Carl Schmitt (1888-1985) è considerato uno dei maggiori giuristi e politologi del nostro secolo. Le opere pubblicate negli anni '20 e '30 hanno contribuito in maniera notevole all'ascesa del nazismo. Processato dopo il secondo conflitto mondiale per la sua collaborazione con il regime hitleriano, trascorse un anno in prigione. Rilasciato nel 1947 si rifugiò a Plettenberg, suo paese natio, dove trascorse l'ultima parte della sua vita nella "sicurezza del silenzio" pubblicando, a partire dagli anni '50, saggi e volumi di teoria costituzionale e politica, di storia e scienza politica e di varia umanità. Tra le sue opere in lingua italiana ricordiamo: Le categorie del politico, Bologna 1972; Amleto e Ecuba, Bologna 1983; Ex captivitate salus, Milano 1987.
Titolo originale: Geschpräch über die Macht und den Zugang zum Machtaber | Traduzione di José Scanu | Copyright © 1954, Gunther Neske, Pfullingen | Copyright © 1990, il melangolo s.r.l. Genova
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INTERMEZZO: BISMARCK E IL MARCHESE POSA

La battaglia per il corridoio, per l'accesso al vertice del potere, è una battaglia particolarmente intensa, attraverso la quale si compie la dialettica interna del potere e dell 'impotenza umani. Dobbiamo avere sempre davanti agli occhi questo stato di cose senza retorica e sentimentalismo, ma anche senza cinismo o nichilismo. Perciò desidero illustrare il problema con due esempi.

Il primo esempio è un documento di storia delle istituzioni: le dimissioni di Bismarck del marzo 1890, che egli riferisce in modo dettagliato nel terzo volume di Pensieri e ricordi. Tutto sommato, nella sua impostazione, nella successione delle idee e nel tono, in ciò che è detto come in ciò che è taciuto, si tratta dell'opera ben ponderata di un grande maestro dell'arte di governo. Fu l'ultimo atto ufficiale di Bismarck e venne delineato e stilizzato con la massima riflessione come un documento redatto per i posteri. Il vecchio ed esperto Cancelliere del Reich, il creatore dell'Impero, si confronta con l'inesperto erede, il giovane Re e Imperatore Guglielmo II. Tra i due esistevano molti contrasti concreti e molte divergenze di opinione su questioni di politica interna ed estera. Ma il nocciolo delle dimissioni, il punto saliente, fu una questione di forma: come può informarsi il cancelliere e come deve informarsi il re e imperatore. Bismarck pretendeva piena libertà, in relazione alle persone con cui
si intratteneva e che riceveva come ospiti in casa sua. Al re e imperatore negava però il diritto di ascoltare il rapporto di un ministro, se egli, Bismarck, Presidente del Consiglio dei Ministri, non era presente. Così il problema di un rapporto diretto al re diviene il motivo centrale delle dimissioni di Bismarck. Con quest'evento inizia la tragedia del Secondo Reich. Il problema del rapporto al re è il punto centrale di ogni monarchia, soprattutto perché è il problema dell'accesso al vertice. Anche il barone von Stein si esaurì nella lotta contro i consigli segreti di gabinetto. Anche un Bismarck dovette naufragare nel vecchio ed eterno problema dell'accesso al vertice.


Il secondo esempio lo possiamo trarre dal poema drammatico Don Carlos. Qui un grande drammaturgo esamina l'essenza del potere. La trama del dramma ruota intorno alla questione: chi ha accesso diretto al re, al monarca assoluto Filippo II? Chi lo ha, partecipa del suo potere. All'inizio del dramma, il confessore e il Generale, il duca d'Alba, tengono occupata l'anticamera del potere e bloccano in tal modo ogni accesso al re. In seguito appare un terzo personaggio, il marchese Posa, e i due avvertono immediatamente il pericolo. In chiusura del terzo atto il dramma giunge al massimo punto di tensione nell'ultima frase, quando il re ordina: "Il cavaliere" - cioè il marchese Posa - "sia ammesso in futuro e senza annuncio!" Questo comando provoca un grande effetto drammatico, non solo sugli spettatori, ma su tutti i protagonisti del dramma. "Questo è veramente troppo" - dice Don Carlos, quando lo viene a sapere -"troppo, veramente troppo", e il confessore Domingo dice tremante al Duca d'Alba: "I nostri tempi sono
tramontati". Dopo questo apice ha inizio la rapida svolta che precipita il dramma in tragedia. Infatti, non appena riesce a trovare un accesso diretto al potente, lo sfortunato marchese Posa viene colpito a morte. Ignoriamo come sarebbero andate le cose con il confessore e il Generale, se avesse potuto riaffermare la sua posizione con il re.

4.

C.S. Questi esempi possono anche essere efficaci, ma non dimentichi in quale contesto vanno collocati rispetto al nostro problema; ossia come un momento della dialettica interna del potere umano. C'è ancora qualche altra domanda di cui potremmo allo stesso modo discutere, ad esempio l'enorme problema della successione nel potere, sia questa dinastica o democratica oppure Carlsmatica. Ma cerchiamo ora di chiarire meglio in che cosa consiste questa dialettica.

G. Io vedo sempre splendori e miserie dell'uomo; lei parla sempre di dialettica interna. Perciò desidero porre una domanda molto facile: quando il potere, quello che viene esercitato dagli uomini, non deriva più né da dio né dalla natura ma è un affare interno all'uomo, è buono o cattivo, oppure che cos'altro è?

C.S. Questa domanda è più pericolosa di quanto Lei possa supporre. Poiché la maggior parte degli uomini risponderanno con la più grande naturalezza: il potere è buono quando io lo posseggo ed è cattivo quando lo ha il mio nemico.

G. Noi diremmo piuttosto così: il potere non è di per sé né buono né cattivo; è neutro; è ciò che l'uomo ne vuol fare; nelle mani di un uomo retto è buono, nelle mani di uno malvagio è cattivo.

C.S. E chi decide, nel caso concreto, chi è un uomo buono e chi uno cattivo? Il detentore del potere oppure un altro? Il possesso del potere conferisce a chi lo detiene il diritto di decidere su questo argomento. Questa decisione è parte integrante del suo potere. Se è un altro a decidere, quest'altro o ha già il potere o in ogni caso lo rivendicherà.

G. Allora il potere per se stesso può sembrare del tutto neutrale.

C.S. Chi crede in un dio onnipotente e buono, non può interpretare il potere né come cattivo né come neutro. L'apostolo della Cristianità San Paolo, - come tutti sanno - dice nella Lettera ai Romani: "tutto il potere proviene da Dio".

Il Santo Padre Gregorio Magno, l'archetipo del pastore dei popoli, si esprime su questo tema con la più grande chiarezza e decisione: stia a sentire che cosa dice: Dio è la più grande potenza e l'essere supremo. Tutto il potere viene da lui ed è per sua natura divino e buono. Se il diavolo avesse il potere, in quanto potere, esso sarebbe divino e buono. Solo la volontà del diavolo è malvagia. Ma nonostante questa volontà, sempre malvagia e diabolica, il potere di per sé rimane divino e buono. Così San Gregorio Magno afferma che solo la volontà rispetto al potere è malvagia, ma il potere stesso è sempre buono.

G. Questo è francamente incredibile. Mi pare più chiaro Jacob Burckhardt, che ha detto, com'è noto: "Il potere è in sé malvagio".

C.S. Vediamo un po' più da vicino questa osservazione del Burckhardt. Il passo più decisivo delle sue osservazioni sulla storia universale asserisce infatti:

E allora si rivela - si pensi perciò a Luigi XIV, a Napoleone o ai regimi rivoluzionari - che il potere è di per sé malvagio (Schlos- ser), che senza rispetto per una qualsiasi religione, il diritto all'egoismo, che normalmente si attribuisce al singolo, appartiene in realtà allo Stato.

L'editore delle Osservazioni sulla Storia universale di Burckhardt, Neffe Jacob Oeri, ha aggiunto il nome di Schlosser tra parentesi, come documento o come autorità.

G. Schlosser, un cognato di Goethe!

C.S. Il cognato di Goethe si chiamava Hans Georg Schlosser. Qui è chiamato in causa Friedrich Christian Schlosser, autore di una storia universale scritta con intenti edificanti ed umanitari, che Jakob Burckhardt citava volentieri nelle sue conferenze. Ma entrambi o, a mio avviso anche tutti e tre insieme, Jakob Bur- chkardt e i due Schlosser, non arrivano affatto a eguagliare Gregorio Magno.

G. Ma non viviamo più nell'Alto Medioevo! Son sicuro che oggi Burchkardt risulta più illuminante di Gregorio Magno per la maggioranza degli uomini.

C.S. Evidentemente dai tempi di Gregorio Magno qualcosa di essenziale è mutato nei nostri rapporti con il potere. Ma anche ai tempi di Gregorio Magno c'erano guerre ed orrori di tutti i tipi. D'altra parte i detentori del potere - ai quali va riferita secondo Burchkardt la malvagità del potere - sono Luigi XIV, Napoleone e i regimi rivoluzionari francesi intesi come figure archetipe dei detentori contemporanei del potere.

G. Non erano ancora motorizzati e di bombe all'idrogeno non ne sapevano nulla.

C.S. Possiamo considerare Schlosser e Burckhardt non proprio santi, ma almeno uomini devoti e pii, che non hanno sostenuto con leggerezza le loro tesi.

G. Com'è allora possibile, che un uomo pio del VII secolo ritenga il potere benevolo, mentre uomini devoti del XIX e del XX secolo lo ritengono malvagio? Deve essere allora cambiato qualcosa di sostanziale.

C.S. Credo che nell'ultimo secolo l'essenza del potere umano si sia svelata a noi in un significato del tutto particolare. Infatti è strano che la tesi della malvagità del potere si sia diffusa proprio a partire dal XIX secolo. Avevamo pensato di aver risolto o almeno appianato il problema del potere, affermando che il potere non proviene né da dio né dalla natura, ma piuttosto da un patto che gli uomini stipulano fra loro. Che cosa dovrebbe ancora temere l'uomo, se dio è morto e il lupo non è altro che uno spauracchio per bambini? Ma proprio dall'epoca in cui questa umanizzazione del potere sembra essersi definitivamente realizzata - e cioè dalla Rivoluzione Francese - dilaga irresistibilmente la convinzione che il potere sia in sé malvagio. Il detto dio è morto e l'altra enunciazione Il potere è in sé malvagio derivano entrambi dallo stesso periodo storico e dalla stessa situazione, vogliono dire la stessa cosa.

5.

G. Questo esige un'ulteriore spiegazione.

C.S. Per capire veramente l'essenza del potere umano, come si manifesta nella nostra situazione attuale, conviene ricorrere a una relazione che ha trovato l'inglese Thomas Hobbes, già citato in precedenza come il maggiore tra i filosofi moderni del potere. Egli ha espresso e determinato questa relazione con ogni esattezza e noi la chiameremo "relazione hobbesiana di pericolosità". Dice Hobbes: "L'uomo è nei confronti dell'altro uomo, dal quale crede di essere messo in pericolo, molto più pericoloso di qualsiasi animale, dato che le armi dell'uomo sono più pericolose di quelle dell'animale". Questa è una relazione chiara e determinata.

G. Anche Oswald Spengler ha osservato che l'uomo è un rapace.

C.S. Mi perdoni! La relazione di pericolosità, che Thomas Hobbes formula, non ha nulla a che vedere con la tesi di Spengler. Hobbes presuppone al contrario, che l'uomo non sia affatto un animale, ma qualcosa di diverso, per un verso un po' di meno, per altro verso un po' di più. L'uomo è capace di compensare, anzi di sovracompensare in modo incredibile la sua debolezza e la sua insufficienza biologiche grazie alle scoperte tecnologiche. Ora, faccia attenzione. Nel 1650, quando Hobbes espresse questa relazione, le armi dell'uomo -arco e frecce, ascia e spada, fucili e cannoni - erano già di molto superiori e più pericolose rispetto alle zampe di un leone o alle fauci di un lupo. Oggi, però, la pericolosità dei mezzi tecnologici è cresciuta a dismisura e altrettanto, proporzionalmente, è cresciuta la pericolosità dell'uomo per gli altri uomini. Perciò la differenza tra potere e mancanza di potere è cresciuta in modo così illimitato che ci costringe a porre la questione dell'uomo in modo nuovo.

G. Non mi convince.

C.S. Ascolti. Chi è oggi veramente l'uomo? Colui che produce questi moderni mezzi di annientamento e li usa o colui contro il quale sono usati? Se si dice che il potere, come la tecnologia stessa, di per sé non è né buono né cattivo ma neutro e che il potere altro non è se non ciò che l'uomo trae da esso, ci si trova in un vicolo cieco. Questa conclusione ci pone di fronte a una difficoltà insormontabile: chi decide in questo caso sul bene e sul male? Il potere dei moderni mezzi d'annientamento supera la forza dell'individuo umano che li inventa e li usa, così come le possibilità delle macchine e delle tecniche moderne aumentano la forza dei muscoli e del cervello umano. In questa stratosfera, in questo campo di ultrasuoni, la buona o la cattiva volontà dell'uomo non hanno più diritto di cittadinanza. Il braccio dell'uomo che regge la bomba atomica, il cervello dell'uomo che innerva i muscoli di questo braccio umano, non è tanto - nel momento decisivo - un arto del singolo individuo, quanto piutt
osto una protesi, una parte dell'apparato tecnico e sociale che produce la bomba atomica e decide di usarla. Il potere individuale è qui solo il risultato di una situazione, è disarmato, senza risorse di fronte a un sistema di incalcolabile, eccessiva divisione del lavoro.

G. Ma non è un fatto grandioso il nostro ingresso nella stratosfera, oppure nel campo degli ultrasuoni o nello spazio interplanetario, il fatto di avere macchine che calcolano più velocemente e meglio di ogni cervello umano?

C.S. In questo "noi" si cela la vera domanda. Non è più l'uomo come uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui. Superando il confine della natura umana essa trascende anche tutte le norme che possono regolare il potere umano e le relazioni tra gli uomini. Questa reazione a catena travolge anche il rapporto tra protezione e obbedienza. Molto più della tecnica, il potere è sfuggito dalle mani degli uomini e gli uomini che esercitano il potere sugli altri con l'ausilio di tali mezzi tecnologici, non sono più in relazione con coloro che si trovano esposti al loro potere, non sono più con loro in un rapporto diretto, non vivono più in un contesto "umano".

G. Ma coloro che scoprono e producono i moderni mezzi di annientamento sono pur sempre uomini.

C.S. Anche rispetto a loro il potere che pure hanno prodotto è una grandezza obiettiva, autonoma, che supera infinitamente la ristretta capacità fisica, intellettuale e spirituale del singolo inventore umano. L'inventore, mentre scopre questi mezzi d'annientamento, lavora in realtà, senza rendersene conto, alla nascita del nuovo Leviatano. Lo stato europeo moderno, ben organizzato, del XVI e XVII secolo era un prodotto artificioso della tecnica, un superuomo costruito dall'uomo e composto dall'uomo, il quale nella figura del Leviatano come màkros ànthropos come grande uomo, sovrasta con il suo superpotere i piccoli uomini che lo hanno prodotto, e cioè il mìkros ànthropos, il singolo individuo. In questo senso lo stato europeo ben funzionante è stato la prima macchina moderna e allo stesso tempo il concreto presupposto di tutte le macchine del futuro, è stato la macchina delle macchine, la machina machinarum, un superuomo composto dall'uomo, che attraverso il consenso umano ottiene successo e proprio nel momento in cui è, trascende ogni consenso umano. Proprio perché qui si tratta di un potere organizzato dagli uomini, Burckhardt lo sente come negativo in sé. Perciò si indirizza con la sua famosa affermazione non a Nerone né a Gengis Khan, ma ad un tipico potente europeo dell'età moderna: Luigi XIV, Napoleone, o i regimi popolari rivoluzionari.

G. Forse altre invenzioni scientifiche potrebbero cambiare tutto e ricondurre l'umanità all'ordine.

C.S. Sarebbe bello. Ma come vuole mutare l'ordine delle cose, dato che potere e debolezza oggi non stanno più faccia a faccia e non si riconoscono più da uomo a uomo? Le masse, che si sentono esposte, impotenti all'azione dei moderni mezzi di annientamento, sanno innanzitutto di essere prive di potere. La realtà del potere passa sopra la realtà dell'uomo. Io non dico che il potere dell'uomo su un altro è buono. Non dico neanche che è cattivo. Dico però che è neutro. E mi vergognerei come essere pensante di dire che è positivo, se sono io ad averlo e negativo se a possederlo è il mio nemico. Mi limito ad affermare soltanto che il potere è per tutti, anche per il potente, una realtà a sé stante e lo trascina nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di potere, più forte di ogni bontà umana e fortunatamente anche di ogni malvagità umana.

G. È dunque rassicurante sapere che il potere come grandezza oggettiva, è più forte di tutta la malvagità dell'uomo che esercita il potere; ma d'altro canto è poco rassicurante sapere che è anche più forte della bontà dell'uomo. Questo non mi piace affatto. Spero che lei non sia un seguace di Machiavelli.

C.S. Non lo sono affatto. Del resto Machiavelli stesso non era un seguace del machiavellismo.

G. Un paradosso.

C.S. Molto vero. Se Machiavelli fosse stato un seguace di se stesso, allora non avrebbe scritto proprio alcun libro che lo potesse mettere in cattiva luce. Avrebbe pubblicato libri più edificanti, nella migliore delle ipotesi un Antimachiavelli.

G. In questo caso sarebbe stato più astuto. Ma avrebbe dovuto dare indicazioni pratiche per la sua interpretazione. Che cosa possiamo fare realmente?

C.S. Cosa possiamo fare? Ricorda l'inizio della nostra conversazione? Allora mi ha posto delle domande: se io stesso avessi potere oppure no. Ora possiamo ritorcele contro di lei, chiedendole: ha potere o non ne ha alcuno?

G. Evidentemente volete eludere la mia domanda che verte sugli aspetti pratici del nostro discorrere del potere.

C.S. Al contrario, io voglio soltanto dare una risposta sensata alla sua domanda. Chi si informa sulle applicazioni pratiche in relazione al potere, introduce una differenza essenziale che lo coinvolge direttamente sia che abbia il potere sia che non ce l'abbia.

G. Certamente. Ma lei ripete sempre che il potere è qualcosa di oggettivo, è più forte di ogni uomo che lo possiede. Mi dia qualche esempio di intervento pratico.

C.S. Ce ne sono talmente tanti, sia per colui che ha il potere come per colui che non ce l'ha. Infatti sarebbe già un grande successo determinare il potere reale quando si manifesta apertamente e visibilmente sulla scena politica. Al potente vorrei per esempio consigliare di non apparire mai in pubblico con indumenti ministeriali o simili. Ad uno senza potere direi: non credere di essere buono per questo motivo, perché non hai alcun potere. E se soffre - di non avere alcun potere -vorrei ricordargli che la volontà di potere è altrettanto distruttiva della volontà del piacere o di altre cose che accrescono la nostra forza e il nostro potere. Ai membri d'una assemblea costituente raccomanderei il problema dell'accesso al vertice, affinché non ritengano di poter organizzare il governo del loro paese secondo un qualsivoglia modello e non intendano l'organizzazione del potere come una semplice, già nota organizzazione del lavoro. In breve, come vede, ci sono molte indicazioni pratiche.

G. Ma l'uomo? Dov'è l'uomo?

C.S. Tutto ciò che un uomo - con o senza potere -pensa o fa, trascende il corridoio della consapevolezza umana e delle possibilità individuali dell'uomo.

G. Allora l'uomo è per l'uomo un uomo!

C.S. È questo infatti. In ogni caso in modo soltanto concreto. Ciò significa ad esempio: l'uomo Stalin è per l'uomo Trotzski uno Stalin; e l'uomo Trotzski è per l'uomo Stalin un Trotzski.

G. È dunque questa la sua ultima parola?

C.S. No. Con ciò io voglio solo dirLe, che la bella formula: l'uomo è per l'uomo un uomo - homo homini homo - non è una soluzione ma solo l'inizio del nostro problema. Intendo ciò in modo critico, ma sento anche di poterlo affermare in senso positivo, richiamando alla mente un grande verso: Certo, essere uomini, resta pur sempre una decisione. E questa può essere la mia ultima parola.

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SGUARDO SUL PERCORSO DEL DIALOGO

Inizio
1. Avvio: l'uomo non è un lupo / né un dio / ma un uomo
2. Un passo avanti: il consenso genera potere / il potere genera consenso
3. Un arresto momentaneo: l'anticamera del potere e il problema dell'accesso al vertice

INTERMEZZO: Bismark e il Marchese Posa

4. Una domanda semplice: il potere è per sé buono / cattivo / o neutro?
5. Un risultato chiaro: il potere è più forte del bene / o della malvagità / o della neutralità dell'uomo
Conclusione