La storia della velocità è un argomento
negletto. Quando il poeta inglese John Milton augurava "God
speed thee and thy close!", "to speed" significava "prosperare",
e non "andare veloce". Oggi siamo imprigionati nell'era
della velocità. Il nostro senso comune ci dice che una qualche
idea dello "spazio nel tempo" e, più generalmente, del "processo
correlato con il tempo" fa parte di tutte le culture.
Mi accollo quindi il compito di scuotere il senso comune.
Che l'idea della velocità fosse importante per Aristotele,
Archimede o Alberto il Grande è soltanto un pregiudizio,
una distorsione proiettata sul passato. Fino al diciassettesimo
secolo, infatti, il commercio, la medicina o l'architettura
prosperavano senza alcuna preoccupazione per la velocità.
E così la musica, la caccia o la pesca. La velocità è un
fenomeno specifico della nostra epoca. Il concetto di velocità
è sicuramente storico. La riflessione sul tema è iniziata
soltanto nel tardo medioevo anche se poi, poco a poco, è
arrivata a contribuire in maniera decisiva all'era delle
macchine e dei motori. Tuttavia, oggi l'epoca storica della
velocità giace dietro di noi. In questo periodo, l'homo
technologicus è stato ossessionato dall'esperienza della
velocità: dalla casa alla fabbrica, attraverso le scuole
e i mestieri, dal lavoro alla vacanza, soffrendo sempre
di mancanza di tempo con orari stretti scanditi dall'orologio.
La fretta ha modellato il carattere. Avere ancora fretta,
oggi, è un marchio di privilegio, il segno che non siamo
ancora stati costretti a passare dalla cultura della scarsità
del tempo alla nuova era dell'elettronica e della disoccupazione.
I battiti per minuto e la forza lavoro sono stati eclissati
dai bit. Le trasformazioni del modo di produrre, che si
è trasferito dagli impiegati ai computer, dall'aula a internet,
dagli impiegati di banca alle carte di credito, non ci hanno
preparato a questa nuova cultura, l'età del megahertz basata
sulla velocità della luce. Nella nuova epoca, che è anche
quella della "c" costante, i processi in tempo reale simulano
l'onnipresenza globale, e sul serio ci portano elettronicamente
da qui a lì. Ma la pratica dell'intermediazione, quella
che aveva nutrito la dipendenza da velocità dell'uomo moderno,
è sparita. Ecco la mia convinzione. Chiamatela intuizione
o preconcetto, oppure prendetela come la semplice ipotesi
di un estraneo: l'età della velocità ha avuto un inizio,
ma ora ne parliamo come storia perché siamo testimoni della
sua fine. Reso outsider da questa convinzione, parlo a un'assemblea
di professionisti che cercano metodi per incorporare la
velocità nelle dimensioni cruciali del design. In questo
sontuoso teatro, assisto a una conversazione sulla velocità
desiderabile per l'esistenza umana; a una profonda ricerca
sulle richieste morali indirizzate ai designer da parte
di autoproclamati "slobbies" (slow is better, lento è meglio),
i quali invocano un progetto di decelerazione; pianificatori
che discutono su velocità alta e bassa, rapida e lenta,
sopportabile e distruttiva. Tutti professionisti autoimprigionati
nella certezza che la velocità avvolga tutto, e che necessiti
soltanto di essere controllata. È la velocità che conta
per loro, che conta quanto la durata della pena per il carcerato.
Il messaggio del gulag
Mentre ruminavo su questa fissazione, mi sono ricordato
di una conferenza a Oslo l'anno scorso, organizzata dal
criminologo Nils Christie (quello che scrive sui gulag di
stile occidentale) alla Northern Academy of Science. In
tutte le giurisdizioni politiche, oggi, il gulag cresce
a un ritmo più veloce di altre istituzioni di welfare. A
quell'incontro parteciparono i capi dei sistemi penitenziari
di 14 paesi, dal generale che gestisce le carceri russe
al Federal Commissioner of Corrections degli Stati Uniti.
Tema: i freni che bisogna mettere a questa crescita. Ascoltai
per tre giorni le relazioni da ciascun paese, e infine condussi
la tavola rotonda finale. Fui impressionato dall'unanimità
fra questi guardiani capi. Ogni relazione sottolineava che
le prigioni non realizzano alcuno dei loro scopi: non prevengono
i reati, non correggono le tendenze o il comportamento,
e neanche puniscono, per la soddisfazione delle vittime
dei prigionieri. Tutti i capi delle prigioni erano d'accordo
sull'inutilità delle stesse, e ciononostante tutti chiedevano
più fondi per migliorare il loro lavoro. Il mio compito
era riassumere. Christie voleva che collocassi questo enigma
in un quadro storico. Per caso conosco i libri medievali
sui doveri dei signori. Ai principi cristiani era proibito
punire confinando i prigionieri nelle torri dei loro castelli:
e allora le usavano per custodirli fino alla pubblica esecuzione,
alla tortura o alla mutilazione. Ma come spiegarsi che tutte
le società moderne effettuano costosi investimenti per prigioni
la cui inefficacia è stata provata riguardo a tutti gli
scopi ad esse assegnate? Come spiegarsi la disponibilità
di criminologi, politici e contribuenti a finanziare il
costoso lavoro dei secondini? Come comprendere la ragione
dell'irragionevole certezza che i gulag devono continuare
a esistere? Per rispondere a queste domande, bisogna prima
determinare gli effetti del gulag. Il gulag è controproducente,
se lo si giudica rispetto agli scopi ufficiali della prigionia.
È evidente che quest'istituzione ha il risultato opposto
rispetto a quello desiderato. Ma esaminiamo che cosa dice
il gulag, considerandolo non come un mezzo ma come un segno:
un segno più per quelli disposti a pagarne i costi, che
per coloro i quali sono rinchiusi lì dentro: prigionieri
e guardiani. Bisogna scoprire ciò che il gulag dice a quelli
che lo finanziano, scoprire perché sono bloccati dal bisogno
di perpetuarlo. Ogni notizia in arrivo dal gulag dice loro:
siete liberi! Contrariamente a quelli che sono dentro per
scontare una pena, voi siete fuori, e dovete assaporare
la libertà! Siete liberi, anche se dovete alzarvi al suono
della sveglia e combattere costantemente contro l'orologio.
Stando fuori di prigione, potete usufruire di più ampie
opportunità, potete scegliere fra molte offerte, ma solo
se tramutate la sete in desiderio di una Coca cola... o
di una Pepsi. Dimenticatevi l'acqua, perché quella del rubinetto
fa male. Insomma, si gode della scelta fra un assortimento
di alternative molto più ampio di quello dei carcerati.
Il gulag vi dice: "Scegli ciò che preferisci!" A Oslo avevo
di fronte fornitori di prigioni, al tempo stesso consci
della controproduttività del gulag ma anche amministratori
dedicati al suo sviluppo quantitativo e al miglioramento
qualitativo. A quale tipo di assemblea potevo paragonarli?
Li definii cardinali, ma in realtà pensavo a sciamani durante
una danza della pioggia. Lo sciamano prepara la danza annuale
che dev'essere celebrata nel villaggio, ma possiede anche
l'autorità di spiegare perché la pioggia non arriva, nonostante
la cerimonia. Non piove perché qualcuno non si è impegnato
al massimo durante la danza. I sociologi utilizzano la danza
della pioggia come termine tecnico per un rito che crea
il mito, un evento mitopoietico che genera una credenza
e conferma un dogma sociale. Max Gluckman parla di queste
cerimonie come di un modello sociale che acceca tutti i
partecipanti (sia sacerdoti sia fedeli) nella contraddizione
fra l'obiettivo asserito del rito e i suoi effetti. La liturgia
dovrebbe produrre pioggia, ma in realtà produce soltanto
il bisogno della danza. Per anni ho esaminato le grandi
istituzioni di servizio delle società moderne, non solo
per ciò che fanno, ma anche per ciò che dicono; non come
agenzie produttive, ma come riti produttori di miti. Sono
ostile alla scuola obbligatoria, per esempio, perché la
vedo come una danza della pioggia celebrata in nome dell'uguaglianza,
ma che in realtà fornisce alla società soltanto la certezza
che la scuola deve esistere. Analizzandone i risultati concreti,
infatti, si individua soltanto la selezione di dodici livelli
di bocciati, uno all'anno. Similarmente, i criminologi moderni
sostengono le carceri, e perfino la pena capitale, sostengono
la sovranità dello stato, basata sul bisogno di un'agenzia
che definisca i crimini e punisca i criminali. Oggi desidero
sottolineare la funzione rituale, di cerimonia creatrice
di miti, del design.
I designer come sciamani
I designer sono un tipo assai speciale di sciamano. Non
celebrano la liturgia: la disegnano. Non governano le enclave,
ma consigliano coloro che le costruiscono. Non sono la progenie
di calzolai e muratori, ma i discendenti di un frutto del
genio rinascimentale: il disegno. Sono esperti nell'integrazione
deliberata e riflessa di artefatti vari; sorgenti di una
nuova composizione che distingue il barocco dal gotico.
Tuttavia, i designer non forniscono soltanto la forma dell'integrazione,
ma inevitabilmente diffondono i princìpi guida ai quali
devono sottomettersi gli elementi di un tutto. Sia la carrozzeria
di un'automobile che l'umile maniglia di una porta impongono
ergonomia: stuzzicano e attraggono il vostro sedere e la
vostra mano. Per mezzo secolo l'ergonomia (oggetti disegnati
per adattarsi al corpo) è stata un imperativo imposto dai
designer. Ma il nuovo dato messo all'ordine del giorno,
la velocità, ha il potere di liberare dal corpo: disincarna
la percezione del falco esattamente come una sonata di Ludwig
van Beethoven. Per decadi il design ha fatto propaganda
alla velocità, il più delle volte in modo surrettizio e
acritico. Più veloce sembrava meglio. Adesso volete inaugurare
una nuova era con lo slogan che l'andatura lenta può essere
bella, e quella appropriata ottima. Volete aprire un'epoca
di profonda consapevolezza della velocità, e promuoverla
per mezzo del design. Desiderate un design che inneggi agli
"slobbies" postmoderni: persone "slower but better working"
che proteggono puntigliosamente il loro ritmo tranquillo.
Nel ventesimo secolo, la ricerca dell'alta velocità privilegia
una minoranza e consuma il tempo della maggioranza. Il "Fly
& Drive" non è certo alla portata di tutti, ma tutti
devono affrontare le distanze create dai veicoli veloci.
È dal 1970 che ci vendono modelli industriali di sedie o
caffettiere dalla forma aerodinamica. La suggestione della
velocità significava trovarsi al passo con i tempi, e l'alta
velocità sembrava seducente quanto l'ultima moda femminile.
Ma quel che ora proponete va perfino oltre: voi date per
scontato che tutto trasudi velocità, la velocità che volete
controllare. E ciò non può che confermare l'onnipresenza
e l'onnipotenza di questa droga che assuefa. Sì, è un nuovo
tipo di droga, una chimera sconosciuta prima di Galileo
Galilei, e alla quale era difficile credere anche un secolo
dopo la sua morte: l'idea di s/t, spazio /tempo. Nessuno
all'epoca afferrava questa fusione di spazio e tempo. Quella
nozione del movimento non faceva parte del loro mondo: un
mondo centrato su ogni singola persona e disteso di fronte
a ciascuno, pronto a essere percorso passo dopo passo. Un
mondo in cui gli alberghi erano collocati alla distanza
di un giorno di viaggio l'uno dall'altro, in cui dodici
ore dovevano trascorrere dalla mattina alla sera, in inverno
come in estate, e in cui l'unità di misura era il piede.
L'allargamento dell'esperienza non poteva stare in una frazione
sopra il tempo vissuto. I primi uomini che viaggiarono in
treno furono terrorizzati dalla velocità. Capirono che il
treno, accelerando nel mondo, aveva bisogno di una nuova
parola: così adottarono "landscape" (panorama) per definire
i posti che vedevano scorrere dal finestrino dello scompartimento,
senza posarci il piede. Gli orari dei treni hanno introdotto
il minuto nella società, scandendo il tempo dei passeggeri
con il rumore del motore. La velocità ha sostituito il ritmo
con un rumore cadenzato. Voi ora volete attenuare questo
trasferimento. Io invece esploro le zone di esperienza trascurate
e senza velocità. Non cerchiamo una fuga dalla prigione
dell'alta velocità verso un mondo di repressioni meno seccanti;
domandiamo se e dove l'ombra della velocità può essere evitata
del tutto. Quando cantiamo o suoniamo musica dal vivo, la
velocità si attenua. Non ci stringe nella sua presa, e noi
non sentiamo il bisogno di controllarla. È il ritmo a prendere
il sopravvento. Quando leggo gli esametri entro nella loro
cadenza, perché so bene che il ritmo è stato imposto alla
poesia antica soltanto dopo il 1630 da studiosi zelanti.
La velocità è in conflitto con la vita. Per gente come noi,
la velocità è un crudo esempio di congerie storica gratuitamente
attribuita alla natura. Viene fuori da una brama senza corpo
che giace più in profondità rispetto alle principali fondamenta
del mondo moderno: il bisogno di un adeguato trattamento
istituzionale per il crimine, l'istruzione, la corsa alla
ricchezza, le assicurazioni. L'odierno Pantheon è abitato
da questi dei, che governano il mondo moderno. Ma la velocità
si trova in una zona oscura al di sotto di essi, dove i
greci mettevano i titani, creature potenti che facevano
nascere le divinità. Per quanto riguarda la velocità, mi
sento nichilista. Quando Galileo propose di studiare l'attrazione
gravitazionale su un piano inclinato, e Keplero la applicò
per calcolare il movimento delle sfere celesti su traiettorie
ellittiche, rivoluzionarono la fisica. Meravigliarono i
loro contemporanei proprio come è capitato ai fisici quantistici
300 anni più tardi. Dovevano liberare il ticchettio del
tempo dal flusso della temporalità, e staccare lo spazio
astratto dal qui e ora, mentre noi cerchiamo soltanto di
goderci la vita con i nostri amici. Ho cercato di vivere
come un pellegrino, facendo un passo dopo l'altro, entrando
nel mio tempo, vivendo all'interno del mio orizzonte, che
spero di raggiungere sempre con il passo, il sorprendente
passo che si compie per morire.
Traduzione di Mauro Suttora
Tratto dal sito della rivista Libertaria http://www.libertaria.it/
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