Per un vocabolario degli equivoci (Pietro M. Toesca)

Riforma
Uno dei termini più compromessi, e quindi più esemplari di
quello che potrebbe chiamarsi il vocabolario degli equivoci, inteso
nel senso dell’elenco delle voci dell’uso corrente, paradossalmente
rovesciato, odierno, è la parola ‘riforma’. Essa ha una lunga storia
e, riguardando i problemi fondamentali della costruzione della
civiltà e quindi della formazione dell’uomo, assai controversa.
Basti pensare al rovesciamento semantico che comporta la
declinazione di riforma in riformismo. Se riforma vuol dire
restituzione della forma originaria nel senso dinamico
dell’attivazione di processi per elaborare e realizzare la vera forma,
cioè la figura che esprime il più compiutamente e il più correttamente possibile la sostanza, ovvero la struttura di una realtà, il riformismo si attesta sul metodo graduale di un cambiamento inteso come semplice perfezionamento, sottintendendo la verità di ciò che dev’essere riformato come già data storicamente e quindi soltanto da ripulire, cioè da liberare da incrostazioni e da elementi disturbanti e in qualche modo (comunque soft e non hard ) deformanti. Il referente alternativo è la rivoluzione, intesa ad un tempo come operazione traumatica, come vera e propria frattura e quindi come sostituzione di una forma con un’altra. Il presupposto della rivoluzione è che il pensiero possa definire un dover essere del tutto irrealizzato, dunque in antitesi con la realtà storica, o almeno nascosto cioè camuffato da quella realtà.
Ma questo significato metodologico del termine riformismo, e quindi della sua realtà attiva come atteggiamento, assorbe poi totalmente il termine riforma, quando il referente positivo di tutta l’operazione è la forma vigente storico/sociale, per cui si tratta di conformarsi, con un’opera di coerenza e di adeguamento. Da questo punto di vista il riformismo, con tutti i suoi corollari linguistici, sta ben piazzato nell’alveo storicistico, quel contesto per il quale il dover essere, e dunque il pensiero, sia per il passato (giudizio) che per il futuro (previsione) è un elemento tutto interno alla storia, tanto da non distinguersi dal suo sviluppo più o meno necessario. Un tale appiattimento del dover essere sull’essere storico, cioè dell’idea sul fatto sia pure come risultato di un processo di elaborazione complesso ma finalmente sintetico, e ogni volta tale, produce tutta una serie di riduzioni semantiche relativamente ai termini che riguardano l’oggetto della rappresentata riforma e della sua necessità. Tali la libertà, la
democrazia, la partecipazione e così via. È qui che si evidenzia più
clamorosa la metatesi, il rovesciamento semantico.

Libertà
Basti pensare al passaggio libertà/liberismo. Il liberismo, da aspetto
economico e dunque strumentale del liberalismo, concezione che
concentra la sua attenzione sulla libertà come condizione
esistenziale e come metodo operativo dell’uomo, ha via via
semplicemente ridotto questa operazione storica liberatoria alla
eliminazione di ogni impaccio sociale e politico alla libera espressione del meccanismo economico reso così del tutto autonomo, cioè a sua volta come espressione del bisogno dell’uomo di situarsi materialmente nella realtà e quindi come assunzione dei criteri puramtente quantitativi di valore di questa situazione. Dal che la misura della libertà di uno comporta il confronto con la libertà dell’altro e perciò la concorrenza, la competizione e per conseguenza il dominio. La dizione della libertà dell’individuo come limitata esclusivamente dalla libertà degli altri individui è semplicemente insensata e rappresenta una impossibilità o per lo meno un aspetto estremamente riduttivo di questo connotato umano. La libertà riguarda la relazione e nessun atto umano è indenne da conseguenza di incidenza relazionale,
cioè sociale. Il problema è piuttosto quello di quali siano le azioni
che contribuiscono positivamente alla crescita congiunta di chi
compie l’atto e di chi ne è, anche solo indirettamente, coinvolto.
In questo senso il liberalismo, nella sua struttura significativa
fondamentale e dunque nella sua intenzione, riguarda l’uomo nel
suo insieme, cioè inteso nella sua complessità materiale/spirituale:
ciò che è espresso meglio oggi dall’aggettivo libertario piuttosto
che dal termine liberale.
S’intende così che ogni riforma condotta sulla base della riduzione
suddetta non avrà come referente l’uomo ma quella concezione che enfatizza, esclusivizzandolo, l’aspetto economico della sua realtà, espropriandone la soggettività, paradossalmente persino della libertà economica. Tant’è vero che il retrosignificato autentico del liberismo, o neoliberismo, è il monopolio, cioè la totale oggettivazione del meccanismo economico, nei cui confronti si salvano, se così si può dire, soltanto quei pochissimi che, conoscendone al meglio possibile la procedura, ne approfittano personalmente. Ma non manca chi1 oggi mette in rilievo l’impossibilità di questa conoscenza, e che quindi quei
pochissimi non determinano in realtà gli avvenimenti e che la differenza tra loro e i più non è assoluta, nel senso che il connotato
di vera umanità sarebbe da attribuirsi esclusivamente a loro, come
essi pretendono, con una nuova, subdola ma esiziale forma di
razzismo; questa differenza consiste semplicemente nella
prevaricazione che essi esercitano su tutti, mediante la requisizione
a proprio favore di ogni libertà grazie al meccanismo del profitto.
Razzismo esiziale poiché esemplare, diffusivo di sé: i potenti si
presentano come modelli di umanità.
Il risultato è quell’orrenda mistificazione linguistica (e la si potrebbe anche dire misfatto non essendo solo linguistica) che è la Casa delle libertà. Dove non si sa se il plurale sia scelto per vergogna di un singolare troppo sfacciato, o perché si intenda che la libertà economica copra simbolicamente (a modo della moneta) tutti gli ambiti delle attività umane, o infine perché non ci si rende conto (e i governati non si rendano conto) che il miglior modo di sfuggire al problema della libertà è quello di frantumare l’attenzione sulle molte libertà, per altro una ad una resa dipendente, cioè resa conforme alla onnivalente libertà economica.

Democrazia
E che ne è, in questa prospettiva, di quell’altro mostro sacro,
linguistico e no, che è la democrazia? La parola ha indubbiamente
un’origine cioè un etimo disgraziato. È connessa con il potere
(cratos) invece che con il principio (arché). Forse (e questo è un
problema moderno) per liberarla dalle implicazioni etico/religiose
che la concentrazione monarchica porta con sé (origine e carattere
divino). Un bisogno di laicizzazione che non evita (al paro della
sovranità popolare, che evoca il sopra e il sotto) la gerarchizzazione
assoluta. Cosicché, al di là dell’autogestione diretta, ritenuta
impossibile per le grandi quantità, il problema diventerà quello
della legittimità dell’attribuzione del comando ad una parte del
popolo, la maggioranza che può rivendicare questo diritto appunto
nella prospettiva del valore della quantità, una maggioranza vera o
presunta (pretesa) a seconda del sistema di calcolo adottato.
Questa ‘qualificazione’ della maggioranza (la parte maggiore è la
più simile al tutto e quindi se ne attribuisce virtù e diritti) è
all’origine della distorsione totale attuale del sistema democratico
rispetto alla sua intenzione, vera e propria deformazione che soltanto una riforma radicale che ne restituisse quella forma nel senso di porre in atto gli strumenti adatti a rielaborarla in funzione delle esigenze che la storia ha fatto emergere alla consapevolezza dell’uomo, potrebbe rimediare. Ma tutto questo è impedito da quel concetto storicistico di riforma che, si potrebbe dire, non permette di districarsi dal groviglio delle forme possibili. Il risultato è l’estremizzazione del danno, il perseguimento coerenziale della deformazione non percepita come tale, cioè come rovesciamento, ma solo come imperfezione.

Alle spalle di tutto questo c’è ancora un altro concetto, del tutto
conforme con la riduzione quantitativa, quello di progresso,
identificato con i grandi mezzi di produzione tecnologica grazie a
cui l’uomo acquisisce un potere sempre crescente e sulla natura e
dunque, all’interno dell’umanità, di alcuni (quei pochissimi di cui
sopra, detentori capitalistici di quei mezzi) su tutti gli altri. Il
meccanismo stesso democratico diventa un mezzo ‘riformistico’,
per realizzare quella conformità in cui consiste il perfezionamento
della deformazione, cioè la concentrazione estrema del potere mediante l’acquisizione del consenso.

Partecipazione
Ed ecco infine ancora un termine magico, partecipazione, come
fruizione personale di un tutto al cui funzionamento si contribuisce con tutta la propria attività vitale. Questa perfetta specularità di due ‘tutto’, quello dell’individuo e quello dell’insieme, non solo è onninclusiva di chi è ‘dentro’, ma di conseguenza esclusiva di chi, non avendo nulla da dare o non riuscendo comunque a dare nulla, è del tutto fuori: e questo già osservava Socrate obiettando alla concezione di Trasimaco, per cui la giustizia consisterebbe nel dare a ciascuno il suo, vale a dire ciò che si merita grazie appunto a ciò che egli, a sua volta e per primo, dà. Questo sistema del dare/avere privilegia evidentemente chi ha già e chi ha di più, con una progressione geometrica (si pensi al maggioritario, cioè al premio di maggiotanza di cui è in qualche modo antenato il maggiorasco). Il dare, in verità, per chi ha si riduce all’idea della sua possibilità, mentre ciò che conta è il suo prendere nella forma del profitto. Questa è la sostanza del
capitalismo. Il capitale, oggi soprattutto nella forma del denaro, è
produttivo di per sé. La partecipazione è dunque partecipazione
agli utili, secondo le regole dell’economia efficientistica che
considera la libertà del singolo un disturbo, venuto meno che sia
l’espediente della ‘mano invisibile’ di smithiana memoria e ridotta
ad illusione indotta (ecco il consenso) l’iniziativa individuale. La
mano invisibile agisce piuttosto all’interno delle coscienze
individuali, è il loro subconscio, ciò che le conduce a calcolare più
o meno i propri interessi in funzione del meccanismo constatato.

Giustizia
E di un ultimo termine, sempre a modo di esempio, che ha subito
un radicale inquinamento semantico, possiamo analizzare la
trasformazione: il termine giustizia, come condizione e strumento
adatto alla costruzione e al mantenimento della società. Esso si è
totalmente istituzionalizzato, e il suo riferimento all’etica, già
eliminato dall’adozione machiavellica della politica, è divenuto il
bisogno e il progetto di coerenza, cioè di conformità, con gli interessi di coloro che si identificano con lo Stato, fruendo addirittura di una delega consensuale, provvisoria soltanto finché quell’operazione di conformizzazione (la riforma) non la renda definitiva. Giusto è ciò che conviene al più forte, diceva ancora Trasimaco, intendendo con questo l’autorizzazione di chi comanda a stabilire le regole della relazione sociale, in vista del solito meccanismo di passaggio dalla quantità alla qualità che fa del più (il più forte) il tutto. La volontà del principe è il principio del diritto. E ci siamo ritornati. Il principe è chi comunque comanda, e giusto è tutto ciò che gli permette di comandare e che perpetua il suo comando, eliminando come ingiusto ogni ostacolo a questo fine. A questa operazione presiede un’apposita istituzione, il Ministero della Giustizia, anzi il Ministro della Giustizia, dove la maiuscola esprime appunto il significato etico di ogni sua
decisione (e se si aggiunge poi la parola Grazia si indica l’ulteriore
autorizzazione di decidere, con generoso e gratuito arbitrio, del bene e del male, della vita e della morte, di ciascuno e quindi di tutti, al di là delle stesse regole di Giustizia pur stabilite con lo stesso arbitrio). Si intende che si tratta dell’etica di cui si è detto, cioè della conformità agli interesi di chi comanda e al cui servizio milita il Ministro della Giustizia (partecipando del resto in grossa misura agli utili di tutta l’impresa). In questo senso ogni decisione di questo Ministro è volta a conformare la realtà sociale a quel criterio: il Ministro della Giustizia opera permanentemente per la Riforma della Giustizia, cioè della società in conformità di quel preciso concetto etico di Giustizia. Più machiavellico di così! (O meno machiavellico di così?).

Ragione
Ma c’è infine un termine la cui trasformazione odierna sintetizza
tutti i rovesciamenti sopra esaminati e si dà come matrice giustificativa del loro rovesciamento significativo. Il termine ragione, specialmente nella sua forma dinamica, attiva di razionalizzazione. Ragione vuol dire connessione corretta, coerente, motivazione, verità. La razionalizzazione è quell’impresa grazie alla quale qualcosa (l’oggetto di tale operazione) viene ‘messo a posto’, viene reso coerente e dunque adeguato alla propria idea e, per conseguenza finale, efficiente. Ma ecco il punto della razionalizzazione in versione moderna: il referente della coerenza è appunto l’efficienza, la pura efficienza, apparentemente ‘ideale’, in realtà funzionale ad un tutto, ad un contesto più o meno totale a sua volta funzionante. Il termine ultimo di questo funzionamento?
Il funzionamento stesso, la sua perfezione; e la misura che la constata e la controlla è il principio dell’economia assoluta, cioè autonoma, oggettivata come sistema: il meno per il più, la crescita come rendimento, minimo dei costi, cioè dell’investimento per il massimo del ricavo, e dunque del profitto. Razionalizzare la sanità, l’istruzione, la giustizia è sì renderle dinamicamente coerenti con la costruzione della società, dove però non si pone affatto il problema di quale sia la società giusta, sana, consapevole, in quanto costituita da individui giusti sani consapevoli di sé e della realtà tutta, ma la si sottintende a priori come quel sistema compatto, la cui realtà, cioè il cui funzionamento sta nella crescita intesa come rendimento, come accumulo di un patrimonio che è tale solo se rende, se si moltiplica in funzione appunto della logica economica sopra detta. Il referente, e tanto meno lo scopo, non è più l’individuo nella sua identità/relazionalità, ma la costruzione come tale dell’insieme. Il che dichiara certamente una valutazione non labile dei criteri e dei valori di questa costruzione, ma secondo una misura tutta quantitativa, si potrebbe dire matematico/geometrica, che spregia la qualità e dunque l’individualità, come pure variabili da ricondursi in ogni modo rigorosamente alla coerenza generale.
In questo senso ci si lamenta del mondo attuale come privo di
valori, poiché la valutazione esclusivamente economica impedisce
ogni criterio di altra valutazione, estetica, etica, politica, religiosa e
così via. Tutt’al più queste valutazioni impreziosiscono quella
unica generale e si traducono in adeguata moneta. Si può così ben
parlare a ragione di un vero e proprio mondo, ricostruito pazientemente e meticolosamente mediante un’opera di razionalizzazione che rimanda i valori inutili nel passato, rappresentazione archeologica di una realtà che nel corso di una lunga storia (anch’essa dunque da ricostruirsi in vista di questo criterio) si è faticosamente liberata della propria forma di crisalide acquistando le ali per volare ad una velocità sempre più accellerata e trionfante. La giustizia, s’è detto, è dei forti, perché la ragione è della forza. Così è precismente definito il compito della
razionalizzazione sociale, cioè della riforma: i conti tornano.

1. Vedi Castoriadis, La razionalità del capitalismo, in ‘Libertaria’, n.4. dic. 2001, pp.60 sgg.)