Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione di Ernst Junger

Prefazione di Quirino Principe | Titolo originale: Der Weltstaat. Organismus und Organisation | Traduzione di Alessandra Iadicicco | © Ernst Klett, Stuttgart 1980© | 1998 Ugo Guanda Editore S.p.A.
Nel 1960, in un clima ancora teso di guerra fredda, Ernst Jünger concepisce l'idea di uno "Stato mondiale" come il punto verso cui sembra tendere il movimento sempre più rapido di trasformazione dell'ordine planetario. Con lucida antivegenza, Jünger riconosce il dilagare della globalizzazione tecnico-economica e individua una nuova categoria politica sulla base della quale ripensare l'ordine internazionale superando la tradizionale idea di nazione. La tecnica e l'economia, fenomeni di portata universale, producono effetti di crescente uniformazione, spingono verso una globalizzazione che sarà appunto sancita, politicamente, dallo Stato mondiale. La politica, come l'Eros, scrive Jünger, affonda le sue radici in strati più profondi di quello della ragione. Il nuovo stile politico sembra imporsi come un fenomeno cosmico, che sfugge al controllo e alla pianificazione dei soggetti: lo Stato mondiale sembra imposto di necessità da forze che travalicano lo spazio dell'umana libertà. "Alla fine lo Stato dispone tutto sullo stesso livello e attira verso di sé anche quelle esigenze che la natura desta negli uomini e nei popoli: le cure che ruotano e che sono ruotate da sempre, con l'avvicendarsi degli astri, attorno alla semina e alla raccolta, l'estate e l'inverno, le emergenze imposte dall'acqua, dal fuoco, dalla fame." L'uomo è coinvolto in questo processo non in quanto soggetto nelle proprie azioni, ma in quanto "figlio della terra."

Prefazione di Quirino Principe

Ernst Jünger, nel cui pensiero ricorre spesso l’idea di Schleife, di svolta elusiva, è stato egli stesso un’elusione della natura, e non soltanto per la sua longevità che nella sua sorprendente immagine fisica era soltanto un segno esteriore, ma soprattutto per la forza con cui il suo lavoro di scrittore resiste al tempo. Dopo ottantanni di milizia sul fronte della scrittura, la sua opera è come fuori dal tempo e dalla storia del Novecento, eppure pochi scrittori hanno decifrato con tanta operosità il nostro secolo ormai morente, i suoi tratti fisionomici e la selva dei suoi significati. In verità, non tanto di resistenza si deve parlare, quanto d’indipendenza. L’opera di Jünger resiste al tempo poiché dal tempo e nel tempo il suo autore non si è lasciato coinvolgere. Una qualità evidente degli scritti jüngeriani è un graduale spostarsi di tema in tema, come attraverso una tranquilla crescita organica, ma il percorso non è rettilineo: è piuttosto una spirale. O forse esiste in essi solta
nto una serie di pochi temi primari, davvero «massimi sistemi», che nel tempo si sono arricchiti l’uno dell’altro, illuminandosi a vicenda. Grazie a questo spostamento gravitazionale, lento in apparenza - agli occhi di chi legge Jünger da una vita - e in sé mobile e rapido, a volte fulmineo, sì da suggerire l’idea del moto degli astri, impercettibile eppure inesorabile per chi lo osservi da terra e velocissimo nella realtà fisica dello spazio, gli oggetti della riflessione Jüngeriana corrono lungo una spirale e ritornano. Così in questo libro, Lo Stato mondiale, ritorna a dieci anni di distanza l'esame radiografico cui Jünger aveva sottoposto nel 1950 la patologia nihilistica della politica in Oltre la linea, la celebre conversazione a distanza con Heidegger, ma ritornano anche, dopo ventotto anni, molti temi dell'Operaio, poi rivisitato di nuovo e più direttamente, nel 1964, in Maxima-Minima.

L’indipendenza dal tempo fa sì che lo stile di Jünger non suoni mai datato, ciò che viene addotto a povertà o addirittura a mediocrità e ad assenza di vero talento di scrittore da chi non ama Jünger. Tale indipendenza favorisce un’altra qualità, e almeno questa anche i più strenui ridimensionatori dovrebbero riconoscergli. È l’atteggiamento di Jünger verso la modernità, intesa essenzialmente come accelerazione del movimento. Dinanzi a questo tema, che nello Stato mondiale è centrale, l’autore assume lo stato d’animo che Tacito rivendicava a se stesso (Annales I, 1): sine ira et studio. Di rimbalzo, è la medesima condizione di spirito con cui un lettore deve affrontare questo libro. L’oggettività di Jünger (che invece altrove, come nel Trattato del ribelle, compie scelte di campo ultraradicali realizzandole sulla pagina con la retorica del sarcasmo e a volte con lo stile tragico) è qui addirittura imbarazzante. Egli può permettersi di mantenere con mano ferma la propria equidistanz
a di principio poiché l’oggetto privilegiato della sua osservazione non sono tanto i fenomeni quanto i sintomi, i segni, e, là dove si disegnano e si condensano, i simboli, più spesso intesi come immagini simboliche (il confine, la cortina di ferro, le gerarchie degli insetti) in cui prevale ancora la materia circostanziata e storicizzata, talora come più precise forme simboliche (il monumento, la stella bianca contrapposta alla stella rossa ma a essa identica nel rapporto tra linea e spazio).

Come sa anche il neofita jüngeriano ai primi passi, Jünger non ama il mondo trasformato dalla tecnica, ma della tecnica - e quindi del movimento e dell’accelerazione - ammira la terribile potenza. Il «canto delle macchine», oggetto di un indimenticabile capitolo del Cuore avventuroso in seconda versione, è spaventoso come un incubo infernale ma grandioso come una pagina corale di Ligeti. Nessun entusiasmo per la macchina e il macchinismo, naturalmente: reprima, il lettore, la minima fantasticheria su affinità tra Jünger e i futuristi. Ciò vale per ogni altro tema su cui si sarebbe tentati di fantasticare: la guerra (Nelle tempeste d’acciaio), la velocità (L’operaio). La tecnica non è innaturale. La mano non è stata inventata dall’uomo, ma le macchine sono gigantesche mani, più potenti della nostra corporea, e il loro fine è lo stesso che vorremmo raggiungere con i nostri arti, con le nostre deboli membra. Intesa come immensa protesi, la tecnica è una mano non meno vera della nostra picco
la mano naturale. La tecnica non è forse, anch’essa, «natura»?

Ben altra è la motivazione che induce Jünger a distanziarsi dalla modernità, e non in blocco, bensì nel discorso propriamente riferito allo Stato, all’organizzazione sociale e al dominio delle leggi sull’individuo: se ne distanzia con un tono definibile mediante un ossimoro, con dolorosa oggettività. L’accelerazione imposta dalla modernità al movimento allenta o aggroviglia, scioglie o recide i legami tra i segni e le cose, tra le parole e il loro significato simbolico, tra i fenomeni e le forme; anzi, rende impossibili le forme. Questo argomento è esposto subito, sin dalle prime pagine, con un’immagine solenne: l’uomo che siede e si erge in uno stato di quiete, il monumento. L’immagine è vanificata, o meglio, è stata progressivamente vanificata dalla modernità e dal moto di accelerazione che la contraddistingue. Così infatti Jünger apre il libro. Il monumento «sta», ma «dove stiamo oggi?» La domanda fa sorgere la controdomanda·. «Ma stiamo poi da qualche parte?» L’idea di «s
tare» è cancellata dal movimento, e potremmo aggiungere come chiosa al testo di Jünger la domanda che Marianne von Willemer, in una sua poesia, rivolgeva probabilmente all’amico e innamorato Goethe: Was bedeutet die Bewegung?, «Che cosa significa il movimento?» Il movimento, continua Jünger, non lo possiamo definire un «andare» né un «procedere» e nemmeno un «camminare» (ciò si adatterebbe al ritmo della Tradizione), bensì una crescente «accelerazione». Oggi il monumento è difficile: un oggetto che non trova posto nel paesaggio, poiché, essendo una forma simbolica, si trova fuori posto in un mondo che ha smarrito il sistema di significazione fondato su simboli universalmente riconoscibili. E anche qui noi aggiungiamo una chiosa: per motivi analoghi, oggi è impossibile un’arte «sacra» che abbia credibilità e bellezza, sia essa architettura o pittura o musica. Ciò avviene perché oggi l’uomo non è più insostituibile: nel paesaggio di officina sono in primo piano gli automi. Quest
a considerazione può suonare stridente in questi ultimi anni o in queste ultime manciate di mesi del Novecento, in pieno assetto postindustriale e terziario. Ma non si dica: «Ecco, allora ciò vuol dire che almeno in questo il discorso di Jünger è datato!» La forza dell’argomentazione è intatta, e il suo vigore si riadatta perfettamente a ciò che nel terziario informatizzato iuxta Internet sta riemergendo. L’orrore (ciò che oggi per noi è l’orrore) di uno Stato mondiale ne è accresciuto, essendo questa nuova forma di cancellazione dell’individualità e della libertà un mezzo dotato di un’ancor più tetra potenza di dominio.

Date simili premesse, Lo Stato mondiale prometterebbe di essere, a partire dalle prime pagine, un viaggio profetico nell’incubo che ci attende: lo Stato mondiale che, non avendo dinanzi a sé alternative né vie di fuga, diverrebbe un carcere assoluto e perpetuo. Ma la realtà, per fortuna, è dialettica senza che le ideologie della dialettica la rivestano di elaborati concetti. Ciò che avviene oggi a danno dell’individualità e della sua Gestalt nasce proprio da una radice di libertà. Nella formazione degli Stati, osserva Jünger, non è possibile rinvenire alcuna forma di progresso. Anzi, se rintracciamo i modelli ermeneutici dello Stato nelle gerarchie interne a ciascuna specie zoologica, a mano a mano che si sale nell’evoluzione animale la costituzione degli Stati sembra farsi più rara, e nell’uomo esse nascono soprattutto da atti di liberissima volontà, non da meccanismi istintivi. Lo Stato, e la tecnica che ne è strumento, trovano resistenza nella famiglia, nell’eros, e ciò significa for
se (ce lo domandiamo) che lo Stato è ma poteva non essere, e che il caso e la libertà, non la necessità, hanno indirizzato lo storia umana. «Lo specifico dell’uomo sta nella libertà del volere, il che vuol dire: nell’imperfezione. Sta nella possibilità di rendersi colpevole, di commettere un errore. La perfezione, al contrario, rende superflua la libertà; l’ordine razionale acquista la nettezza dell’istinto. Una delle grandi tendenze della pianificazione del mondo mira evidentemente a una tale semplificazione. Possiamo leggerlo nella natura come in un libro illustrato.» Ancora l’idea cara a Jünger: die Schleife, la svolta che elude. La conclusione del libro, noi non la accettiamo, ma proprio per questo Lo Stato mondiale è un capitale oggetto di discussione. L’argomentazione e la finalità dell’autore sono più che giuste; la profezia e il non celato desiderio turbano il lettore che oggi si affacci al nuovo millennio. La costrittiva oppressione che gli Stati esercitano, tale è il pensi
ero di Jünger in questo libro, nasce dal fatto che gli Stati sono molti.

L’oppressione è uno strumento del sospetto e della rivalità all’esterno: per difendersi dalle insidie di un potenziale nemico, ciascuno Stato mette in opera tremendi mezzi di coercizione all’interno. Così Jünger riprende il filo che aveva tenuto in mano nel suo contributo a Oltre la linea. «Non è sempre stato così, né, si spera, sarà sempre così in futuro. Quando lo Stato sulla terra era un’eccezione, quando era insulare, o unico nel senso dell’origine, gli eserciti combattenti erano superflui, stavano al di fuori dell’immaginazione. La stessa situazione deve presentarsi dove lo Stato diventa unico nel senso finale.» Lo spaventoso incubo, un mondo unificato dal cupo dominio, una verwaltete Welt in senso horkheimeriano, potrebbe dunque, grazie a un’ipotetica e possibile Schleife, convertirsi in un luminoso approdo. Ciò potrebbe realizzarsi purché l’individuo, in un mondo privo di forme simboliche, ne produca di nuove, privilegiando, rispetto all’organizzazione e all’ordine, la libertà.

Quirino Principe

LO STATO MONDIALE - Organismo e organizzazione

1 . La domanda: «Dove stiamo oggi?» fa innanzitutto sorgere la controdomanda: «Ma stiamo poi da qualche parte?» È evidente che ci troviamo in movimento e, precisamente, in una forma di movimento che non possiamo chiamare propriamente «andare», né «procedere» e nemmeno «camminare». Da tempo invece tale movimento si compie accelerando: in crescente accelerazione.

È un presupposto da cui non si può prescindere, se si vuole parlare dello stato delle cose. Si intende con ciò più che altro una posizione, in senso nautico. Si tratta più di una valutazione di curve che di punti; la rappresentazione del luogo dal quale siamo salpati e della meta verso cui siamo diretti è migliore di quella del presente nel quale ci troviamo. Non tanto, dunque, siamo esseri in stato di quiete, né in possesso di un patrimonio, quanto piuttosto organizzatori di piani, sempre coinvolti in grandi progetti; tutto questo si manifesta nella nostra tecnica, nelle nostre costruzioni e nei nostri giudizi.

L’occhio di chi giudica deve cogliere velocemente, sempre più velocemente, oggetti in movimento, a prescindere poi dal fatto che lo stesso soggetto del giudizio è in movimento. Il che moltiplica e acuisce i conflitti, da sempre originati dalla varietà dei caratteri e delle tradizioni, conflitti che non emergono soltanto nelle differenze di intenzioni e di opinioni, ma raggiungono gli strati più profondi del linguaggio: le parole diventano ambigue.

Non è possibile oggi pensare l’uomo come un essere immobile che si erge, siede o troneggia in quanto centro e corona della creazione, come fu spesso rappresentato dall’arte e dalla filosofia. Egli si trova in movimento, e precisamente in un movimento che non solo lo attraversa, ma che si compie nonostante e contro di lui. Una situazione di fatto cui è possibile connettere tanto timori quanto speranze.

2. In un mondo dominato da un grande movimento generale è necessario interrogarsi su ciò che è possibile e soprattutto sulla parte riservata alla libertà del volere. Chi abbia preso una posizione sicura rispetto a tale questione, o abbia semplicemente raggiunto un livello sufficiente di persuasione, dispone di una serie di determinazioni in diverse direzioni, teologiche, morali, giuridiche, e può servirsene per dar luogo a una serie di ordinamenti visibili.

Per natura l’uomo che siede o si erge in uno stato di quiete è avvolto da una più intensa aura di libera volontà rispetto a quello che si sposta ed è in movimento. Ciò si rende evidente nelle statue innalzate nell’agorà, nel foro, nelle grandi piazze rinascimentali e barocche: il giudice, il legislatore, il principe, il filosofo, il poeta, il condottiero, ma anche l’uomo dai buoni principi morali, ritratto in un qualsiasi momento della sua vita di uomo libero, rappresentano un punto centrale di quiete. Tale personaggio risulta credibile anche laddove si pone come simbolo di un centro situato al di sopra o al di là dell’umano. Senza che vi sia l’intento di rappresentare qualcosa, non è possibile erigere una statua, né è possibile che essa sopravviva nel tempo: anche un monarca come Luigi XIV, che potè dire: «Lo Stato sono io», era convinto di rappresentare un'altra potenza, che stava al di sopra di lui. Sul riferimento a tale istanza ulteriore si fonda l’autocoscienza dell’uomo che s
i sente dotato di libero volere. Questa forma di coscienza viene poi trasferita negli ordinamenti feudali, come fosse un bastone di comando che, passando da una mano all’altra, conferisce il potere a chi ne è in possesso. Il segno dell’autorità si imprime fin sul volto dell’ultimo pastore.

Come la luce si rende visibile solo nel buio, allo stesso modo la libertà del volere risalta rispetto a un altro elemento che le si oppone e la delimita. Senza questo Altro che le impone di forza un limite, la padronanza di sé diverrebbe addirittura grottesca, assurda, infame. È una delle ragioni per cui oggi è divenuto così difficile rappresentare non solo una figura immobile, in piedi, ma anche il volto di un uomo.

Tutto questo discorso non va interpretato, come si tende a fare di solito, come una questione di qualità o addirittura di morale. La statua di un Colleoni, che apprezziamo per la sua solida coscienza di sé, ci dice poco sul rango di colui che è rappresentato, molto invece sul suo tempo. Quella precisa posizione in cui è ritratto era possibile solo entro la cornice di un ordinamento insieme forte e delimitato, all’interno del quale l’uomo poteva sentirsi centro, indipendentemente dall’ampiezza maggiore o minore del cerchio su cui esercitava il suo potere.

Se nella seconda metà del XIX secolo il Rinascimento si sviluppò nella figura di una guida, questa nacque dal desiderio di un tempo in cui appunto tali figure mancavano. Essa derivò da una valutazione ex contrario, da una contraddizione tra il rappresentato e il rappresentante, evidente soprattutto in Burckhardt. Frattanto l’esperimento ha dimostrato che siamo divenuti incapaci di rappresentare una simile grandezza plastica.


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