Futuri e futurismi della frontiera elettronica di Bernardo Parrella (Fonte)

ABSTRACT

Pur rimanendo fenomeno limitato a livello mondiale (a fine 2002 era online solo il 10% della popolazione globale) l'elevata penetrazione del digitale nei paesi industrializzati continua a provocare una marea di mutamenti sociali, economici e finanche politici. Con l'euforia dei 'padri fondatori' e degli early adopters parte del passato e assorbiti gli effetti del dopo sbornia del dot.com, oggi tocca all'internet di terza generazione fungere da volano. Facendo leva su uno spirito pioneristico e creativo sempre vivo, ma preparandosi a fronteggiare una serie di sfide a tutto tondo: software libero/open source vs. modelli proprietari; innovazione e copyleft vs. brevetti e copyright; cyber-attivismo e politica online vs. azzeramento della volontà popolare; media indipendenti e blogosfera vs. media monopoly; tutela dei cyber-rights vs. censure e repressioni. Nè meno importante è proseguire le esperienze di ‘net criticism’, lo studio della tecno-cultura e della filosofia dei new media. Anche per evitare rischi concreti quali una diffusa auto-referenzialità e certo egocentrismo nell’uso di internet che provocano la frammentazione della trama sociale. Dicotomie e situazioni tuttavia inevitabili, necessarie per la maturazione e la crescita continua dei netizen. Una sorta di 'nuova' frontiera elettronica il cui futuro dipende in gran parte dall’uso che sapremo e vorremo fare, sia a livello individuale sia collettivo, delle tecnologie di cooperazione tuttora in fase embrionale. Pur non mancando attriti e confronti aperti con gli altri soggetti a vario titolo coinvolti nel continuum digitale: corporation e governi faranno di tutto per opporsi a un processo innovativo che rischia di scalzarne i poteri tradizionali (e in parte lo ha già fatto). Ma oggi esistono i mezzi e le potenzialità per superare ogni frizione senza spargimenti di sangue, tramite inedite alleanze collaborative e posizioni da middle ground: ad esempio, la necessità di un copyright assai più elastico o la replica del modello open source in altre discipline. Uno scenario che, pur producendo nuovi mercati e business model, salvaguardi quei valori di libertà, creatività e innovazione che hanno dato linfa all'evoluzione digitale per come la conosciamo. Se è vero come è vero che il cyberspace è un bene comune, va difeso e tutelato in quanto tale.

Introduzione

E’ mai esistita una frontiera elettronica? Esiste forse oggi, e, soprattutto: è qualcosa con cui dovremo fare i conti nel prossimo futuro? L’inevitabile replica affermativa a queste domande poggia su alcune, cruciali impalcature teoriche. Oltre la baraonda del dot-com di ieri e di oggi, l’humus online continua a sfornare in continuazione innovativi modelli socio-comunicativi il cui attrito con il quotidiano ‘tradizionale’ rimanda ad una complessità di fattori in gioco. All’alba degli anni ‘80 lo spirito pionieristico degli early adopters sconfessò l’opinione diffusa secondo cui internet sarebbe divenuta niente più che un ottimo sostituto del telefono. Dalle prime BBS (Bullettin Board Systems) locali alla comunicazione da molti verso molti alle ramificazioni globali del we media sul web odierno, il filo rosso unificante rimane, in prima battuta, quel medesimo impulso di sperimentazione continua, aperta, collaborativa. (Turbolenze incluse.) E cosa sono oggi le battaglie in corso su punti cruciali del quotidiano reale-virtuale, quali proprietà intellettuale e libero accesso all’informazione, se non ennesimi, inevitabili prolungamenti di un tale filo rosso? Difficile prevedere un futuro animato da un analogo spirito pionieristico? Tutto dipende dall’uso che sapremo e vorremo fare, sia a livello individuale sia collettivo, delle tecnologie di cooperazione tuttora in fase embrionale. E dalle soluzioni agli attriti che ciò andrà inevitabilmente provocando con gli altri soggetti a vario titolo coinvolti nel continuum digitale.

Sfide e cimenti del digitale prossimo venturo

Prima di addentrarsi nelle dicotomie del pianeta internet occorre puntualizzare il contesto più ampio in cui collocarne la presenza. A fine 2002 appena il 10 per cento della popolazione globale aveva accesso online, poco più di 600 milioni di persone, l'80 per cento dei quali residente nei paesi industrializzati. Gli internauti statunitesi erano 170 milioni, il 60 per cento della popolazione nazionale e il 29 per cento di quella mondiale; la media del tempo trascorso online raggiungeva le 11 ore settimanali, e il 60 per cento si collegava da casa, rispetto al 20 per cento del 1995. Nel 1998 in Italia si era fermi al cinque per cento della popolazione nazionale, per balzare al 33 per cento nel 2001, 20 milioni. In contrasto, i cellulari raggiungono il 65 per cento, 43 milioni di persone, ben al di sopra della media europea (58 per cento). Al contempo, il digital divide appare tutt'altro che in fase risolutiva, in particolare tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Dati questi necessari per fornire la corretta prospettiva critica sull'effettiva penetrazione e portata di internet. Un quadro nel quale incalza comunque, da una parte, il discorso critico sull'universo elettronico in quanto tale, sulle ricadute interne a largo raggio, discorso ramificato e differenziato per sua stessa natura, poco incline alle scorciatoie sulla base a una presunta velocità dei tempi moderni, al fatto che l’internet time spazza via tutto e tutti. Occorre tenere a mente come le indagini su internet, il ‘net criticism’, lo studio della tecno-cultura e la filosofia dei media siano tuttora a uno stadio iniziale (Lovink, 2003). Dall’altra, assorbiti i postumi della sbornia digitale, si avverte l’urgenza di una riflessione ugualmente critica sulle policy al confine tra ciberspazio e ‘meat space’, sulle ricadute nel mondo reale delle concrete esperienze di pratiche pubbliche non convenzionali garantite dal mondo online.

I quest'ambito, una frontiera elettronica in mutamento perenne e senza limiti d’espansione si afferma come concetto-prassi da rivalutare con connotazioni positive e propositive, inglobando le intriganti sfide poste a tutti noi dall’era digitale. Eccone un elenco tutt'altro che esaustivo: software libero/open source vs. modelli proprietari; innovazione e copyleft vs. brevetti e copyright; cyber-attivismo e politica online vs. azzeramento della volontà popolare; media indipendenti e blogosfera vs. media monopoly; tutela dei cyber-rights vs. censure e repressioni.

Confronti questi -- più altri certamente in ribollizione al di sotto del magma elettronico -- da considerare alla stregua di elementi complementari e imprescindibili gli uni dagli altri, ancor prima e più che in acerrima guerra tra loro. Ciò non significa che manchino attriti e frizioni, tutt’altro. Gli interessi commerciali, a braccetto con politici e maggioranza silenziosa, faranno, come sempre, di tutto per limitare i cambiamenti sostanziali. Neppure sufficiente sembra ricorrere alla vecchia retorica ‘anti-sistema’ per spiegare le istanze del rampante cyberactivism. Dall’eclettico movimento che anima la ‘nuova’ frontiera è lecito e auspicabile attendersi soluzioni ragionevoli, efficaci. E’ un fatto come questa ‘ricca cultura della confusione’ abbia tutte le potenzialità per divenire transculturale, multilingua, e veramente globale, non soltanto fenomeno d’impronta occidentale (Lovink, 2002). E sia in grado di creare contesti culturali, economici di segno inedito. Da qui la necessità di progetti cooperativi a largo raggio, di strategie mirate ad ampliare l’area di partecipazione, piuttosto che puntare alla vittoria schiacciante di una parte ai danni dell’altra o, peggio, a una qualche convergenza digitale manovrata unicamente da stati e corporation. Ennesima utopia digitale? Altro cyber-sogno ad occhi aperti? Non proprio, anzi per nulla.

Elasticizzare il copyright editoriale

Al di là di risvolti piuttosto secondari, quale il risveglio o meno della cosiddetta new economy, le sinergie dei molteplici soggetti operanti online a vario titolo dimostrano di poter lavorare alla costruzione di un ambiente quanto più variegato e plurale possibile -- grazie alla fertilizzazione trasversale di idee ed esperienze, alla validità di business model inediti, allo spuntare di meme (virus culturali) capaci di unificare anziché dividere. Internet in quanto bene comune si afferma proprio perché rappresenta una risorsa preziosa per l’innovazione decentralizzata, consentendo ai singoli di utilizzare le risorse disponibili senza avere collegamenti con altri o dover chiedere a terzi il consenso all’accesso di tali risorse. Aprendo al contempo, cosa non da poco, nuove piste e potenzialità imprenditoriali. Una serie di ambienti destinati a rimanere aperti e disponibili, in modo che singoli e organizzazioni possano costruire ulteriormente sul valore creato da questa apertura, trasformandolo in ulteriore valore che poi viene consumato in privato (Lessig, 2001). Da qui il tentativo di trovare soluzioni a metà strada tra il vecchio e il nuovo, compromessi più che necessari a tutela di un bene davvero comune . E’ ad esempio il caso delle licenze Creative Commons nel campo della proprietà intellettuale online. Pur senza negare l’esistenza del copyright, questo viene modellato in base alle diverse esigenze degli autori nei confronti del fruitore finale dell’opera, superando altresì un’intermediazione, quella di editori e distributori, ormai del tutto inutile in ambito digitale. Avendo in mente il public domain, ma senza abdicare completamente ad un ambiguo laissez-faire, vengono offerte diversi tipi di licenze: Attribution -- consentire copia, distribuzione, diffusione dell’opera sotto copyright e dei derivati, purché ne venga dato credito all’autore; Noncommercial -- consentire copia, distribuzione, diffusione dell’opera sotto copyright e dei derivati, ma unicamente per scopi non commerciali; No Derivative Works -- consentire copia, distribuzione, diffusione soltanto dell’opera sotto copyright, non dei derivati; Share Alike -- consentire la distribuzione di derivati purché sotto licenza identica a quella dell’opera originaria (da usare in alternativa alla licenza precedente). Proposta complessivamente ragionevole, nulla di eccessivamente scandaloso o rivoluzionario. Un ragionevole compromesso, quello partorito da Lessig e colleghi, il cui logo "some rights reserved" fa capolino con sempre maggiore insistenze sulle pagine web. E che viene replicato al di fuori dai confini originari: la sezione di International Commons raduna altri otto paesi, incluse la versione giapponese e quella italiana appena avviate (1). Diretta emanazione del tutto, ecco un innovativo progetto appena lanciato dalla Public Library of Science (PLoS), nel campo dell’editoria scientifica, da sempre chiuso al grande pubblico per via di abbonamenti esosi e restrizioni delle biblioteche universitarie. Da ottobre la nuova rivista PLoS Biology viene diffusa esclusivamente in formato elettronico ed `e accessibile a chiunque. Primo mattone verso la costruzione di una biblioteca elettronica contenente svariate migliaia di journal scientifici e aperta al pubblico, in opposizione a un settore tradizionalmente basato sul cartaceo e riservato agli addetti. Questa una sintesi del progetto:

…è ora possibile mettere il nostro tesoro di informazioni scientifiche a disposizione di un pubblico più vasto, inclusi milioni di studenti, insegnanti, medici, ricercatori e altri lettori potenziali che non hanno accesso alle biblioteche specializzate che possano permettersi di pagare le quote di abbonamento alle riviste di settore.

Tre anni fa abbiamo fondato la Public Library of Science per lavorare verso il raggiungimento di queste opportunità. Abbiamo iniziato come una ‘grassroots organization’ di ricercatori per sostenere l’implementazione e la crescita online di biblioteche pubbliche scientifiche, per fornire accesso libero e senza restrizioni alla letteratura scientifica. Oggi, con il lancio di PLoS Biology assumiamo il nuovo ruolo di editori, per dimostrare che riviste di alta qualità possono prosperare senza dover imporre delle tariffe d’accesso. (2)

Interessante anche la licenza legale ad hoc messa a punto dall’organizzazione non-profit e presente in testa ai saggi della rivista:

Copyright: © 2003 Public Library of Science. Questo è un articolo open-access sotto i termini della Public Library of Science Open-Access License, la quale consente uso, distribuzione e riproduzione illimitata in qualsiasi formato, posto che l’opera originale venga adeguatamente citata. (3)

Altre sperimentazioni e potenzialità digitali

Analoga posizione da middle ground ispira un ulteriore modello messo a punto, su basi ancor più pragmatiche, da svariati autori ed esperti USA. Riprendendo la volontà dei padri fondatori codificata nel mandato costituzionale del 1790, il Founders’ Copyright avrebbe una durata di 14 anni con un’unica possibile estensione di altri 14. Onde opporsi così all’attuale tendenza di estensione indefinita del copyright: nell’autunno 1998 il Sonny Bono Copyright Extension Act ha esteso la copertura di un’opera fino a 70 anni dalla morte dell’autore, 95 nel caso di lavori su commissione, undicesima estensione approvata durante gli ultimi 40 anni. Mentre la Corte Suprema statunitense ne ha confermato la costituzionalità, una delle forme di protesta riguarda l’attivazione di un sito appositamente dedicato alla raccolta di elenchi e stralci di lavori che sarebbero passati nel public domain non fosse stato per l’ennesima estensione. Il sito si apre con un invito a "tutti gli artisti a segnalare opere per il nostro progetto di raccolta, Sonny Bono Dead" (4).

[Sonny Bono faceva parte del nota coppia di musicisti pop Sonny & Cher, poi divenuto deputato e improvvisamente scomparso nel 1998, poco dopo aver stilato il disegno di legge che ne porta il nome.]

Operano intanto, in ambito specificamente elettronico, alcune iniziative concrete mirate al riversamento digitale di libri e biblioteche cartacee. Il team di Project Gutenberg, avviato nel 1971, ha finora digitalizzato circa 10.000 classici non coperti da copyright, mirando a raggiungere il milione di volumi. Identico l’obiettivo dichiarato del Million Book Project che passa allo scanner vecchi titoli di dominio pubblico, documenti governativi nonché libri editi in India e Cina, dove le restrizioni del diritto d’autore sono assai meno ferree. In questi paesi, `e inoltre attiva una stimolante appendice al progetto, Internet Bookmobile: furgoni che vanno in giro con dish satellitare, computer, stampante e rilegatrice per l’immediato download e produzione (a qualità decente) di libri fuori catalogo o introvabili. Una sorta di publishing on demand onde evitare la sparizione definitiva di titoli volutamente abbandonati dagli stessi editori o di cui `e impossibile risalire all’attuale detentore del copyright.

Per non parlare di Search Inside the Book, ultima delle molteplici innovazioni firmate Amazon che nasconde un progetto ambizioso e lungimirante: passare allo scanner i milioni di volumi in magazzino, rendendone disponibile il testo ai cyber-utenti. Meglio, soltanto le immagini delle pagine, perché non `e possibile farne il download o copiarlo, né leggere oltre il 20 per cento di ciascun volume. "L’obiettivo `e aiutare gli utenti a localizzare un certo libro," spiega Udi Manber, ideatore del progetto, "non di creare una nuova fonte d’informazione." Gli fa eco il boss Jeff Bezos: "E’ cruciale capire che si tratta di un modo per far avvicinare gli acquirenti ad autori ed editori: siamo in piena sintonia con questi ultimi, il nostro obiettivo è vendere più libri!"(5) Nulla a che fare con i catastrofici e-book, quanto piuttosto il sogno di una biblioteca-catalogo digitale di proporzioni inusitate. Finora sono disponibili online oltre 120.000 libri, con le limitazioni accennate e dopo aver faticosamente convinto i numerosi copyright holder delle ricadute positive per l’intero settore, e finanche oltre. Forse che il testo elettronico non funga da calamita e apripista per l’oggetto fisico (soprattutto nel caso dei volumi cartacei)? E cosa fa Google-superstar se non offrire una ‘semplice’ catalogazione dei siti migliori? Il digitale come palestra sperimentale per incentivi atti a stimolare l’acquisto e al contempo per inventare business model innovativi. Combinazione dalle potenzialità rivoluzionarie (Amazon docet) seppur rischiosa, e quindi abbracciata con scarsa convinzione dai comparti industriali tradizionali. Se quello editoriale è sospettoso, ancor peggio sta messo l’entertainment made in USA.

Che brutta musica!

Per disattenzione e ingordigia, da qualche tempo `e l’industria musicale a trovarsi nell’occhio del ciclone. (Ma la banda larga di massa sta riservando identico destino ai film, di cassetta o meno che siano). La strada finora scelta in risposta alle sfide del digitale, zero-tolerance contro milioni di utenti dediti al file sharing, appare inutile e controproducente. Non importa quanto vadano a braccetto legislatori e Hollywood e corporation high-tech, è impossibile rimuovere o bloccare tutte le tecnologie di condivisione odierne e soprattutto future. Lo dimostra l’alveare pulsante che, dopo l’abbattimento legale di un Napster spavaldo ma centralizzato, ruota intorno a network peer-to-peer (P2P) ultra-decentralizzati quali Kazaa, Grokster, Morpheus. Come pure impossibile è farci passare tutti per ‘pirati’, criminalizzando e perseguendo penalmente ragazzini e anziani rei di aver prelevato o distribuito sul web canzoni sotto copyright. Com’è noto, ci sta provando alla grande la Recording Industry Association of America (RIAA), le cui crociate giudiziarie vanno suscitando, insieme a qualche patteggiamento per multe ridicole e a una manciata di utenti terrorizzati corsi a ripulire il proprio hard drive, le contromosse legali di varie organizzazioni. Tra queste, la Electronic Frontier Foundation (EFF) recentemente ha anche diffuso un articolato manuale di autodifesa su come evitare le denuncie della RIAA e uno spassoso filmato online in cui ironizza non poco sulle bordate contro il file sharing (4). Ma tutto questo bailamme significa forse che internet incoraggi la fine del grande business per come lo conosciamo? Tutt’altro. Un solo dato recente: secondo il Media Group britannico nel 2010 l’industria cinematografica USA potrebbe incassare fino a 1,3 miliardi di dollari l'anno distribuendo film via internet. E’ vero che la somma potrebbe subire rosicchiamenti a causa delle incontrollabili reti P2P, ma tutto sta a muoversi in maniera tempestiva e in accordo con la volontà popolare anziché fare lobby per legislazioni ultra-repressive che alla lunga aiutano ben poco tanto gli utenti quanto la stessa industria. Abbiamo forse dimenticato cosa è successo con l’avvento del VHS 25 anni fa? Anche allora le major del cinema gridavano ‘al lupo, al lupo,’ temendo il patatrac economico e alzando gli scudi a tutela del copyright. Al colmo della follia, Universal City Studio portò in tribunale Sony per infrazioni al copyright, perdendo tuttavia la causa: qualcuno aveva registrato programmi TV su videoregistratori formato Betamax (poi soppiantato dal VHS). Solo dopo simili uscite, l’industria si accorse del lucrativo mercato che gli si apriva davanti, tuffandocisi a capofitto. Analogo lo scenario odierno: di fianco all’enorme traffico ‘illegale’, il 2003 è stato caratterizzato dalla rampante ascesa dei servizi di musica online a pagamento. Dalla partenza bruciante in aprile, iTunes di Apple dichiara di aver venduto oltre 17 milioni di pezzi a un dollaro cadauno, mentre oggi operano sul web almeno una decina di spazi similari (da MusicNow/BestBuy a Rhapsody di RealNetworks al Napster legale di proprietà Roxio). Senza contare l’imminente arrivo degli appositi siti di giganti tipo Wal-Mart, Sony, Dell, Amazon e il lancio a inizio 2004 dell’atteso servizio firmato Microsoft che potrebbe sbancare tutti, basato com’è sull’onnipresente Windows Media Player (6). Nel frattempo, band di ogni genere s’affidano pienamente al web, puntando all’auto-promozione e saltando ogni intermediazione commerciale. Mentre, altro effetto del proibizionismo ufficiale, molti ‘song swappers’ continuano ad operare tranquillamente in clandestinità, grazie a tecnologie che garantiscono un alto grado di privacy e di sicurezza, oltre all’anonimato e alla capacità di gestire file di ampia grandezza. Ovvio che se le major del disco non si daranno una bella regolata in tempi rapidi -- differenziando i prodotti, offrendo incentivi ai consumatori, abbracciando anziché rifiutando il treno digitale -- ne sentiremo ancora delle belle.

Libertà e cooperazione: dal software libero all’enciclopedia open source

Questa serie di sperimentazioni senza rete, questi modelli legali creati su misura per le esigenze di artisti e utenti, risultano vieppiù cruciali in questa fase del dibattito pubblico in USA. Dove si assiste alla netta polarizzazione delle posizioni, con l’apparente impossibilità di trovare soluzioni soddisfacenti un po’ per tutti. "Siamo passati da una società libera a una società feudale, c’è un allarmante ritorno al maccartismo in America," ribadisce ancora Lessig in un recente articolo apparso su La Stampa (7). "Così come McCarthy negli anni ‘50, sostenuto dal clima internazionale di guerra fredda tra Usa e Urss, condusse una assurda guerra terroristica contro le streghe comuniste negli Usa, oggi McCarthy è tal Lois Boland che - sostenuto dagli interessi di potenti lobby multinazionali (gli imperi dei media guidati da Hollywood e dalle major discografiche) che si sentono minacciate da Internet - conduce una guerra a tutto campo in nome della proprietà intellettuale e del diritto d’autore, regolamentando tutto oltre ogni limite di ragionevolezza." Invece la nostra società, libera e occidentale, è basata su un concetto diametralmente opposto: tutto è permesso tranne ciò che è vietato. Ecco quindi che gli esperimenti di cui sopra, e altri in avvio nelle discipline più disparate, trovano fondamento in quella che può a ragione definirsi la madre di tutte le licenze libere: la GNU General Public License (GNU GPL). Ideata nel 1989 da Richard Stallman per la tutela del software libero, questa poggia a sua volta su un meccanismo semplice ma granitico: per trasformare un programma in copyleft, prima lo dichiariamo sotto copyright; poi aggiungiamo i termini di distribuzione, strumento legale onde garantire a chiunque il diritto all'utilizzo, alla modifica e alla redistribuzione del codice di quel programma o di qualsiasi altro da esso derivato, ma soltanto nel caso in cui i termini della distribuzione rimangano inalterati. Così il codice e le libertà diventano inseparabili a livello legale (Stallman, 2003). Il permesso d’autore (copyleft) in sostituzione di un diritto d’autore (copyright) incapace di tener testa alle sfide culturali della nostra epoca. In questi anni l’irresistibile trovata di Stallman, ha stimolato (e continuerà a farlo in futuro) l’innovazione e il lavoro dei programmatori, ne è testimone il crescente numero di pacchetti diffusi sotto GNU GPL -- da quelli realizzati sotto l’egida della Free Software Foundation allo stesso kernel Linux coordinato da Linus Torvalds. Mettendo contemporaneamente in luce la centralità del processo collaborativo alla base di tale lavoro, salito poi alle stelle sull’onda lunga dell’open source e del sistema operativo GNU/Linux. Del tutto superfluo ribadire in questa sede le tappe del dilagante successo del pinguino (6). E’ sufficiente rammentare qualche dato recente: l’acquisto di server basati su Linux cresce del 35 per cento l’anno e entro il 2007 copriranno il 23 per cento del mercato. Di fianco ai massicci investimenti di colossi quali IBM e Hewlett-Packard, non si contano le distribuzioni attive in tutto il mondo, con Red Hat e SuSE (da poco nel gruppo Novell) in testa. Agenzie governative e amministrazioni pubbliche di oltre 40 nazioni, in aggiunta a enti internazionali di varia natura, prevedono o stanno studiano normative per l’adozione di sistemi Linux e software open source in sostituzione dei tradizionali (e costosi) pacchetti proprietari. Nei paesi in via di sviluppo il software libero si va imponendo come scelta affidabile, elastica e, cosa non da poco, assai meno esosa dei pacchetti proprietari. Altro elemento cruciale, la messa a punto di un'infrastruttura pubblica in cui sia possibile avere accesso al codice e modificarlo opportunamente può rapidamente affermarsi come motore trainante per un rilancio economico basato su forze e competenze locali. Oltre che contributo vitale al superamento del cronico digital divide con il mondo industrializzato. Attualmente sono paesi quali India, Taiwan, Cina, Brasile, Argentina a guidare la classifica per quanto concerne l'utilizzo del software libero, mentre la gran parte del codice sorgente arriva dai programmatori di Africa, Asia e America Latina. Non a caso la 'missione' di Richard Stallma è da tempo diventata quella del globetrotter, e c'è da scommettere che gli effetti a lunga scadenza della sua opera continueranno a riverberare ovunque. Al riguardo, ecco una breve descrizione curata dall’Associazione Software Libero:

Ma a volte capita anche che un movimento nato spontaneamente agli albori dell'era digitale e poi ufficializzatosi per difendersi dalle aggressioni delle regole del business, qual’è il software libero, penetri le mura di quelle stesse istituzioni portando, seppur lentamente e con difficoltà di comprensione, i propri valori al vaglio di amministrazioni centrali e periferiche. Contribuendo così non solo alla veicolazione del proprio messaggio intrinseco, ma anche a una maggiore democratizzazione degli enti pubblici attraverso l'accesso ai dati e alle informazioni. E, non ultimo, a volte anche al superamento del gap tecnologico tra il primo mondo, l'Occidente industrializzato e potente, e gli altri mondi, quelli dai capitali limitati e dall'assenza di tecnologia capillare o, quanto meno, diffusa. (9)

Nel frattempo, sistemi basati su collaborazioni aperte e orizzontali vengono oggi implementati nei campi più disparati del sapere e dell’imprenditoria. Qualche esempio? Lo Human Genome Project, dove centinaia di ricercatori sono impegnati nel definire le sequenze del DNA umano, o la missione Marte della NASA con gli utenti online corsi ad aiutare nell’identificazione di milioni di crateri e nella mappatura del pianeta rosso. E che dire della "grassroots encyclopedia", gravida di conoscenza diffusa, collaborativa e senza proprietari, liberamente accessibile via internet? Partorito nel 1991 dalla fervida mente di Jimmy Wales, Wikipedia (5) rispecchia fedelmente i principi del modello open source/software libero: chiunque può sottoporre un articolo e chiunque può dedicarsi al relativo editing, mentre le revisioni appaiono in un’apposita pagina dove i redattori fanno confluire man mano i suggerimenti di modifica. La versione-base (in inglese) di Wikipedia (7) tocca ormai le 175.000 voci, ognuna delle quali, a giudizio generale, contiene una dovizia di informazioni valide, documentate e aggiornate. In estate Wikipedia ha superato il sito della ben più illustre Encyclopedia Britannica per numero di "hit" giornalieri. E nel 2004 uscirà Wikipedia 1.0, in volume e CD-ROM a pagamento, contenente una scelta di circa 75.000 voci, stavolta riviste e corrette a livello di esperti, per utilizzi sia commerciali sia gratuiti sotto diversi tipi di licenze. Che si voglia forse bissare l’affermazione del business model di Red Hat? E aprire l’ennesima breccia commerciale basata su un progetto bottom-up, aperto e collaborativo?

Blogosfera e informazione

Come visto finora, la ‘ricca cultura della confusione’ propone e produce senza risparmiarsi. E lo fa per lo più evitando le contrapposizioni frontali, preferendo andare per la propria strada anziché dar corpo a inutili polemiche e attacchi. La stragrande maggioranza del mondo (e dei programmatori) open source/software libero evita bravamente la trappola di assumere posizioni anti-Microsoft. Oppure il trabocchetto di scendere in aperto campo politico: obiettivo di Stallman e dei vari chapter della Free Software Foundation, incluso quello italiano, rimane unicamente la tutela della libertà del software. Anche se poi le varie componenti dell’eclettico movimento che dà vita a questa nuova frontiera finiscono non di rado per ritrovarsi sulla stessa barricata. E’ il caso della recente opposizione alla brevettabilità del software o a norme tipo l’European Union Copyright Directive e il corrispettivo statunitense Digital Millennium Copyright Act: eventi che hanno radunato una gamma di associazioni che spazia dalla EFF all’American Civil Liberties Union, in USA, da Assoli alla Foundation for a Free Information Infrastructure in Europa. Oltre ovviamente a una marea di singoli individui. Anche qui, però, vige un estrema fluidità: le diversità di comportamenti e posizioni sulle questioni specifiche rafforzano, piuttosto che indebolire, quest’arcobaleno movimentista, lasciando ampio spazio di manovra (e adesione) a chiunque e creando una molteplicità di fronti operativi. L’assunto di fondo, tipico della condivisione di una cultura seriamente globale, è che le differenze uniscono anziché dividere. In pratica ciò si traduce nella concreta implementazione di modelli elastici, innovativi e ampiamente condivisibili (vedi Creative Commons o Wikipedia) ciascuno nel proprio ambito operativo. Analogo l’andamento in corso per il terreno scottante dell’informazione di massa: quanto oggi veicolato dalla blogosfera colpisce ben oltre l’ambito online (8). Nel contesto più ampio, va comunque ricordato che anche i blog volano sulle ali di quel "free speech" che diede i natali alle prime BBS di inizio anni ‘80 e poi in rapida successione a progetti più sofisticati, parte integrante delle tecnologie di comunicazione: mailing list, conferenze di discussioni, comunità virtuali, home page -- senza dimenticare lo strumento originario e tuttora basilare della e-mail. Ultimo arrivato ma dalle spalle solide, il canale dei web-log (meglio noti, appunto, come blog) riafferma e rilancia le potenzialità trasversali di una libertà d’espressione tanto fondamentale quanto spesso data per scontata e finanche sopraffatta dal dilagare dell’internet più biecamente commerciale. Un’esplosione che in quasi quattro anni di vita ha superato i quattro milioni di unità, mentre alcune fonti prevedono, entro la fine dell’anno prossimo, 10 milioni di blog (11). Meglio, la cifra indica quelli aperti, sotto gli auspici di aziende-leader quali Blogger, Blogspot e LiveJournal, perché pare alquanto difficile mantenerli in vita. Una recente indagine su 3,634 blog riporta che due terzi non avevano subito aggiornamenti per almeno due mesi e un quarto erano fermi al primo giorno (14). Comunque sia, accanto alla popolare dimensione di diario personale online, il trend più recente riguarda l’uso dei blog in ambito imprenditoriale (almeno per quanto concerne gli Stati Uniti, punto di riferimento valido altresì per buona parte di questo testo). Aziende di ogni tipo e dimensione li usano per le comunicazioni interne, in sostituzione di e-mail, fax e telefonate. Privacy e rapidità, collaborazione e risparmio sono le caratteristiche-base sia della nuova tendenza aziendale sia della rampante diffusione a livello globale (15). Circola proprio di tutto nella blogosfera: tonnellate di notizie locali e/o alternative a quelle mainstream, come pure disinformazione e finanche menzogne. Nulla di più e nulla di meno di quanto già non avvenisse( e non avviene) normalmente nel mare magnum di internet -- strumento ideale, oltre che per la comunicazione interattiva in senso lato, anche per la diffusione di vere e proprie bufale (Molino e Porro, 2003). Nel complesso trattasi però di un ritorno in grande stile al giornalismo amatoriale e investigativo, per non essere più succubi soltanto di quanto ci propina il media monopoly. La cronaca sul campo dal III World Social Forum di Porto Alegre, l’immediatezza dell’11 settembre 2001 o i report in presa diretta dall’Iraq: non c’è dubbio come in questi e molti altri casi l’informazione abbia nettamente superato le agenzie-stampa e i grandi network. Analogamente, le news rilanciate da strutture locali, autonome e decentrate, alla Indymedia, conquistano sempre maggior audience in ogni continente. Così ai grandi media non resta che correre ai ripari, suggerendo magari ai propri reporter di aprire un blog personale, pena la diminuzione di credibilità. Non a caso la Harward School, raggiunta a breve dalla consorella in quel di Stanford, richiede agli studenti iscritti l’attivazione di un proprio blog, i quali spesso fungono da fulcro delle attività nei corsi sui new media, accade alla Graduate School of Journalism presso la University of California di Berkeley. Ma come la mettiamo con l’oggettività del giornalismo tradizionale? Secondo Howard Rheingold, è la mente collettiva della blogosfera a verificare fonti e veridicità, portando in superficie non solo i fatti ma anche argomenti d’interesse più generale. Altri citano proprio il "collaborative journalism" e l’intersoggettività continua a garanzia di una siffatta obiettività, presunta o reale che sia. Un ulteriore strumento di cooperazione e condivisione delle informazioni, dunque, costruito dal basso e a buon diritto colonna portante dei "we media". Neologismo, questo, dalle connotazioni generalmente positive e inclusivo anche dei sistemi file sharing e P2P, che tende ad esaltare il potere ai singoli garantito dalla rivoluzione digitale. Una mappatura dell’immensa conoscenza in circolazione sul web curata dall’individualità delle menti umane coinvolte. Eppure ciò nasconde certi aspetti negativi dell’egocentrismo nell’uso di internet: l’estrema frammentazione della trama sociale, con conseguente scomparsa delle comunità territoriali e l’amplificazione unicamente delle nostre opinioni personali (Sunstein, 2002). Il rischio, più volte denunciato, di un’auto-referenzialità diffusa: dalla circolarità discorsiva delle mailing list all’ossessivo rimando ai medesimi link nei vari blog. Da qui l’importanza di esporsi invece ad argomenti e punti di vista inusuali, qualcosa che tuttavia va perdendo spazio a favore di un super-personalizzato Daily Me online. In tal senso va notato come nel contesto dell’attuale net-society quel che viene esaltato è l’ubiquità dell’informazione -- il cellulare per essere raggiunti sempre e comunque, l’ufficio portatile in spiaggia -- la quale a sua volta afferma la centralità di un’esperienza ultra-individuale in cui la tradizionale arma d’influenza rappresentata dai mass media viene a perdere potenza e/o scompare del tutto. Nell’analizzare le conseguenze a livello sociale di questa differenziazione in atto, è vitale attivare nuovi laboratori di esperienze le più diversificate possibile, onde creare una cultura dei new media saldamente poggiata su una strategia interdisciplinare (Lovink, 2002).

What? Politica open source?

Siamo dunque al passaggio verso il riposizionamento delle istanze e delle culture politiche emergenti grazie alle potenzialità cooperative che animano una parte del magma digitale. Ecco allora gli esperimenti in corso nel contesto della campagna per le presidenziali USA del 2004. Howard Dean, ex-governatore del Vermont e iniziale outsider nel pool democratico, sembra volersi giocare tutto sul turbinare di una miriade di blog, nella stragrande maggioranza ideati e curati direttamente dai suoi sostenitori. L’esperimento in atto mira a trasformare in protagonista quel pubblico normalmente trattato come passivo recettore di un martellante broadcast mediatico. Un test esplicitamente puntato a organizzare l’attivismo reale ispirato dal digitale. E pare funzionare, come testimoniano i primi dati. Finora circa metà dei 25 milioni di dollari per la campagna sono arrivati dal web, per lo più sotto forma di piccole donazioni. Alle riunioni negli uffici locali del Democratic Party la presenza è cresciuta esponenzialmente: a livello nazionale, i 500 partecipanti auto-segnalatisi sul web in gennaio, a metà luglio erano diventati 60.000. Oltre 35.000 cittadini confermano di partecipare alle primarie o ai caucus del proprio stato, mentre altri duemila promettono recarsi in Iowa o New Hampshire per dare una mano nelle prime elezioni, a inizio anno. Il Blog For America, The Official Howard Dean Weblog, segue la struttura di un comune blog: una serie di brevi dispacci, aggiornati quotidianamente dello staff sparso sul territorio nazionale, ciascuno dotato dei tipici spazi aperti per dire la propria. Ogni news offre i relativi link a proposte di legge, articoli e/o altre risorse online. Di fianco agli archivi divisi per ultimi post, categoria e mese, ecco poi una vasta gamma di opzioni per contribuire alla campagna nella maniera più diversificata possibile (denaro, tempo, firme e quant’altro) in un continuo rimbalzo di notizie, link e siti. E, quel che più conta, privilegiando la collaborazione e l’aggregazione orchestrate direttamente dai singoli, in assenza di controlli centralizzati dall’alto. Il tutto dovuto a Joe Trippi, il quale non casualmente vanta un passato di marketing consultant per le dot-com di Silicon Valley, inclusa Progeny Linux Systems, e non fa mistero di essersi ispirato al movimento open source per la campagna di Howard Dean. Certo, siamo ancora agli albori, soprattutto nella politica online, per simili esperimenti di attivismo orizzontale, in assenza di un comandante in capo e poco o per nulla filtrati-organizzati dall’alto. Intanto, nelle scorse settimane `e atterrato sulla blogosfera anche l’ultimo arrivato dei candidati democratici, Wesley Clark. La cui decisione di entrare ufficialmente in campo era stata già motivata, guarda caso, dai contributi piovuti rapidamente online, totale quasi due milioni di dollari. Il Clark Community Network si mostra ancor più ambizioso e agguerrito, basato com’è su un sagace miscuglio tra blog personali e di gruppo. Una volta creato un acconto (gratis) con il network, gli utenti ottengono l’automatica apertura di un proprio blog all’interno del domain forclark.com, potendo inoltre scriversi a diverse comunità e/o categorie per discutere -- dal veterans blog al physicians blog, da Latinos for Clark alla soapbox. Pur se nell’agone politico, particolarmente in USA, quel che conta è il bombardamento a tappeto degli spot TV, la forza d’urto di una simile partecipazione dei netizen potrebbe rivelarsi determinante. Pur se probabilmente è troppo presto perché ciò accada in questa tornata elettorale. "La prima campagna presidenziale open source", sostiene il professor Lessig, affrettandosi però ad aggiungere: "potrebbe anche non funzionare, c’è sempre tempo per inciampare in qualche ostacolo".

Cyber-attivismo e diritti digitali

Al pari dei cyber-esperimenti nelle campagne elettorali, anche l’attivismo online solleva questioni nuove relative all’organizzazione politica e al cambiamento sociale. Ancora una volta urge un approccio interdisciplinare nella disamina delle teorie concernenti punti-chiave quali strutture organizzative, identità collettiva, leadership e contesto politico. (McCaughey e Ayers, 2003). Il matrimonio tra attivismo politico e tecnologie di comunicazione non è certo storia recente. Ogni tipo di ‘movimento’ ha rapidamente fatto buon uso di strumenti tradizionali quali radio, TV, giornali per veicolare all’esterno le proprie informazioni. Le manifestazioni cinesi pro-democrazia in piazza Tienanmen del 1989 e la rivolta dei contadini in Chiapas, dieci anni fa, hanno stimolato il salto nelle computer-mediated communications onde raggiungere un audience globale. Da allora, è storia dei nostri giorni, queste tecnologie emergenti sono divenute il cuore pulsante della protesta organizzata a Seattle, a Genova, a Cancun. Compiendo un altro balzo in avanti, si è rapidamente passati all’uso di internet in quanto tale per manifestare l’opposizione, la rete stessa come terreno di scontro -- non più soltanto strumento atto a coadiuvare l’aggregazione tramite petizioni online, e-mail per coordinare le scadenze, siti web per diffondere appelli a scendere in piazza o resoconti in tempo reale. Il cyber-activism, appunto, che oggi raccoglie un ampia ventaglio di espressioni e esperienze. Si va da veri e propri attacchi contro siti-target tramite "defacement" o "denial of service", alle azioni di disobbedienza civile elettronica coordinate da collettiva quali Hacktivismo (16), a software basato su meccanismi decentrate alla Gnutella per la circolazione di materiale censurato o vietato di governi. Soggetti e finalità anche assai diverse tra loro, ma unite dalla volontà di ricorrere al grimaldello tecnologico per riaffermare la libera circolazione del pensiero e dell’informazione in ogni pare del mondo, soprattutto laddove i governi tentano di limitare i diritti fondamentali dei singoli (Gulmanelli e Dagnino, 2003). Un arcipelago tanto variegato quanto spesso dimenticato, o peggio oscurato, dai media mainstream, come pure spesso ignoto al grande pubblico -- da cui il convinto ricorso al medium elettronico. L’emergere di questo frenetico daffarsi dei giri cyber-sociali viene così rappresentato via via dal movimento anti-globalizzazione, dalle proteste degli ambientalisti, dall’uso del web per l’attività di Amnesty International. E anche dalla contro-informazione del circuito Indymedia, il variegato network a supporto del movimento Zapatista o la web-protest contro la World Bank. Un po’ come per le campagne elettorali online, rimane da stabilire l’effettiva porta ed efficacia di simili strategie centrate sul mondo dei bit: nel caso, ad esempio di petizioni o appelli da firmare sul web, che spesso danno l’illusione di servire a qualcosa ma che invece finiscono per produrre maggior inezia nel quotidiano reale dei singoli. E al di là di forme anche sofisticate di "online culture jamming" (17), è proprio vero che l’attivismo cyber faciliti quello in real life? E’ forse possibile online mettere il proprio corpo sulla linea del fronte? In che modo l’identità collettiva espressa dai siti e blog vari riesce a sostenere gli sforzi di giustizia sociale a livello individuale? Domande queste, affiancate da altre di stampo ancor più teorico nell’ambito degli studi di cybercultura, le cui risposte vanno dipanandosi da un futuro tutt’altro che scontato, e che richiedono l’attenta osservazione (e partecipazione) delle esperienze in corso. Analogamente importante l’evoluzione di situazioni quali flash mobs -- in particolare per le potenzialità aggregative dimostrate finora in eventi tanto estemporanei quanto smaccatamente ludici tenuti in città di svariati paesi. Assisteremo forse al passaggio da tali eventi verso forme di attivismo sociale e politico? Oppure trattasi di fenomeno destinato ad una rapida auto-combustione? Parafrasando Rheingold, non ci resta che vedere se e quali frutti produrrà questa convergenza tra attivismo sociale, cultura pop e tecnologie d’avanguardia. Se e come la transmutazione collettiva verso nugoli di smart mobs riuscirà ad attuare davvero un cambiamento sociale positivo e articolato (18). Qualcosa che dipende in prima istanza da individui e comunità, dai comportamenti di noi tutti all’interno di queste aperte dinamiche. Oltre che, ovviamente, dai diversi livelli di controllo sociale messo in atto da apparati e istituzioni governative. I quali, manco a dirlo, cercano anch’esse di sfruttare al massimo le potenzialità garantite dalla tecnologia. Con conseguenti minacce alla privacy individuale, l’imposizione di censure blocchi sulla circolarità delle idee, l’aumento esponenziale del controllo diffuso. Scenario fattosi drammatico dopo la tragedia dell’11 settembre 2001: nuove leggi restrittive, perdita di libertà, paura e sospetti generalizzati. A partire naturalmente dagli Stati Uniti ma con evidenti estensioni sia in cyberspazio che nel resto del mondo. Negli ultimi due anni pochi governi hannao resitito alla tentaziione di introdurre nuovbe misure a restrizione dei diritti civili. E secondo un recente rapporto sulla censura e il controllo di internet (19), nella prima decade di questo secolo saranno le corporation a minacciare la libertà d'espressione online, tanto quanto le tradizionali censure statali. Nel complesso comunque la situazione e' tutt'altro che rose e fiori. Basti citare un paio di esempi recenti relativi agli USA. All’interno della legislazione per gli stanziamenti 2004, il Congresso ha incluso alcune preoccupanti disposizioni: ampliamento della portata del Patriot Act e riduzione del controllo sull’attività di FBI e altre agenzie investigative (20). A queste ultime, subito dopo l’attentato terrorista, era stato già concesso di ottenere materiale strettamente personale senza bisogno di mostrare prove o richiedere permesso giudiziario -- ricevute bancarie, conversazioni telefoniche, email, log di navigazioni sul web. Il nuovo giro di vite permette formalmente all’FBI di ottenere sull’unghia altri dati personali da un’ampia gamma di comparti: compagnie d’assicurazione, società immobiliari, servizi postali, agenzie di viaggio, casinò, provider internet e "ogni altro business le cui transazioni in contanti abbiano un altro grado di utilità in faccende criminali, regolatorie o fiscali." Criticato da più parti per un ventilato Patriot Act II in lavorazione, l’Attorney General John Ashcroft è così riuscito a far rientrare dalla finestra quest’espansione di poteri, tra un dibattito in aula pressoché nullo e un’identica attenzione di media e pubblico (a ridosso di Thanksgiving e della lunga pausa vacanziera del Congresso fino a gennaio 2004). Mossa emblematica della scarsa considerazione assegnata oggi alla privacy e alla libertà individuale, incluse quella online, e ciò in un paese alfiere di simili principi per dettato costituzionale e pratica quotidiana. Una tendenza destinata certamente a proseguire in futuro, grazie anche all’apporto critico delle nuove tecnologie. Le quali anzi già consentono, fra le molte diramazioni possibili, di far arrivare ovunque l’occhio indiscreto di Big Brother. Non è un mistero come le grandi metropoli brulichino di telecamere-spia. Solo a Manhattan se ne contano circa 9.000, gestite per il 95 per cento da aziende private; cifra che nel 2008 si stima salirà a oltre 1.200 per miglio quadrato. Altre fonti sostengono che le immagini di almeno 10.000 telecamere sparse in luoghi pubblici degli Stati Uniti finiscano sul web. Intanto la metropolitana di Londra sta testando un sistema che dovrebbe predire comportamenti criminali o pericolosi delle persone, mentre sono 30 milioni i telefonini-videocamera in circolazione nel mondo, con tutte le possibili conseguenze (21). Cos’altro aggiungere? Forse che l’abbraccio tra agenzie pubbliche e comparti industriali fa facendosi sempre più ferreo e inestricabile. Una partnership nient’affatto nuova ma che oggi va ben oltre le strategie di sorveglianza e di restrizione della privacy, fino a tentare di limitare la libera circolazione di merci e idee online e di opporsi a ondate innovative nonché a buona parte del net-attivismo. Riusceranno i netizen a organizzare la resistenza militante?

Internet governance a rischio

Complesso anche lo scenario che ruota intorno alla cosiddetta internet governance. Dovendo condensare: da fine anni ‘90 il controllo del "root", nodo centrale che governa la gerarchia di dominio degli indirizzi internet, è passato dalle mani dei ricercatori statunitensi ad un ente internazionale di nuova fattura e in dichiarato stile-business, l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). Un processo che ha portato alla netta diminuzione della libertà e dell’apertura tipiche dell’internet di prima generazione, sostenute e garantite proprio dal lavoro volontario di quei ricercatori (Mueller, 2002). In questi anni di transizione l’ICANN ha dimostrato di non saper che pesci pigliare, continuando però a defraudare una bella fetta di interesse pubblico dalla governance del magma online. L’organizzazione si trova nel bel mezzo della profonda divisione in atto tra i tecnologi che hanno aiutato internet a uscire dall’infanzia e le businesspeople che vogliono accompagnarla nella fase adulta facendo leva sulle sue potenzialità commerciali. Questo il conflitto sottostante, ad esempio, alla recente controversia che ha coinvolto VeriSign, già proprietaria dell’azienda addetta alla registrazione dei domini Network Solutions, acquisita a metà ottobre dall’agenzia di venture capital Pivotal Private Equity per circa 100 milioni di dollari. Con l’accordo VeriSign rimane proprietario dell’enorme database finora accumulato da Network Solutions, consentendole così di rinviare l’utente a una propria pagina di ricerca (Site Finder) ogni qualvolta si digita un dominio errato o contenente dei refusi. Pratica che in precedenza segnalava i tipici messaggi di errore 404: Not Found, e che non ha mancato di sollevare le ire del popolo di internet. Fatto ancora più importante, l’episodio ha portato alla luce le mire espansioniste, seppur motivate, del pool commerciale chiamato alla gestione della root. Questa la spassionata opinione di Stratton Sclavos, CEO di VeriSign: "Esiste l’ovvia necessità per la rete di maturare, di trasformarsi in quell’infrastruttura di cui si abbisogna se dobbiamo farci girare sopra l’economia. La popolazione globale merita un network commercialmente affidabile e robusto, con i sottostanti servizi di supporto, perché il modo in cui internet è cresciuta negli ultimi 20-25 anni rivela falle laddove non è il caso ne esistano" (22). Ovvero? Occorre incrementare la sicurezza contro intrusioni illegali, impedire il propagarsi diffuso di virus e worm vari, e velocizzare al massimo un’infrastruttura operativa il cui mantenimento è tuttora condiviso da accademici, militari, business. Quest’ultimo settore spinge alla grande altresì per l’ulteriore riforma dell’ICANN onde promuovere innovazione, stabilità e soprattutto competizione -- una sorta di trade association. Per i non pochi critici, invece, l’istituzionalizzazione del root va inaridendo parte del tessuto sottostante ai fenomeni più appariscenti, di quell’humus vitale che sostiene ambiti quali network sociali, liste di discussione e la stessa blogosfera. I quali non a caso, sfiorita la new economy e in attesa di un dot-com al rilancio con annesse iniezioni di contante per start-up ridotte al lumicino, sono a costante rischio di soffocamento. In altri termini: come fare a difendersi da assalti commerciale di ogni tipo, da spammatori capaci s’insinuano e infiltrarsi ovunque, dall’impossibilità di trovare sponsor adeguati? Se e come tutelare l’infrastruttura di internet come bene pubblico, pur con tutti gli innesti commerciali necessari al suo fabbisogno quotidiano? E’ davvero in atto un cultural divide sul futuro di internet?

In definitiva...?

Il frastagliato scenario fin qui dipinto non consente certamente previsioni azzardate. La nuova frontiera elettronica si mostra più complessa e articolata da conquistare, ma anche da abitare e colonizzare, di quella che l’ha preceduta. Ricordando comunque che, al contrario di quella del Wild West cui fa esplicito riferimento l’allocuzione saccheggiando la storia degli Stati Uniti, può estendersi indefinitamente e le sorprese sono sempre dietro l’angolo.

La nascita della frontiera elettronica, nell’immaginario mediatico della scena statunitense, risale intorno al 1990. Fu in quell’anno che le autorità federali lanciarono una vasta e improvvisa campagna repressiva contro le attività illecite dei computer hacker, con decine di arresti, pesanti denuncie, enormi sequestri di apparecchiature e dati personali. Venne così allo scoperto il lato oscuro del mondo della comunicazione telematica, allora in rampante crescita oltreoceano. L’esistenza del "brave new world of computer crime", come illustra magistralmente Bruce Sterling nel best-seller Hacker Crackdown (23), dimostrò come, al pari del mondo reale, anche in quello virtuale vivessero esseri umani. Con gli identici pregi e difetti con cui abbiamo a che fare giorno dopo giorno. Ma anche, e forse soprattutto, con la potenzialità e la creatività necessarie per maturare e andare oltre. Inclusi business model di successo. Se è vero come è vero che il cyberspace rispecchia fedelmente la vita del mondo reale, allora non resta che rimboccarsi le maniche e darci dentro di buona lena.

Bibliografia essenziale

Geert Lovink, My First Recession: Critical Internet Culture in Transition, V2_NAi Publishers, Rotterdam, 2003

Geert Lovink (editor), Uncanny Networks: Dialogues with the Virtual Intellingentsia, The MIT Press, Cambridge, 2002

Lawrence Lessig, The Future of Ideas: The Fate of the Commons in a Connected World, Random House, New York, 2001,

Software Libero, Pensiero Libero: saggi scelti di Richard Stallman, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2003 [due volumi separati]

Rebecca Blood (editor), we’ve got blog: how weblogs are changing our culture, Perseus Publishing, Cambridge, 2002

Walter Molino e Stefano Porro, Disinformation Technology: Dai falsi di Internet alle bufale di Bush, Apogeo, Milano, 2003

Stefano Gulmanelli (con Arianna Dagnino), PopWar: Il NetAttivismo contro l’Ordine Costituito, Apogeo, Milano, 2003

Cass R. Sunstein, Republic.Com, Princeton University Press, Princeton, 2002

Howard Rheingold, Smart Mobs; The Next Social Revolution, Perseus Publishing, Cambridge, 2002

Martha McCaughey & Michael D. Ayers (editors), Cyberactivism: Online Activism in Theory and Practice, Routledge, London/New York, 2003

Milton Mueller, Ruling the Root: Internet Governance and ther Taming of Cyberspace, The MIT Press, Cambridge, 2002

Note:

(1) L’avvio della sezione italiana di Creative Commons `e stata annunciata dallo stesso Lessig nel corso del convegno La conoscenza come bene publbico comune: Software, dati saperi (Torino, 17-18 novembre 2003). Maggiori informazioni:

http://www.creativecommons.it/

http://creativecommons.org/projects/international/

http://www.csi.it/italiano/open_s_html/open_s.htm

(2) Why PLoS Became a Publisher, Editorial, PLoS Biology, Volume 1, Issue 1, October 2003: http://www.plosbiology.org/plosonline/?request=get-document&doi=10.1371/journal.pbio.0000036

(3) Ente nonprofit fondato nell’ottobre 2000 dal premio Nobel per la medicina 1989 Harold Varmus, dal biologo molecolare Pat Brown (Stanford University) e dal biologo Michael Eisen (University of California di Berkeley).

Maggiori informazioni: http://www.publiclibraryofscience.com/

(4) Illegal Art: http://detritus.net/illegalart/sonnybono/#

(5) The Great Library of Amazonia, Wired Magazine, December 2003: http://www.wired.com/wired/archive/11.12/amazon.html

(6) How not to get sued by the RIAA: http://www.eff.org/IP/P2P/howto-notgetsued.php; The Great MP3 Caper: http://www.eff.org/share/mp3caper.php

(7) "Microsoft to Give Music a Whirl", Wired News, 18/11/2003: http://www.wired.com/news/business/0,1367,61278,00.html?tw=wn_tophead_11

(8) La privatizzazione delle idee, La Stampa, 24/11/2003, ripreso da Quinto Stato: http://www.quintostato.it/archives/000495.html

(9) Wikipedia conta circa 800 redattori attivi, tutti volontari, pur se con 17.500 acconti aperti e un numero imprecisato di collaboratori anonimi, mentre le lingue in cui viene gradualmente tradotto il materiale hanno ormai raggiunto la quarantina. Il progetto gira ovviamente su Linux, e trae ispirazione diretta da Wiki: in hawaiano significa veloce, e indica sia il software open source per web-design sia il documento ipertestuale cos`i creato.

Maggiori informazioni: http://en.wikipedia.org

(10) Buone fonti d’informazione, in italiano e costantemente aggiornate, sul mondo open source e software libero: http://www.apogeonline.com/Openpress

http://punto-informatico.it/archivio/canali.asp?i=Linux+e+opensource

(11) Tratto dal secondo volume di Software Libero, Pensiero Libero: saggi scelti di Richard Stallman.

Maggiori informazioni sull’Associazione Software Libero: http://www.softwarelibero.it/

(12) Per una panoramica storico-teorica, si veda la tesi online di James Branum: http://www.ajy.net/jmb/blogphenomenon.htm

Tra i volumi cartacei in circolazione, importante la raccolta di saggi we’ve got blog: how weblogs are changing our culture.

(13) Dati diffusi a met`a novembre 2003 da Perseus Development Corporation, software-house per sondaggi con base in Braintree, Massachussetts.

(14) Associated Press, November 3, 2003

(15) Per una breve ma efficace panoramica della blogosfera:

Blog Space: Public Storage For Wisdom, Ignorance, and Everything in Between, Wired Magazine, June 2003: http://www.wired.com/wired/archive/11.06/blog_spc.html

(16) Redatta dal fondatore-tuttofare Oxblood Ruffin e pubblicata il 4 luglio 2001, Independence Day, dopo oltre un anno di lavorazione, la Hacktivismo Declaration si richiama esplicitamente alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Il sito `e ovviamente una miniera di informazioni (e software) aggiornate su ogni ambito dell’attivismo online: http://www.hacktivismo.com

(17) "Ci definiamo culture jammers. Siamo uno sciolto network globale di media activist che si auto-considerano le shoccanti truppe avanzate del movimento sociale più significativo dei prossimi vent’anni." Così Kalle Lasn, fondatore del mensile Adbusters, in apertura del suo libro Culture Jam: The Uncooling of America (Eagle Brown, New York, 1999). Stategie anti-corporation, militanza contro advertising e consumismo, operazioni di net.art e altro cultural jamming: http://www.adbusters.org

(18) Importante in tal senso l’omonimo blog, sotto l’attenta gestione dello stesso Rheingold: http://www.smartmobs.com

(19) silenced - an international report on censorship and control of the internet (september 2003): http://www.privacyinternational.or/survey/censorship

(20) http://www.wired.com/news/print/0,1294,61341,00.html

(21) You’re Being Watched, Wired Magazine, December 2003

(22) The cultural divide and the Internet's future, intervista di Charles Cooper per CNET News.com:

http://news.com.com/2008-7347-5092590.html

(23) Bruce Sterling, The Hacker Crackdown: Law and Disorder on the Electronic Frontier (Bantam, New York, 1994). Il testo integrale è liberamente disponibile su diversi siti web: http://www.eff.org/pub/Publications/Bruce_Sterling/Hacker_Crackdown/