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NASCITA DEL MOVIMENTO NEOFREUDIANO

Tratto da “Psicoanalisi  Neofreudiana” di  VIRGINIA GILIBERTI TINCOLINI

Seconda parte

All’assenza di interesse di Freud per l’ambiente in cui è immerso l’individuo, Sullivan oppone l’importanza che ha per la formazione del carattere dell’individuo il reale rapporto tra le persone e la loro reciproca comunicazione. Da questo punto di vista le relazioni interpersonali infantili acquistano una grande importanza e significato, dato che dalla loro maggiore o minore drammaticità e risoluzioni possono verificarsi caratteri e modelli di comportamento normali o devianti visibili nell’età adulta. Soprattutto è importante il rapporto comunicativo tra il bambino e la famiglia, in particolare con la madre; primariamente come rapporto “empatico “ cioè sentito  più che capito, cioè a livello emozionale più che di elaborazione intellettuale. Una comunicazione inadeguata porta a disturbi mentali in cui i processi mentali sono ostacolati  dall’ansia (l’ansia costituisce anche un’atmosfera che coinvolge le persone che entrano in rapporto). Rapporti infantili molto carichi di ansia determineranno nell’adulto difese abnormi nel tentativo (spesso non riuscito) di trovare sollievo da tale emozione e di raggiungere “il bisogno di sicurezza interpersonale”.
Sullivan cercò di occuparsi di psichiatria  fin dal 1920 e i suoi primi contatti  furono con soggetti schizofrenici ricoverati nell’O.P.  allo Sheppaed and  Enoch Pratto Hospital  di Towson, in Maryland. Per molti anni tentò di applicare la tecnica e la teoria psicoanalitica alla terapia degli schizofrenici, senza ottenere  alcun risultato; si rese conto, presto, che la tecnica classica non riusciva a comunicare in modo utile col paziente, anzi il più delle volta provocava  un aumento dell’ansietà psicotica. In quel tempo, da parte di vari studiosi venivano prospettati nuovi orientamenti  tecnologici a causa  dell’insoddisfazione per gli scarsi risultati  terapeutici, specie ad opera di Rank  e di Ferenczi che ponevano in risalto l’importanza del rapporto umano fra analista e paziente. Per Ferenczi, l’analisi non si basa  sulla fama o sull’affabilità del medico, che deve essere sincero  ed onesto tanto da ammettere anche i propri errori, deve tenersi fermo nella propria posizione, controllare il proprio narcisismo e controllare le proprie reazioni emotive; deve avere una certa umiltà e sviluppare una vera empatia. Ferenczi era sorpreso dalla somiglianza che riscontrava in alcuni punti fra le sue idee e quelle di Sullivan. A differenza di Freud, che non credeva nelle possibilità transferenziali delle psicotico  (poiché questo tiene per se la libido e non è capace di trasferirla sull’analista) Sullivan si convinse, per la notevole esperienza che andava facendosi  nel vivere a contatto con questi malati, che negli schizofrenici  esistono fenomeni di transfert  ma sono così enormemente ingigantiti  da non essere percepibili obiettivamente: lo schizofrenico, cioè, non stabilisce in principio un rapporto emotivo col terapista  come persona reale, perché non vede solo l’immagine che di lui si è fatto interiormente. E’ da questa sua esperienza  quindi che, in contrasto con la psichiatria di Kraepelin, Sullivan affinò le sue  notevoli capacità cliniche  per capire i fenomeni schizofrenici, e cominciò a sviluppare quell’approccio  metodologico che sarà poi la base della teoria interpersonale della psichiatria. La personalità, a suo parere, è una entità ipotetica che non può essere studiata indipendentemente  dalla situazione interpersonale. L’indirizzo di Sullivan è molto vicino alle concezioni che portarono Reich “all’analisi sul carattere”, con la differenza che Sullivan la applica alla terapia dei soggetti schizofrenici. Sullivan sapeva lavorare con la personalità fragile dello psicotico, evitando tutto ciò che ne può accrescere l’ansia, per fare aumentare la fiducia in se e la sicurezza nei rapporti sociali. Non faceva interpretazioni premature, perché queste aumentavano le difese. Coglieva l’ansietà nascosta nella razionalizzazione, nella collera e nel silenzio, nel cambiare argomento e in tanti altri atteggiamenti difensivi: ne localizzava le origini e la faceva rivivere al paziente fino a lenirla senza tuttavia reprimerla e scotomizzarla. Sullivan parlava molto con questi pazienti anche se loro rimanevano zitti, ma faceva loro sentire il suo interesse e il suo calore. Educato alla tradizione umanistica della psicologia e delle scienze sociali in America, Sullivan condannava il materialismo freudiano, il dogmatismo e il rituale europeo. In merito alla terapia in genere, Sullivan sottolinea l’importanza di una osservazione attenta e attiva dei processi interpersonali che si svolgono nel colloquio psichiatrico. In particolare, il terapeuta deve essere pronto a cogliere le interferenze dell’angoscia sulla comunicazione. Uno dei principali compiti terapeutici e, secondo Sullivan, quello di rimuovere le cosiddette deformazioni paratassiche che risultano dalla tendenza ad attribuire ad altri le caratteristiche proprie di persone che hanno avuto un ruolo importante nel proprio passato. Questo è un concetto analogo a quello freudiano di traslazione. Nella teoria sviluppata da Sullivan i postulati sono pochi mentre è grande l’elasticità: in essa sarebbe almeno in parte evitata la dicotomia  tra teoria e pratica che è molto mancata in altri indirizzi. Notevoli somiglianze al pensiero di Sullivan si ritrovano nella Horney e nel pensiero di Fromm. Questi studiosi, nutriti dal pensiero umanistico e sociale dell’Europa degli anni venti, mettevano in evidenza il Se nel contesto degli specifici campi culturali, dei vari tipi di rapporto umano, e di particolari modelli di relazioni interpersonali. Molto vicino anche il pensiero di Ferenczi. Nata nel 1885 ad Amburgo, da famiglia protestante, Karen Horney si laureò in medicina nel 1913 a Berlino dove trascorse la maggior parte della sua vita all’epoca dell’ascesa  e della caduta del terzo Reich; nutrì scarsa attitudine per la politica  attiva, pur interessandosi  molto di questioni sociali e sostenendo con generosità cause liberali. La Horney ha senza dubbio fornito un contributo di grande interesse per lo studio della nevrosi dal punto di vista delle difese dell’Io. Il suo merito è anche quello di aver segnalato il ruolo etiologico che nelle nevrosi deve essere attribuito  alle contraddizioni della vita moderna, che stimola contemporaneamente l’individuo verso la competizione e verso l’amore fraterno, che predica la libertà e vincola sempre più l’individuo alle esigenze collettive. Molti dei risultati clinici della Horney sono stati in seguito fatti propri dallo sviluppo della psicologia dell’Io. La psicoterapia ha per la Horney come scopo principale il riconoscimento delle difese dell’Io attraverso un’attenta e profonda osservazione delle reazioni del paziente nella situazione analitica. La critica alla teoria delle pulsioni: nel 1939, con la pubblicazione dell’opera “Nuove vie della psicoanalisi”  la critica alla teoria pulsionale si fa ben più profonda e precisa. La Horney contesta l’orientamento biologico di Freud  che – a suo parere – lo porta a concepire le manifestazioni  psichiche come risultato  di forze chimico-fisiologiche , a dare un’enorme importanza  ai fattori ereditari e costituzionali ed a sottolineare le influenze  ambientali. Inoltre, il fatto che la teoria della libido sia una teoria istintivistica, dal momento che non è possibile cambiare ciò che la biologia determina, porta la terapia a dei limiti che in se stessa non ha. Anche la natura sessuale della libido non è provata. Anzi, l’interpretare qualunque sentimento, tipo di paura o ostilità, come derivato da una frustrazione di impulsi libidici  è per lei errato in quanto  “non c’è un nesso causale che collega gli impulsi e le attitudini non sessuali  con le manifestazioni di libido”. (cfr. Horney  K.  “Nuove vie della psicoanalisi”, Bompiani, 1956,, pag. 60). La sostituzione di un impulso al piacere con un altro, non prova che essi abbiano tra loro un’affinità. Dal fatto che per Freud la personalità dipenda in gran parte dalla natura sessuale della persona, deriva il concetto di nevrosi, vista come il risultato di una regressione dalla fase genitale a quella progenitale, dovuta ad una frustrazione di impulsi istintivi. Secondo la Horney, invece, la reazione spropositata di un nevrotico di fronte alla frustrazione dipende dal fatto che le sua aspettative sono eccessive e contraddittorie  e che viene minacciata la sua sicurezza, dal momento che molti dei suoi bisogni e desideri sono provocati dall’ansia. Nella revisione critica che la Horney  fa del modello freudiano, rientrano anche alcuni concetti fondamentali  quali il complesso di Edipo, il narcisismo, l’istinto di morte, la struttura tripartita. Anche Eric Fromm, come la Horney, nell’elaborare la propria teoria parte da un’analisi critica della teoria freudiana. Scopo del suo lavoro è stato quello di integrare la teoria psicodinamica dell’inconscio  di Freud con la teoria della critica storico-sociale di Karl Marx. Fromm parte dal presupposto che la vita interiore dell’uomo si plasma sul contesto storico e culturale in cui vive. Per lui il problema fondamentale della psicologia è quello del rapporto tra l’individuo e il suo mondo, e non quello del soddisfacimento e della frustrazione delle pulsioni, come sosteneva Freud. Questo rapporto è in continua evoluzione, è dinamico e non statico, non è innato ma acquisito nel processo di acculturazione. “La comprensione della vita umana – scrive Fromm – deve basarsi sull’analisi di quei bisogni dell’uomo che sorgono dalle condizioni della sua esistenza” (cfr.  Moreno M. “Venti argomenti per un seminario di psicoterapia”, pag. 50, Boringhieri). Questi bisogni peculiari dell’uomo vengono da Fromm riassunti in cinque punti: il bisogno di trascendenza, cioè il bisogno di elevarsi mediante la creatività; il bisogno di radicamento; il bisogno di identità; il bisogno di uno schema di riferimento. L’uomo di oggi, nella moderna società industriale, è privo di strutture orientative, dai legami primari della famiglia, della patria, della religione, per cui si sente solo ed impotente. Cerca allora dei legami sociali mettendo in atto alcuni meccanismi psichici nevrotici quali: il masochismo morale (bisogno nevrotico coercitivo di dipendere dagli altri e di affidarsi a loro); il sadismo (bisogno di dominare, di sfruttare le sofferenze altrui); l’aggressività distruttiva; il conformismo (bisogno di annullare le distanze fra se e gli altri). Per Fromm il modo normale di rapportarsi  all’altro è rappresentato dall’amore. Clara Thompson, allieva di Ferenczi  e seguace di Fromm, legata alle idee di Sullivan, critica a sua volta il biologismo di Freud. L’interazione dinamica fra le persone – per la Thompson – è alla base della malattia mentale e causa di frustrazioni che può produrre. Lo stesso sviluppo della persona è per la maggior parte indotto dai divieti  e dalle richieste dell’ambiente socio-culturale. Sostenitrice della nuova disciplina della psicologia sociale , la Thompson critica il biologismo freudiano e accusa la teoria freudiana di essere solo quantitativa  in quanto attribuisce il disturbo psichico al mancato deflusso  delle energie pulsionali. Per la Thompson alla base della malattia mentale sta la relazione interpersonale a causa dell’eccesso di frustrazioni che può produrre. In ogni patologia è determinante il fattore socio-culturale. Inotre la Thompson non accetta l’universalità del conflitto edipico che vede come la interiorizzazione dei rapporti familiari dominanti  nella nostra società patriarcale e monogamica. Ma la critica maggiore è verso il principio di morte; i comportamenti aggressivi e ripetitivi non sono, come sosteneva Freud, manifestazioni della pulsione di morte ma reazioni all’aggressività sociale. A differenza del pessimismo di Freud, la Thompson ha una visione ottimistica della vita. Dalla sua esperienza terapeutica, Clara Thompson ci ha tramandato questo messaggio: “Non credo che esista un analista capace di ottenere buoni risultati terapeutici  senza dare incoraggiamenti al paziente quando ciò gli sembra necessario, anche se ogni analista sa benissimo che il suo aiuto bloccherà emotivamente l’insight. Cioè un buon analista capisce sempre quando il paziente ha raggiunto il limite  della sopportazione, e allora saggiamente gli somministra un calmante “verbale”. La cosa più importante per ogni psicoterapeuta è l’aver fatto un sincero sforzo analitico  per capire il proprio carattere e illuminare gli angoli oscuri, perché in qualunque tipo di terapia la sua personalità è lo strumento che gli consente di capire il paziente, e tutte le imperfezioni dello strumento costituiscono ostacoli più o meno gravi al suo lavoro”. Questi sono gli studiosi attorno ai quali negli Stati Uniti si è andata formando la “scuola culturale” nel cui ambito si tende a sottolineare  il ruolo dell’ambiente culturale e sociale nella genesi dei disturbi nervosi e l’importanza delle relazioni interpersonali in ogni momento della vita umana. Il termine “neofreudiani”  è giustificato dal loro impegno di revisione di alcuni concetti psicoanalitici fondamentali della teoria classica, specie da parte della Horney e di Fromm. La Horney e Fromm avevano vissuto gli anni del marxismo tedesco e successivamente, dopo il Trenta, avevano preso contatto con la cultura americana. Questa duplice esperienza – la Germania di Weimar  e l’America del capitalismo avanzato – confermò loro quel relativismo culturale che la sociologia e l’antropologia cercava di dimostrare. Il modello culturale monolitico dell’Europa veniva pertanto infranto dalla presenza di alcune culture che apportavano quadri diversi e molteplici. Questo è uno dei punti dal quale è partita la critica a Freud di aver ignorato le moderne conoscenze della antropologia e della sociologia, e di sostenere che “la natura umana sia sempre la stessa in tutto il mondo”. I neofreudiani non concepiscono la civiltà come un dato omogeneo e universale, ma come una variabile che muta nei diversi contesti socio-economici e culturali. “La funzione storica del culturalismo è stata quella di correlare la psicoanalisi con la psichiatria, la sociologia e l’antropologia tramite i rapporti interpersonali, diminuendo l’importanza della dinamica intrapsichica caratteristica dell’ottica  psicoanalitica freudiana”. (cfr. Vegetti Finzi S., Op. cit., pag. 193).