estratto da: Lo specchio in frantumi. Miti
e mitologie del sentire politico della modernità,
In corso di pubblicazione presso Giappichelli editore, Torino
(Fonte)
Roberto Moro
Definizione, caratteristiche e limiti della
modernità
La modernità e i disagi della modernità
Al capolinea del Secondo millennio il discorso sulla modernità
è ineludibile, coinvolge tutti gli ambiti della cultura,
confonde le discipline, sovverte le genealogie sino a fare
della molteplicità dei dibattiti e degli innumerevoli
problemi che essi suscitano, il problema. È innanzi
tutto un discorso interiore, una tensione quotidiana della
coscienza e dell'esperienza sempre presente e ovunque diffusa,
cosicché questo libro che da essi principia è
destinato a confluire, e rischia di perdersi, in una vasta
biblioteca il cui titolo potrebbe essere la «crisi»
o, per evitare ogni drammatizzazione, «il disagio della
modernità» (1).
Ridotto all'osso, e facendo giustizia sommaria di tutti i
testi raccolti in questa ideale biblioteca da qualche decennio,
questo disagio della modernità ci è noto e si
riassume in facile paradigma. In termini di storia della cultura
la modernità più essere definita come quel punto
di fuga del pensiero occidentale che, a partire dal XVI secolo,
segna l'avvio di un processo di disincanto del mondo, di distanziamento
della società dalla natura e dell'uomo dal cosmo (2).
Un processo che sarebbe riduttivo definire di laicizzazione
e che si traduce in tre fondamentali assunti.
In primo luogo la modernità si caratterizza per affermare
la centralità dell'uomo rispetto al mondo e il suo
divenire misura di tutte le cose; ciò comporta una
continua osservazione da parte dell'uomo della sua stessa
natura e la conseguente obbligazione di conoscere il mondo
per conseguire la posizione di dominio che gli compete. Il
secondo assunto è costituito dal privilegio accordato
alla razionalità nel processo della conoscenza e, di
conseguenza, dalla pratica di una fiducia profonda nel sapere
come strumento di appropriazione (ma anche di invenzione)
della realtà. Infine (terzo assunto) il marchio più
visibile della modernità è la fede nella possibilità
di realizzare, per effetto della centralità dell'uomo
e del privilegio del sapere, un ordine definitivo del mondo
attraverso l'indefinito sviluppo della convivenza umana, il
suo incessante progredire nel processo di emancipazione della
persona, di dominio e trasformazione (si potrebbe anche dire
creazione) del mondo.
Sul piano del rapporto con la temporalità questi essenziali
assunti implicano un processo di progressiva laicizzazione
del tempo, una sua reinvenzione in chiave tutta umana per
far trionfare l'uomo e le sue opere su ogni rischio di discontinuità
e di oblio. Proprio per questo la modernità nella sua
struttura più profonda è un programma operativo
di costruzione della città terrena nel continuo fluire
di un tempo umanamente governabile e prevedibile, il che fa
del sapere storico una passione civile e del tempo della storia
un tempo tutto politico. La struttura stessa del moderno e
della cultura della modernità si vede così collegata
da un rapporto di specularità alla sfera del politico
rispetto a tutta l'età medievale che la ha preceduta
e che traeva invece la sua identità dalla sfera del
sacro. L'homo politicus, la vita politica e la produzione
di modelli e ideologie politiche conseguono direttamente all'arretramento
della sfera del tempo sacro e al confinamento della sfera
della religiosità in un luogo del soprannaturale estraneo
alla polis a tutto vantaggio di un tempo umanizzato e storico
nel quale si possono liberamente fondare le mitologie dell'origine
della società e del potere che le governa.
Così immersa nel suo tempo lineare caratterizzato da
un fluire sempre più rapido, la modernità ha
progressivamente lavorato, nel corso di quattro, cinque secoli,
questi assunti sino a trasformare quelli che erano i punti
di forza e i fattori di successo di un'età e di una
cultura (quella dell'Occidente e dell'Europa occidentale)
in altrettanti indicatori di crisi e di disagio.
La centralità dell'uomo e il progressivo disincanto
del mondo hanno finito per generare una desacralizzazione
dell'humanitas, poi una polverizzazione individualistica («un
individualismo estremista» (3) o un «egoismo possessivo»
(4) o un «individualismo repressivo» (5) sino
a realizzare una soggettività che «minaccia di
imprigionare l'individuo tutt'intero nella solitudine del
suo cuore» (6); cosicché quella che Kierkegaard
volle definire «l'età del presente», ha
perso ogni dimensione nobile ed eroica della vita. Il lato
oscuro del percorso dall'individualità all'individualismo,
che caratterizza il ciclo del tempo moderno, è infatti
un progressivo incentrarsi dell'uomo sull'io che appiattisce
e restringe le nostre vite e ne impoverisce il significato
in un miserevole narcisismo.
Il privilegio accordato alla razionalità come strumento
della conoscenza ha realizzato, a sua volta, un processo di
autolegittimazione della conoscenza scientifica e favorito
la presunzione di una totale coincidenza tra verità
ed emancipazione in virtù della sequenza ricerca scientifica
- ricerca applicata - tecnologia - produzione di beni materiali
- benessere - libertà. Si è assistito così
all'insorgere di un primato della ragione strumentale, intendendo
con ciò «il tipo di razionalità cui ci
rifacciamo quando calcoliamo l'applicazione più economica
dei mezzi disponibili a un fine dato» (7). Si tratta
di un uso della razionalità che intreccia potere e
sapere in una esaltazione della tecnologia e in base al quale
la misura del successo è costituita dal massimo dell'efficienza
e dal miglior rapporto costi-benefici. Ciò è
apparso a tutta prima un processo di liberazione definitiva
dell'uomo dai suoi limiti e dai suoi essenziali bisogni, ma
il rovescio tragico di questa mutazione della razionalità
in ragione strumentale sta nella diffusa preoccupazione (divenuta
ormai esperienza quotidiana) che il dominio della tecnica,
in luogo di rimodellare il mondo a beneficio dell'uomo, riduca
la nostra esperienza al puro scialo e alla sterile dinamica
di produzione e consumo di beni materiali. Con il che l'intreccio
sempre più stretto tra potere e sapere, in luogo di
fondare la nostra emancipazione, rischierebbe di soggiogare
la mente e di ridurre a zero il grado della nostra libertà.
Oggi la centralità dell'uomo ridotta a celebrazione
dell'individualismo e il privilegio della razionalità
ridotto a mitologia della ragione strumentale rischiano infine
di dare scacco alla speranza-programma propria dell'età
moderna di realizzare uno stabile ordine del mondo in vista
dell'emancipazione della persona umana.
E così il terzo assunto della modernità, la
fede nella possibilità di un progressivo sviluppo della
socialità a misura umana e di un potere dal volto umano
che la governi, minaccia ormai di trasformarsi in una sfiducia
profonda, se non radicale, nei confronti della razionalità
della città terrena. Detentore del sapere tecnologico
e del potere della tecnologia, lo stato totalitario è
divenuto, nel XX secolo, organizzatore di apparati repressivi
formidabili che, ancor oggi, minacciano l'esistenza dei diritti
del cittadino. Cosicché si registra ormai, se non il
declino, certo la pericolosa mutazione della ragione e degli
scopi della socialità politicamente organizzata. La
forma Stato inventata dal pensiero politico della modernità
nel corso del XVI secolo per assicurare giustizia e pace ai
conviventi, sembra aver fatto luogo a un formidabile Leviatano
che si autolegittima e persegue finalità alternative
agli obbiettivi della società civile. E la messa in
disarmo di questo attore centrale della modernità o
semplicemente l'ansia per la sua revisione lasciano intravedere
all'orizzonte misteriosi poteri «ultranazionali»
(ancor più che «multinazionali» o «sovranazionali»)
che non si curano più della cellula sulla quale, e
per la quale, la modernità ha fondato il suo immenso
potere.
Nel sentire politico il disagio della modernità coincide
allora con il ripiegamento di ogni certezza in merito alla
reale natura del rapporto stato-cittadino. Nelle nostre società
industriali e tecnologiche, divenute ormai una sorta di villaggio
globale altamente centralizzato nel sistema di comunicazioni,
sta forse avvenendo qualcosa che assomiglia a una alienazione
della sfera pubblica e alla conseguente perdita del controllo
politico, e ciò fa emergere il pericolo di una nuova
forma di dispotismo che non si limita ad opprimere i sudditi,
ma li modella, li costruisce a suo piacimento per perseguire
i suoi fini di dominio. Ciò che oggi rischiamo di perdere
è il controllo del nostro destino, ossia di perdere
proprio quella centralità rispetto al mondo e quella
facoltà di dominio e programmazione del tempo sulla
quale la modernità ha fondato e costruito la sua stessa
identità.
Si assiste così al deperimento della specularità
tra modernità e politica e a un processo rovesciato
di disincanto verso la possibilità di emancipazione
della città terrena, un pericoloso processo che apre
la strada alla spoliticizzazione o alla disumanizzazione della
politica. «Questa contraddizione della modernità
(la modernità è contraddizione in senso costitutivo,
strutturale), il fatto cioè che la sua tendenza spoliticizzante
inerisca intrinsecamente alla propria forma politica, derivi
da un eccesso di politica, dalla formalizzazione e dalla sottrazione
alla natura di tutti i rapporti umani» (8), è
il più inquietante disagio del tempo in cui viviamo,
il segno più evidente della sua crisi. La modernità
sembra darsi scacco, sul terreno che le è più
famigliare e la giustifica, mediante il vistoso paradosso
di una politica della spoliticizzazione e del disimpegno.
Nei paesi che han dato vita al ciclo della modernità
si va diffondendo, nelle convinzioni e nei comportamenti,
una crescente sfiducia circa la reale possibilità di
conseguire nuovi livelli di emancipazione per effetto dell'arte
politica e di governo. Il ritrarsi della sfera pubblica a
favore della libertà individuale non sembra in grado
di offrire adeguate garanzie alla promozione della persona
umana. Un solco sempre pi? profondo separa l'individuo dalla
società civile e questa dalle istituzioni politiche.
Soprattutto appare difficile trovare ragioni di convergenza
tra i molteplici tempi (quello individuale e quello collettivo,
quello privato e quello pubblico, quello delle istituzioni
e quello dello sviluppo, e così via) che la complessità
di continuo accresciuta dei sistemi pone in essere. Infine
pare ormai difficile «fare politica» e dunque
«fare storia» perché il programma ordinatore
del tempo posto in essere dalla modernità (la storia
appunto) sembra davvero aver fatto «il suo tempo».
Un tentativo di approfondire quest'ordine di problemi può
essere allora fornito da una riflessione sul sentire politico
della modernità (secoli XVI-XIX) e su quel misterioso
lavorio che porta la cultura dell'Occidente europeo a materializzare
il tempo in un enigmatico utensile del quotidiano, uno «specchio»
dai riflessi sempre deformati per effetto della mutevole consistenza
dell'atmosfera che li trasmette. Uno specchio indispensabile
però alla nostra identità perché, come
vedremo, la materia di cui si compone è il potere,
uno specchio che ora, o forse solo da che tentiamo di disvelarne
i segreti, come per sortilegio è andato in frantumi.
(1) C. Taylor, Il disagio della modernità,
Bari 1994.
(2) M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica
della religione, Torino 1992.
(3) R. Bellah, The Good Society, Berkeley 1991.
(4) C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle
origini del pensiero borghese: la teoria dell'individualismo
possessivo da Hobbes a Locke, Milano 1982.
(5) D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza
del suffragio universale, Torino 1993.
(6) A. de Tocqueville, La democrazia in America, Milano 1992,
pag. 718.
(7) C. Taylor, op. cit., pag. 7 e segg.
(8) R. Esposito, La modernità tra politico e impolitico
in Logica e crisi della modernità a cura di C. Galli,
Bologna 1991, pag. 160.
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