro
che per restare altro da lui. Un con-essere ontologico, dunque, senza
fusione, ma nella relazione. Scrive infatti:
Solo
la visione dellente che mondanamente mi è di fronte
nella pienezza della sua presenza e nei confronti del
quale io stesso, presente nellinterezza della mia
persona, mi sono posto in relazione, mi dà veramente il
mondo come totalità e unità.
Questorientamento
supera il principio individualistico, di cui il cogito cartesiano era stato vessillo,
secondo cui lio sia autosufficiente e in opposizione
negativa e inconciliabile con ciò che è fuori di esso.
Oltrepassa cioè la prospettiva della solitaria essenza
stabile e chiusa per sostenere lesistenza (existieren) dellio in direzione
del tu: non vi è alcun io in sé, ma solo lio
della parola fondamentale io-tu, afferma Buber.
Daltro
lato si discosta pure dal punto di vista di coloro che,
come Heidegger, pur intuendo limpossibilità di un
ego che non sia già da sempre un
noi (dasein), pensano ad un indifferenziato
si impersonale, ovvero rifiutano lidea che laltro
stia di fronte alluno in un rapporto di necessaria
separazione, intervallato dal fra, garanzia contro qualunque forma
di pensiero totalitario.
Buber
constata che tuttavia la nostra epoca - epoca senza
casa (Hauslosigkeit) - ha dimenticato il fondamento relazionale,
riducendo il tu che da sempre ci accompagna allesso,
a oggetto da conoscere, da manipolare, da considerare
come macchina adatta ai molteplici usi. Allo stesso modo, circondato da contenuti,
anche lio è diventato fissità. Incapace di presente
egli si è pietrificato come il passato, poiché il presente
nascesolo attraverso il farsi presenza
del tu. Invero, riflette,
in
tempi malati succede che il mondo dellesso, non
più percorso e fecondato dal mondo del tu che vi affluisce
come una corrente vitale, separato e arenato, come un
immenso fantasma palustre, prevale sulluomo (
).
Per
cacciare limmenso fantasma, ossia per
superare la tendenza verso lesperienza oggettivante
dellessità che rende anche luomo
cosa, Buber ritiene necessario ripronunziare
il tu. Unilaterale,
egoico, spaesato, solamente nellincontrarsi con
laltro lio può far ritorno alla realtà autentica
da cui si è allontanato.
Posta
nei termini buberiani la domanda che ne è delluomo?,
lungi dal condurre verso soluzioni solipsiste, si capovolge
dunque in unaltra domanda: che
ne è della comunità? Che ne è dellunico
spazio possibile delluomo con
luomo? Per recuperarne le tracce bisogna chiarire
innanzitutto il significato di relazione,
a partire dalla quale solamente, per Buber, la comunità
può essere ricostruita.
Relazione è certamente reciprocità
(Gegenseitigkeit), ma non reversibilità:
la risposta del tu cioè, spiega il filosofo, non
è semplicemente uneco della parola dellio
che rimbalza sul tu, poiché il tu non è identico
allio. Ciascuno non è una copia
come quella prodotta dal Demiurgo greco, bensì un originale, come Adamo, ad immagine
e somiglianza di Dio e degli altri uomini, ma non identico
ad essi. Reciprocità,
dunque, nella più radicale differenza:
se il tu non è riducibile ad oggetto, neppure è riconducibile
a duplicazione, ad alter ego dellio. Per Buber insomma tra lio
e il tu deve esistere un intervallo che nel
separare distingua, ma che nel distinguere sia anche area
di contatto. Parlare di differenza
non vuol dire invito a prendere le distanze - atteggiamento
tipico della tendenza individualistica allaltruicidio.
Differenza significa, invece, allo
stesso tempo, distacco - necessario ad impedire
la confusione in una totalità indistinta - e legame
tra le diverse parti di una realtà. Parti che stanno
una di fronte allaltra, legate tra loro senza scopo
alcuno. Partecipazione dunque, è la forma dello
stare in relazione:
Chi
è nella relazione è parte di una realtà, cioè di un essere
che non è semplicemente in lui, né semplicemente fuori
di lui. Ogni realtà è un effetto di cui sono parte senza
poterlo far mio.
Un
relazionarsi senza nessuno scopo conoscitivo, senza alcun
fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione. Quanto più la relazione al tu
è immediata, tanto più la partecipazione si compie.
Partecipazione
che rende lio consapevole di non essere individuo
ma persona. Mentre lindividuo, infatti, non
è partecipe di alcuna realtà, argomenta Buber, la persona è in un legame costitutivo
con gli altri, si delinea nella relazione. Questa distinzione
terminologica è ancora più convincente se si pensa che
persona è etimo latino di maschera, che per sua natura richiama
la proiezione verso lesterno, evoca lessere-per-laltro.
Relazione
è dunque reciproco
prender parte della stessa realtà.
Ma è solo nel suo dispiegarsi dialogico che essa può venire pienamente
compresa, poiché i momenti della relazione sono
uniti dallelemento del linguaggio in cui sono immessi.
2.
Lapertura
dialogica
Conosco
tre specie di dialogo: quello autentico - non importa se parlato
o silenzioso - in cui ciascuno dei partecipanti intende
laltro o gli altri nella loro esistenza e particolarità
e si rivolge loro con lintenzione di far nascere
tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico, proposto solo dal bisogno
dellintesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo,
in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente
contorto e indiretto, parlano solo con se stessi (
).
Nel
dialogo le
differenze trovano una comune abitazione. Dia-logos, non logos. Buber infatti respinge le
valenze totalitarie del logos
ereditato dalla grecità, che, anche nella pretesa di funzionare
come dialogo, era soprattutto tecnica argomentativa per giustificare,
dimostrare, motivare ciò che veniva affermato come verità
da racchiudere nellindiscutibilità di un concetto.
Logos che, ispirando il sapere scientifico
della modernità, si è tradotto in un linguaggio che inchioda
nelle sue formule ogni fonema. Un linguaggio proposto
solo dal bisogno dellintesa oggettiva che finisce per risuonare monologo, fissità, che fa esistere
laltro soltanto come esperienza, fino a sopprimere
lo spazio in cui ogni relazione possa avvenire. A vivere
nel monologo - riflette Buber è colui che
non è capace di rendere sostanzialmente reale la società
allinterno della quale (
) si muove.
Infatti, rimarca, lesistenza monologica
non percepisce nulla al di là dei limiti del proprio
io. Testimone diretto della crisi occidentale,
egli considera questo parlare senza in-tendere
responsabile dello sfibramento dei legami sociali. Perciò
ritiene essenziale riscoprire il potere
dialogico della parola. Quel potere intimamente vitale
nelle valenze del dabar della cultura ebraica, alla
quale pure egli appartiene, che lOccidente è ormai
incapace di riconoscere. Influenzato proprio dallebraismo
che svaluta limmobilità, il filosofo pensa infatti il linguaggio in
termini di movimento. Non il movimento fondamentale del
monologo che è il ripiegarsi, cioè il sottrarsi
allaccettazione dellessere di unaltra
persona, bensì il movimento fondamentale del dialogo,
il rivolgersi, che significa
accettazione dellalterità.
Dialogo
è dunque il medium
che impedisce che io e tu dileguino nella reciproca indifferenza.
Segnala lio come presenza
e riconosce la presenza autonoma dellaltro
come essere unico con un nome proprio. È apertura,
cammino verso ciò che è distante, verso ciò che rimane
nella sua incolmabile distanza. È esodo, sforzo verso una meta, attesa
inesauribile di pienezza. È attraversamento della distanza,
ponte, prossimità. Prossimità senza fusione, ma piuttosto
carezza, come direbbe Lévinas, contatto che
non profana. Perciò la reciprocità di cui
parla il filosofo implica la reciproca rinunzia al totale
assoggettamento dellaltro alla propria conoscenza,
lasciando che laltro resti irriducibile ad un sapere
che incorpora. Un margine di silenzio - il silenzio di ogni linguaggio - scrive Buber,
lascia libero il tu, lo distanzia abbracciandolo,
è con lui, impedisce che si trasformi
in esso.
Nella
reciprocità dialogica la parola è domanda dellio
rivolta al tu, ma è anche risposta, responsabilità
(respondere)
nei confronti di chi interpella:
Responsabilità
presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione
indipendente da me, al quale io debbo rendere conto (
).
Questa è la realtà della responsabilità: rendere conto
di qualcosa che ci è stato affidato da un essere che ci
dà fiducia (
). Dove nessun appello primario mi può
toccare, perché tutto è mia proprietà, la
responsabilità è diventata unombra. E contemporaneamente
si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi
non dà più risposta, non percepisce più la parola.
Responsabilità è capacità di rispondere
a colui che mi appella, a colui al quale debbo
render conto poiché chiamandomi mi si affida, mi
dà fiducia, a colui che mi presta attenzione. Responsabilità
che dal punto di vista relazionale implica corresponsabilità, una sinergia
reciproca, un flusso dialogico che va e viene dallio al tu. Se cessa tale flusso la relazione,
cristallizzandosi, si spegne.Certamente lex-posizione è un rischio, avverte
il filosofo, poiché la domanda può rimanere senza risposta
e il dialogo può morire sul nascere. Ma se la reciprocità
si realizza, allora linterumano fiorisce nel dialogo
autentico.
Nel
tempo in cui sembra salvifico solamente arroccarsi nellunità,
il richiamo di Buber al dialogo responsabile, attraversato da espliciti
toni etici, può essere inteso come invito a scardinare
la monoliticità della soggettività, a deporre la pretesa
dellio alla sovranità, ad incamminarsi verso la
comunità.
3.
Verso la comunità
La
comunità è per Buber la soluzione al problema delluomo.
Ma cosa intende il filosofo per comunità?
Egli non pensa alla comunità naturale, in cui i rapporti sono
determinati da vincoli di sangue o dalla terra, piuttosto
che cercati attraverso la tensione e limpegno personale. E non pensa neppure alla massa, in cui luomo è
come un fuscello stretto in un fascio che galleggia sullacqua
in balia della corrente, senza capacità di movimento autonomo, ottusamente
perduto in essa. Specifica inoltre che comunità non è
da scambiare con alcuna forma di collettivismo verso cui pare incline
la modernità: la conduzione dei gruppi, soprattutto
nellultimo scorcio della storia umana - scrive infatti
- è più incline a reprimere lelemento della relazione
personale a favore di quello puramente collettivo.
Luomo - continua - si sente sorretto dalla
collettività, che lo solleva dalla solitudine, dallangoscia
del mondo, dallo smarrimento, ma in realtà limita
linclinazione al rapporto personale (
),
come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme
essere rivolti principalmente solo allopera del
gruppo. Tutte quelle collettività composite sono
affastellamento: gli individui stanno impacchettati
insieme, uno vicino allaltro, perduti in una
soffocante totalità
che tende a rimuovere, in chi ne è parte, persino la capacità
di porsi il problema di sé, nellillusione di vivere
in una società tecnicizzata perfettamente controllabile. Perciò - conclude - mentre il collettivo
diventa ciò che ha esistenza vera, la persona non è che
unesistenza derivata, cui non compete nemmeno più
la piena responsabilità. In fondo il collettivismo per il filosofo
non è che latteggiamento complementare e susseguente
allindividualismo, nasce anzi proprio dallo scacco strutturale
di questultimo, che provoca come reazione limmersione
e la dispersione nella struttura anonima del gruppo.
Alternativa
sia allindividualismo che al collettivismo, la comunità è per Buber un sistema
di relazioni interpersonali connesse con un centro. Affinché si realizzi, due
condizioni appaiono necessarie.
Prima condizione. La comunità consiste
nel non essere più semplicemente uno vicino allaltro,
ma nellessere uno presso laltro di una molteplicità
di persone che (
) ovunque fa esperienza di una reciprocità,
di un dinamico essere di fronte. Comunità cioè non è da intendersi come un essere comune, come lheideggeriano
si impersonale, bensì come un essere in comune, che prevede al
suo interno il pluralismo,
reso possibile dal riconoscimento reciproco dei singoli
componenti: il fondamento dellessere uomo-con-luomo,
afferma invero Buber, consiste nel desiderio di
ogni uomo di essere confermato per ciò che è (
)
e la capacità innata delluomo di confermare allo
stesso modo gli uomini come lui. La comunità nasce dunque da eventi dincontro.
Eventi che possono accadere solamente nella dimensione
pubblica, quella struttura fondamentale dellalterità,
in cui ciascuno si sente legato, promesso, allaltro.
Alcuni atteggiamenti tuttavia, avverte Buber, possono
deformare il senso della dimensione pubblica facendo così scivolare
levento relazionale dalla sua piattaforma essenziale.
Ad esempio lentusiasmo per il momento storico che
come una sorta di estasi conduce verso la
massificazione: la trasfigurazione della massa è
così abbagliante - scrive - da oscurare ogni alterità
e la persona, sopraffatta da unestasi inebriante,
scompare nel movimento della vita pubblica. Un altro
atteggiamento, opposto al precedente, è dato dalla passività,
dalla fusionalità, dallomologazione: «è lusuale
stare dalla parte dellopinione pubblica
e del pubblico prendere posizione». Atteggiamento
che mina il terreno del confronto, cancella i segni dellalterità
e convince che luniformità è la realtà.
Queste distorsioni sono sconosciute da colui che, invece,
vivendo con la dimensione pubblica senza
affidarsi ciecamente ad alcuno, decide da solo. Poiché
la dimensione pubblica non è affastellamento, ma
legame, in essa il tu è cercato, incontrato,
tratto dalla massa come persona.
Seconda condizione. Per Buber si
può parlare di comunità se i prolungamenti delle
linee degli incontri io-tu convergono verso il centro, se, in altri termini, si
realizza ciò che egli definisce conversione. Con lespressione
conversione (Umkehr)
Buber intende la capacità di superare latteggiamento
centrifugo dellindividuo per volgersi-di-nuovo verso
il punto da cui si diparte londa di ogni sfera di
relazione. Conversione è un cambiar direzione, o meglio
un ritornare dalla non-direzione alla direzione, alla
via.
Chi abita il centro? Per Buber è
il Tu divino, il
custode della sepolta potenza della relazione, colui che può avvertirsi come soffio
ad ogni incontro con il tu, colui che, definito il totalmente
Altro, è anche il totalmente Presente,
colui che, mysterium tremendum, è anche il mistero di ciò che è ovvio.
La possibilità di relazionarsi con la centralità di Dio,
scrive il filosofo, abbraccia e comprende la possibilità
di relazione con ogni alterità.
Ma
nel nostro tempo Dio è stato eclissato. Scomparso dal cielo del mondo, la sua centralità
viene ereditata dalluomo da quando il processo di
secolarizzazione, facendo cadere nelloblio la memoria
della relazione originaria col vero centro in cui
si dispongono le molteplici relazioni, ha finito
con lo svuotare la dimensione comunitaria della sua anima.
Cosicché oggigiorno il mondo è affollato da diverse comunità
di interessi che tuttavia appaiono sistemi chiusi, comunità solo di nome.
Buber
avverte la necessità di riscoprire la relazione verticale
(io-Tu), rispondendo a Colui
che silenziosamente invoca attraverso la relazione orizzontale (io-tu). Avverte in altri termini
la necessità di far ritorno al senso del sacro che possa rendere alluomo
la forza di aprirsi
ancora ad una possibilità duscita, la forza di attendere
che il parlare fatto di domande ottenga unultima
risposta. La forza di attendere, certo, poiché il tu
non è che traccia. Se infatti in tempi di
disincanto con il tu sulle labbra si è riconsegnati
al mondo, tuttavia, constata lo stesso Buber, il mistero
- ciò in cui, da cui e verso cui viviamo -
rimane ciò che era, esso si fa semplicemente presente
a noi, annunziandosi come salvezza,
ma non ci dice
ancora nulla, non si svela, resta quel silenzio che accompagna ogni suono.
Apre una domanda
sul senso ultimo che, rimasto inespresso,
attende una risposta semplicemente possibile. Il margine
di inafferrabilità del mistero non deve però essere interpretato
come sconfitta, come il muro invalicabile di fronte al
quale le possibilità gnoseologiche delluomo si arrestano.
Tale margine, invero, come ogni limite segnala un oltre,
invita a sporgersi al di là. La mancanza di una risposta
definitiva, infatti, alimentando continuamente la domanda,
è apertura soteriologia, movimento che spezza
la chiusura
della totalità. Se il pensiero logocentrico ci ha abituati
a pretendere una verità compiuta attraverso risposte certe
ed evidenti, lebraismo, filtrato dal pensiero di
Buber, può condurci a pensare che il vero senso si dà nel silenzio, alla soglia del linguaggio.
Nella reciprocità dialogica dellincontro io-tu,
infatti, luomo non riceve un contenuto,
ma una forza, la forza di comprendere che
il senso non
ha formula o immagine e tuttavia diviene certezza.
Non può essere sperimentato, ma può essere attuato.
Così,
mentre il logos
greco si mostra insufficiente a spiegare il significato che sfugge a questa
tempo non più sostenuto dalla speranza, Buber propone lidea cronologica di
conversione: lazione delluomo
può mutare il corso storia. Il mutamento storico per il filosofo
non è evoluzione, progresso, come voleva il Positivismo,
bensì rottura della linearità, attimo senza durata, evento.
La
malattia della nostra epoca (
) è una discesa nelle
spirali del sottomondo spirituale, (
) dove non cè
più un avanti e un indietro, solo linaudita conversione.
La
comunità si edifica quindi solamente se luomo lo
decide. Decisione che davanti al varco è brivido di estraniazione e il mondo mette
angoscia,
come
quando, nel mezzo di una triste notte, tu giaci tormentato
tra il sonno e la veglia (
) e in mezzo al tormento
ti viene in mente: Cè ancora vita, devo solo
farmi strada verso di lei; ma come, come?. Così
è luomo nellora della riflessione, rabbrividisce,
soppesa, non sa dove andare. E tuttavia (
) forse
la strada la conosce, è la direzione della conversione.
Lora
del varco,
lora della pura libertà, la libertà di poter essere
altrimenti, è il fecondo punto zero (
), è
la rincorsa per il salto. Pertanto è anche il tempo dellangoscia,
il tormento di una triste notte. Tormento
che oggi può assumere il benefico valore di un elemento
dirompente, denunciante, rivitalizzante. È linquietudine
necessaria a vedere oltre
il buio della notte, per comprendere che i
luoghi del comune abitare sono diventati sempre più somma
di individui.
Lora
della libertà, il tempo dellangoscia, è anche il
tempo della solitudine, reputata essenziale
da Buber ai fini della decisione. Non nel senso tuttavia in cui lha intesa
unintera epoca, come ideale modus vivendi per la realizzazione
dellindividuo, bensì come condizione che dispone
favorevolmente affinché una questione trovi risposta.
La solitudine nel contesto buberiano è in altri termini
da intendersi come leffetto di un momento di crisi di chi sente opprimente la
chiusura nei rapporti di sperimentazione e utilizzazione
delle cose. Un momento di crisi decisivo
che orienta alla scelta, che dà occasione affinché luomo
affronti in modo autentico il problema di sé. Se la solitudine
è la condizione per porre la domanda, la risposta deve
essere invece, per il filosofo, il superamento della solitudine
stessa: la comunità.
Dalla
sorda chiusura della solitudine, allora, alla capacità
di dare ascolto. Lascolto rinvia infatti alla dimensione
pubblica in quanto misura della capacità di relazionarsi,
della capacità di prestare orecchio persino alla sofferenza,
condividendola. Non solo la sofferenza che abita la città attuale (che forse non è così
felice come lOccidente si è sforzato di far credere), ma anche quella procurata dallattesa
che lautentica comunità si compia.
Sta
dunque alluomo decidersi. Latto della decisione
nella sua ultima ascesa, fa notare Buber, nella lingua
ebraica antica si chiama teshuvah. Ed è significativo che
questo termine indichi contemporaneamente sia la
conversione che lattività
di ascolto.
Se
oggi fare comunità sembra impossibile perché non se ne
vede più il senso, se anzi lopacizzazione
del senso è
la vera questione, il pensiero di Buber suggerisce che
paradossalmente la comunità può essere riedificata sulla
coscienza di tale opacità, a partire dalla condivisione
dellattuale
impossibilità di senso, dallumile
comunione di questa impotenza. Comunità insomma può voler
dire comune disponibilità ad attendere che il silenzioso
non-detto che sottende il dialogare
si apra ad una possibile comprensione. Perciò quella di
Buber è comunità in divenire: premessa
dellautentica esistenza delluomo, essa si
pone anche come promessa, destinazione, attesa di compimento.
In
margine
La
comunità descritta da Martin Buber è libera da accenti
sentimentali o romantici: non nasce dal fatto che
le persone nutrano sentimenti reciproci o dalla simpatia. Lontana dallessere pensabile come unistituzione
che offra sicurezza, essa dunque è solo una
possibilità. Una
possibilità che spetta alluomo coglierecome alternativa agli atteggiamenti annichilenti
dellindividualismo e del collettivismo. E
solo una possibilità - scrive il filosofo - ma non esiste
altro che questa.
Condividere
un dialogo
che rinunci alla pienezza della verità, accettare di nominare
il tu lasciandolo esistere nella sua
inafferrabilità, disporsi al mistero cui allude: può essere
proprio questo in fondo il significato puro di comunità, luogo di apertura salvifica
piuttosto che di mortifera chiusura. Il dialogo, intervallato da zone di
silenzio, rappresenta
infatti il limite
della comunità, ma anche la possibilità del superamento
del limite stesso. La consapevolezza di essere immersi
in un linguaggio inesauribile - sembra volerci dire
Buber - rappresenta la grande malinconia, ma anche la
vera forza che alimenta la speranza, che dà energia allo sforzo verso ciò che salva. In
fondo persino Mosè - insegna la tradizione rabbinica -
non poteva aprire che quarantanove porte della conoscenza,
la cinquantesima gli era stata interdetta!
Certo
linvito del filosofo a fare parte di questa comunità dialogica non è indolore.
Accettare di aprirsi di nuovo alla comunità come alla
propria originaria dimora vuol dire abbandonare labitudine
alla scorza protettiva di una conclusa totalità. Significa
lacerare la quiete per catapultarsi allesterno.
Significa esporsi nudi al mondo, donarsi senza riserve
fidandosi dellaltro o, meglio, affidandosi allaltro
come ad uno sconosciuto. Sporgersi verso il tu, riscoprirlo come essenziale
al proprio io,
eppure dovervi rinunciare: tutto questo può sembrare vertigine.
Ma è davvero possibile vivere fuori dal luogo
comune? Non è forse più rischioso per luomo
definire i margini della propria esistenza dentro una
monade senza porte e finestre, dove il proprio monologo consuma ogni possibilità
di parola a venire?