Ernest Jones, Gli ultimi giorni di Freud

Vita e opere di Freud di Ernest Jones (1953) è la più importante biografia del fondatore della psicoanalisi: un'opera che in tre volumi ricostruisce gli aspetti pubblici e privati della vita e dell'opera, gli affetti e le intese intellettuali, le passioni e le sofferenze. Diversi aspetti dell'opera di Jones sono stati ridimensionati o addirittura corretti da studi successivi (ad esempio il presunto isolamento di Freud), ma essa resta fondamentale per la quantità di notizie, molto spesso di prima mano.Nelle pagine seguenti Jones racconta gli ultimi giorni di vita di Freud. È degno di nota il fatto che lo stesso Jones giunse a completare la sua biografia di Freud negli ultimi giorni della sua vita.

In aprile [del 1939] Freud subì un colpo che sopportò male. Egli dipendeva molto dalle cure quotidiane del suo medico personale, Schur, nel cui giudizio aveva la massima fiducia e al quale era affezionato. Adesso si poneva a Schur un penoso dilemma: era stato chiamato il suo turno per gli Stati Uniti e non accettando metteva a repentaglio il proprio avvenire e quello dei suoi figli. Schur decise di approfittare e di fare un viaggio in America per ottenere i primi documenti per la naturalizzazione. Temporaneamente il suo posto fu preso dal dr. Samet e poi dal dr. Hamer, fisso rimanendo Exner. Durante la sua assenza ricevette regolarmente dei rapporti che non rivelarono peggioramenti gravi se non verso la fine del periodo.
Al ritorno trovò che le condizioni di Freud erano molto mutate: il suo aspetto aveva subito un peggioramento generale, era dimagrito e mostrava segni di apatia. Un'ulcera cancerosa attaccava la guancia e la base dell'orbita. Persino il suo migliore amico, quel sonno profondo che lo aveva così a lungo sostenuto, lo aveva ora abbandonato. Anna doveva ripetere varie volte per notte le applicazioni locali di ortoformio.
Tra gli ultimissimi visitatori venne uno dei primi amici analisti di Freud, Hanns Sachs, che giunse in luglio per dare quello che sapeva essere l'ultimo addio all'uomo che chiamava suo «maestro e amico». Sachs rimase particolarmente colpito da due constatazioni: una era che malgrado il disagio delle sue penose condizioni Freud non mostrava alcun segno di irritabilità o di lamentela, ma solo una totale accettazione e rassegnazione al proprio destino. L'altra era che persino così riusciva a interessarsi alla situazione in America mostrandosi perfettamente informato circa le persone e i fatti recenti dei circoli analitici esistenti. Proprio come Freud avrebbe potuto desiderare, la loro separazione definitiva avvenne in modo amichevole ma sobrio.
Freud, come tutti i buoni medici, era contrario all'uso di sostanze calmanti. Come disse una volta a Stefan Zweig: «Preferisco pensare tra i tormenti che non riuscire a pensare con chiarezza.» Ora però acconsentì a prendere occasionalmente una dose di aspirina, l'unico stupefacente che accettò fino al momento stesso della morte. Riuscì a continuare il suo lavoro analitico fino alla fine di luglio. Il 1° settembre andò a trovarlo per l'ultima volta sua nipote Eva, figlia di Oliver; egli amava in modo particolare questa graziosa fanciulla, che doveva morire cinque anni più tardi in Francia.
In agosto tutto precipitò rapidamente. Un sintomo terribile fu l'odore sgradevole che emanava dalla piaga: quando gli portavano la cagna chow, la sua favorita, questa si ritirava in un angolo lontano della stanza, esperienza da spezzare il cuore, che rivelò al malato a che punto fosse giunto. Diveniva sempre più debole e trascorreva il suo tempo in una sedia a sdraio nel suo studio dalla quale poteva vedere i suoi amati fiori in giardino. Leggeva i giornali e seguì gli avvenimenti del mondo fino alla fine. Sperava che l'imminente seconda guerra mondiale avrebbe significato la fine di Hitler. Il giorno in cui essa scoppiò vi fu un allarme aereo – un falso allarme, come si seppe poi -, mentre Freud giaceva nella sua poltrona in giardino: rimase assolutamente imperturbabile. Osservò con notevole interesse le precauzioni prese per mettere al riparo i suoi manoscritti e la sua collezione di antichità; ma quando annunciarono per radio che questa guerra sarebbe stata l'ultima e Schur gli chiese se ci credeva, rispose solo: «Comunque è la mia ultima guerra.» Gli riusciva difficile mangiare. L'ultimo libro che lesse fu Le peau de chagrin di Balzac, a proposito del quale commentò disgustato: «È proprio il libro per me. Parla della morte d'inedia», volendo piuttosto significare il graduale rinsecchimento, quel diventare sempre più piccini descritto in modo così terribile nel libro.
Eppure, malgrado questa agonia, non dette mai il minimo segno d'impazienza o d'irritabilità. Trionfarono sempre la filosofia della rassegnazione e l'accettazione di una realtà immutabile.
Il cancro rodeva la guancia verso l'esterno, aumentando la setticità della regione. Freud era esausto e soffriva in modo indescrivibile. Il 19 settembre mi chiamarono per dirgli addio. Lo chiamai per nome, perché era assopito; aprì gli occhi, mi riconobbe e agitò la mano; poi la lasciò ricadere con un gesto quanto mai espressivo che significava una quantità di cose: saluto, congedo, rassegnazione. Diceva nel modo più eloquente possibile: «Il resto è silenzio.» Non vi fu bisogno di scambiarsi alcuna parola. Dopo un istante si era riaddormentato. Il 21 settembre disse al suo medico: «Mio caro Schur, Lei ricorda il nostro primo colloqui: allora mi promise di aiutarmi quando non ce l'avrei più fatta. Adesso non è che tortura e non ha più senso.» Schur gli strinse la mano e promise di dargli sollievo adeguato; Freud lo ringraziò aggiungendo dopo un attimo di esitazione: «Dica ad Anna del nostro colloquio.» Niente emozione o autocompianto, solo realtà: una scena suggestiva e indimenticabile.
La mattina successiva Schur somministrò a Freud un terzo di grano di morfina. Per Freud, al grado di estenuazione in cui si trovava e così alieno agli oppiacei, questa piccola dose fu sufficiente. Sospirò con sollievo e sprofondò in un sonno tranquillo: evidentemente era agli estremi delle sue risorse. Morì poco prima della mezzanotte del giorno successivo, 23 settembre 1939. La sua lunga ed ardua vita era giunta alla fine; le sue sofferenze erano cessate. Morì come era vissuto: da realista.

E. Jones, Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, Milano 1962, vol. III, pp. 289-292.


Antonio Vigilante, Muntu. Percorsi nelle scienze sociali