Fonte
- ECOriflessioni a cura di Roberta Marzola
Manifesto del doposviluppo
di Serge Latouche
La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita
ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale.
Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò
nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova
rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel
mondo (1).
Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da
una riflessione critica sui presupposti dell'economia e
sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente
riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud
portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano
economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si
sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue
diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono
mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive
dunque nel più amppio movimento dell'International
Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD)
e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio
1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così
cominciato.
Il movimento mette al centro della sua analisi la critica
radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni
formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in
seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione.
Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire
dallo sviluppo e dall'economicismo e, dall'altro, quelli
che militano per un problematico "altro" sviluppo
(o una non meno problematica "altra" globalizzazione).
A partire da questa critica, la corrente procede a una vera
e propria "decostruzione" del pensiero economico.
Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita,
povertà, bisogno, aiuto ecc.
Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono
in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale
e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso
il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi
possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla
costruzione di una società veramente alternativa
alla società di mercato. Rimettere radicalmente in
questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione
cognitiva, e questa è la condizione preliminare del
sovvertimento politico, sociale e culturale.
Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità
dove siamo stati relegati finora e il grande successo del
colloquio di La ligne d'horizon (2), "Défaire
le développement, refaire le monde", che si
è tenuto presso l'UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo
2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze.
Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare
le menti
Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che
il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere
una società nella quale i valori economici non siano
più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa
al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non
come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa
verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è
solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle
condizioni di vita sulla Terra ma anche e soprattutto per
fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale.
Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario
e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili
per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del
mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il
vedere le cose in altro modo perché possano diventare
altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente
originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro
della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere
che l'espansione della produzione e del consumo.
La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza
e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa
ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento
mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza
come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione
alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della
complicità e della collaborazione con quella impresa
dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello
sviluppo.
Illusioni e rovine dello sviluppo
La attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo
è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa
è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente
e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica.
Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro
che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la
nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro
che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene
dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo
come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come
una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni
degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare,
di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali
e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli,
è -come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione
che la segue- un'opera al tempo stesso economica e militare
di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente
esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che
causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione,
sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi
ecc.
Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto
in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo
contrario, in particolare l'insieme delle esperienze storiche
e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero
degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare,
non ha alcun significato utile per promuovere una politica,
ed è meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso
ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente
ciò che possiede in comune con l'avventura occidentale
del decollo dell'economia così come si è organizzata
dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni
1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che
gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello
sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione
del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che
si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli
sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato
a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo
di produzione capitalistico. Gli antagonisti di "classe"
sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori"
comuni ampiamente condivisi: il progresso, l'universalismo,
il dominio della natura, la razionalità quantificante.
Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare
il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali
profonde. Sono legati alla storia dell'Occidente e trovano
scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti
che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente sprovvista
di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente
impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi
valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna
rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi
del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le
quali l'economia mondiale ci trascina. Il doposviluppo è
al contempo postcapitalismo e postmodernità.
I nuovi aspetti dello sviluppo
Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi
dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo aggettivato.
Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti,
endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici,
autonomi e popolari, equi
senza parlare dello sviluppo
locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo, dell'etnosviluppo!
Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si
tratta veramente di rimettere in discussione l'accumulazione
capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere
un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita
economica come un tempo si è potuto aggiungerle una
dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello
sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno
la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò
si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo
in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione è
stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo.
Questo mostro è solo una chimera, poiché il
male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione
che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione
stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo
perché lo sviluppo significa buona crescita, perché
anche la crescita è un bene contro il quale nessuna
forza del male può prevalere.
È l'eccesso stesso delle prove del suo carattere
benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale
e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati
di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a
far entrare una parte di sogno nella dura realtà
della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora
lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello
sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti
canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo
del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole
è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento
di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento
di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole,
sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta
alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale
"fai da te" concettuale, che cambia le parole
invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale
con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo,
con il suo successo universale, attesta la dominazione della
ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo
non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del
Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata
dell'espertocrazia volontarista non ha più successo,
il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità
materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente
resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica
economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in
questo paradigma per il rispetto della natura reclamato
dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato
dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora
nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come
un miraggio.
Oltre lo sviluppo
Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre
l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso
di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare
un problema accademico. È parlare della situazione
di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi
o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque,
per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia,
e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia
della Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi
e si annuncia nella diversità.
Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale.
Si tratta della ricerca di modalità di espansione
collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere
materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale.
L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a
seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire
nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato
l'humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khald?n, swadeshi-sarvo-daya
(miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in
Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i toucouleurs,
o in altro modo. L'importante è esprimere la rottura
con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome
di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi,
per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto
di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità
inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono
trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono
la speranza di un doposviluppo. Bisogna al tempo stesso
pensare e agire globalmente e localmente. È solo
nella mutua fecondazione dei due approcci che si può
tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive
immediate. Il doposviluppo e la costruzione di una società
alternativa non si declinano necessariamente nello stesso
modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale
come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili
attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente
sono prospettive complementari.
Decrescere e abbellire
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per
preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo
di giustizia sociale senza la quale il pianeta è
condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza
biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti
del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema
di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità,
ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri
attualmente viventi dell'umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore.
La saggezza tradizionale considerava che la felicità
si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente
limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle
società antiche si integravano in una riproduzione
allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.
Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare
all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che
di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità
possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera
ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in
un mondo sano può ottenersi con serenità nella
frugalità, nella sobrietà e addirittura con
una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come
fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo
insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui
movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto
per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge
un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare
la decrescita per la decrescita.
In particolare, la decrescita non è la crescita negativa.
Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda
le nostre società nel disordine con riferimento alla
disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali
e ambientali che assicurano un minimo di qualità
della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe
un tasso di crescita negativa! Allo stesso modo non c'è
cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro
e, peggio ancora, di una società della crescita senza
crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto
in una "società di decrescita". Ciò
presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero
è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni
sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti
inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato
al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente,
è una condizione preliminare. Ispirandosi alla carta
su "consumi e stili di vita" proposta al Forum
delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto
in un programma di sei "R": rivalutare, ristrutturare,
ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi
sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso
di decrescita conviviale e sostenibile. Rivalutare significa
rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo
la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono
essere cambiati. Ristrutturare significa adattare la produzione
e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori.
Per ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze
e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire
diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre
e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare
gli oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente
riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.
Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista
e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare
di un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine
non fosse troppo alternativo.
Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente,
di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci
ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della
qualità della vita e non a una crescita illimitata
del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei
paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua
potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani.
Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del
sapore degli alimenti che mangiamo. C'è ancora molta
strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore,
per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e
la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale
e culturale dell'umanità, senza parlare dei progressi
da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma
è parte integrante dell'ideologia del progresso e
presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle
quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci
come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che
reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso
e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo
per l'esercizio della cittadinanza.
Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle
conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta
tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto
di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione,
dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico,
economico e culturale. La riappropriazione delle loro identità
è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni
appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione
di certe colture destinate all'esportazione (caffè,
cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi
di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come
può risultare necessario aumentare la produzione
delle colture per uso alimentare. Si può pensare
inoltre a rinunciare all'agricoltura produttivista come
al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali,
ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare
l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc.
Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può
assumere per loro la costruzione del doposviluppo.
In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo
può ne deve apparire come una impresa paternalista
e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di
colonizzazione (ecologista, umanitaria
) Il rischio
è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati
hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario
economico, e in particolare l'immaginario dello sviluppo,
è senza dubbio ancora più pregnante al Sud
che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza
a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi
del male. Penano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere
la povertà quando è proprio lei che la genera.
Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione;
continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del
problema.
Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna
limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione
di una vita festosa o addirittura dionisiaca.
Sopravvivere localmente
Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni
alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità
neorurali, LETS e SEL (3), autorganizzazione degli esclusi
del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere
o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto
come forme di resistenza e di dissidenza al processo di
aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare
di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare
in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme
di queste iniziative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative
è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno
trovato all'inizio invece di lavorare alla costruzione e
al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa
alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è
e dev'essere diverso dal mercato mondializzato. È
questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere,
conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza.
Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la
propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna
militare per allargare e approfondire una vera società
autonoma ai margini dell'economia dominante.
Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita
e spesso sleale non è l'universo dove di muove e
deve muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare
una vera democrazia associativa per sfociare in una società
autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte
le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete
dei "collegati" è la base del successo.
L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è
il segreto del successo e deve essere il primo pensiero
delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta
una vera alternativa al sistema.
Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici
di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando
in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere
in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di lavorare
o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi
della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo
una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata
e dell'esclusione massiccia dei perdenti.
Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni
di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne milioni e milioni
di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale,
soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli
nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa
è spesso una condizione di sopravvivenza. I "naufraghi
dello sviluppo", abbandonati a loro stessi, condannati
nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per
restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica.
Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente,
un altro sistema, un'altra vita.
Questa seconda forma dell'altra società non è
totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni.
Innanzitutto, perché l'autorganizzazione spontanea
degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea.
Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che
informano più o meno questi "fai da te"
della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente,
gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità
di scegliere. Anch'essi sono spesso degli esclusi, degli
abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla
disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgusto
Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due
forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa
coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti
che François Partant attribuiva alla sua proposta
centrale:
dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti
coloro che lo desiderano la possibilità di vivere
del loro lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di
mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò
di cui ritengono di aver bisogno (4).
Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili
passa per la presa di coscienza del significato storico
di queste iniziative. Numerose sono già state le
riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese
alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare
le capacità di recupero del sistema. Per contrastare
la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a
cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra
essenziale per condurre la battaglia del buon senso.
Note
1 Il numero speciale della rivista «LÉcologiste»,
Défaire le développement, refaire le monde
(II, n.4, inverno 2001-02), fa il punto sulla questione.
2 La ligne dhorizon. Les amis de François Partant,
7 villa Bourgeois, 92240 Malakoff.
3 Rispettivamente Local Exchange Trading System (Gran Bretagna)
e Systèmes déchanges locaux (Francia):
sistemi di scambi locali di beni e servizi che non ricorrono
al denaro, come le banche del tempo.
4 F. Partant, La ligne dhorizon, La Découverte,
Paris 1988, p. 206(tratto da www.decrescita.it)
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