Queste righe erano appena state scritte quando, come per contraddirle clamorosamente, il governo intentò i processi contro la stampa del 1858. Quell'inopportuna interferenza nella libertà di discussione pubblica non mi ha tuttavia indotto a cambiare una singola parola, né ha in alcun modo indebolito la mia convinzione che, eccezion fatta per i momenti di panico, nel nostro paese l'era delle pene e sanzioni per la discussione politica è finita. Infatti, in primo luogo, i processi non furono portati a termine, e in secondo, non furono mai, a stretto rigor di termini, processi politici. L'accusa non era di aver criticato le istituzioni o gli atti o le persone dei governanti, ma di aver diffuso quella che veniva ritenuta una dottrina immorale, la legittimità del tirannicidio. Se le argomentazioni di questo capitolo hanno una qualche validità, dovrebbe esservi la più piena libertà di professare e discutere, in quanto questione di convinzioni etiche, qualsiasi dottrina, per quanto immorale venga considerata. Sarebbe quindi irrilevante e fuori luogo discutere qui se la dottrina del tirannicidio meriti tale appellativo. Mi limiterò a dire che la questione è sempre stata uno dei problemi aperti della morale; che l'eliminazione, da parte di un privato cittadino, di un criminale che innalzandosi al di sopra della legge si è sottratto alla punizione e al controllo legali, è stata considerata da intere nazioni, e da alcuni degli uomini migliori e più saggi, non un delitto ma un atto di elevata virtù; e che il tirannicidio, giusto o sbagliato che sia, non ha attinenza con l'omicidio, ma con la guerra civile. In quanto tale, ritengo che l'istigazione a esso, in un caso specifico, possa legittimamente essere punita, ma solo se è stata seguita da un atto manifesto, e se si può stabilire una connessione almeno probabile tra i due. E anche in questo caso non è un governo straniero ma solo il governo specificamente aggredito che, esercitando l'autodifesa, può legittimamente punire gli attacchi alla propria esistenza.

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