Il decorso postbellico del nuovo
Stato iracheno ha riportato all’attenzione degli analisti – soprattutto
dopo la positiva tornata elettorale di fine gennaio – la questione
della democrazia in Medio Oriente. Tra fautori dell’«esportazione»
e sostenitori dell’impossibilità di applicare forme di governo estranee
alla cultura arabo-islamica, il dibattito sulla democratizzazione
mediorientale si è tuttavia limitato alla valutazione dei fattori
«esogeni» che potrebbero indurre, nel breve periodo, molti paesi
dell’area ad intraprendere la strada delle riforme (in primis
l’«esempio» iracheno), senza considerare le variabili socio-strutturali
«endogene» che ugualmente possono concorrere nel difficoltoso sviluppo
socio-politico del mondo arabo. Tra queste, pare ormai certo
che le variabili di ordine demografico possano assumere un’importanza
cruciale, specialmente nelle zone del mondo più soggette ad instabilità
politica.
In linea teorica, un aumento demografico può avere forti ripercussioni
sulla stabilità o sul mutamento di un dato sistema sociale e di
uno Stato, e questo tanto a livello economico e finanziario (l’inevitabile
aumento della spesa sociale), quanto a livello politico (le crescenti
istanze partecipative) e sociale (la concorrenza per le risorse);
indirettamente, poi, un rapido aumento della popolazione può generare
una crescita del livello generale dei prezzi, o l’espansione della
domanda di lavoro che – a parità di offerta – può produrre una
riduzione del livello generale dei salari e del potere d’acquisto,
causando quindi una diminuzione delle condizioni generali di vita
della stessa popolazione.
Ebbene, osservando le statistiche inerenti allo sviluppo di alcuni
paesi arabi (raccolte dall’Undp – United Nations Development Programme
– e reperibili sul sito http://hdr.undp.org/) risulta
subito evidente il poderoso boom demografico che, nell’ultimo
periodo del XX secolo, ha caratterizzato l’intera regione mediorientale
(tabella 1).
La popolazione di quasi tutti i paesi arabi considerati è generalmente
raddoppiata in poco più di venticinque anni: spicca per dimensione
il vertiginoso aumento demografico vissuto da Stati come l’Egitto
(da 39 milioni di abitanti nel 1975 ad oltre 70 milioni nel 2002),
l’Arabia Saudita (passata da 7 a 23 milioni) e l’Algeria (da 16
a 31 milioni); e al di là del mondo arabo, il caso iraniano è
per molti versi emblematico di uno sviluppo demografico estremamente
cospicuo, se comparato con quello verificatosi nei paesi industrializzati.
Se si osservano poi le stime future, e nonostante una certa flessione
(eccezion fatta per lo Yemen), il tasso di crescita di tutti i
paesi dell’area è destinato a rimanere indubbiamente alto (sempre
se comparato con i paesi occidentali, il cui tasso di crescita
demografica resta in prossimità dello zero).
Se consideriamo poi le statistiche sull’educazione (che danno
la misura – seppur indiretta – della dimensione delle potenziali
«nuove élites»), i dati sono ancor più sorprendenti: la maggior
parte dei paesi arabi ha mantenuto (e mantiene) un alto livello
di spesa per l’istruzione, per nulla inferiore a quanto destinato,
nello stesso settore, da molti paesi industrializzati (tabella
2); e guardando ancora una volta all’Iran – paese in cui circa
il 50% della popolazione è al di sotto dei 25 anni – possiamo
notare come il finanziamento stratale all’educazione rappresenti
addirittura un quinto della spesa pubblica (porzione che supera
di gran lunga quella destinata, per esempio, dai paesi scandinavi,
da sempre noti per il loro profondo impegno nella formazione).
Popolazioni quindi in aumento, prevalentemente giovani e ben istruite,
destinate – se non ad ottenere – almeno ad aspirare a un posto
di rilievo nella gerarchia sociale di tutti i paesi arabi e mediorientali.
Le conseguenze che si potrebbero trarre da questi dati sono molteplici.
Tra le tante, vorremmo qui considerare quelle più strettamente
politiche: sembra infatti appurato che un repentino aumento demografico
(quello che hanno vissuto e stanno vivendo i paesi della regione
mediorientale) abbia un effetto particolare sui gruppi sociali
«marginali» (come i lavoratori in cerca di occupazione, o le élites
in cerca di «status») che crescono in generale di più – e più
rapidamente – di quelli «centrali». Il perché di questo andamento
«non lineare» è facilmente intuibile: a parità di risorse (economiche,
così come «posizionali»), un incremento della popolazione finisce
sempre per produrre una crescita degli strati esclusi dalle stesse.
Solitamente, una struttura statale dotata di una certa «flessibilità»–
come può essere quella delle grandi democrazie occidentali – è
in grado di assorbire il malcontento sociale che deriva dal divario
tra aspettative e condizioni reali: questo perché le istanze provenienti
dal basso riescono ad emergere fino ad entrare nel dibattito politico;
di converso, nei paesi dove è ancora scarsa l’attitudine alla
pratica democratica, risulta più difficile – se non, in alcuni
casi, impossibile – il dialogo tra società civile ed istituzioni.
Occorre quindi chiedersi se la struttura sociale, economica
ed istituzionale dei paesi dell’area mediorientale paesi saprà
o meno evolversi per «assorbire» lo scontento dei «nuovi strati
marginali». In questo senso, sembra che almeno tre fattori
– direttamente collegati con il trend demografico – avranno
un ruolo cruciale nel lungo periodo: il tasso di crescita
del salario medio reale, che dà in parte la misura del benessere
relativo di una popolazione, il livello di urbanizzazione
(le città sono tradizionalmente il fulcro della mobilitazione
popolare) ed infine la struttura anagrafica della società (intuitivamente,
una popolazione relativamente giovane è più orientata alla protesta,
o comunque lo è di più di una popolazione relativamente adulta).
Per quanto riguarda il primo fattore, sono molte e forse troppo
imprevedibili le variabili da considerare: dallo sviluppo economico
della regione (in molti paesi esiste la questione della «diversificazione»
delle attività produttive), alle performance commerciali
dei singoli Stati. Per quanto attiene agli altri due fattori possiamo
invece avanzare qualche ipotesi di massima.
Come risulta chiaro dai dati (tabella 3) gran parte dei paesi
arabi ha vissuto negli ultimi vent’anni un discreto movimento
di urbanizzazione (tra tutti spicca sicuramente la Giordania –
la cui popolazione urbana è passata dal 57 al 78% del totale,
l’Algeria – dal 40 al 58% – e il Marocco, dal 37 al 56%). E forse
è ancor più significativo il dato anagrafico: quasi in modo speculare
ai paesi occidentali, la popolazione dei paesi arabi è prevalentemente
giovane (in tutta l’area, dal 30 al 40% della popolazione ha meno
di quindici anni), mentre la popolazione ultra-sessantacinquenne
rappresenta una minima percentuale (dal 3 al 5%).
La gioventù mediorientale istruita, ambiziosa e allo stesso tempo
disillusa per la scarsa «apertura» del proprio sistema politico
potrebbe diventare protagonista – nel bene e nel male, come è già
successo nella storia – di un mutamento radicale negli assetti politici
ed istituzionali dei paesi della regione. È certo, l’evoluzione
democratica dei paesi dell’area mediorientale non dipenderà solo
da queste poche variabili «endogene» (e per giunta di lungo periodo),
ma possiamo affermare con sicurezza che – in un contesto di instabilità
internazionale come è quello che si è aperto dopo l’11 settembre
– gli effetti potenzialmente esplosivi che si potrebbero generare
direttamente (e non) in conseguenza dell’ingente aumento demografico
rappresentano le uniche certezze, così come è indubbio che le nuove
generazioni – oggi appena ventenni – giocheranno, in questa possibile
evoluzione, un ruolo capitale. |