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TERZA PAGINA

LASCIATEMI ANDARE

Lasciatemi andare
dove la strada è battuta dal vento
senza il riparo
nell’orgia di silenzio uscito
dalla notte sottile
dove incalza il fremito dell’erba
mentre uccelli battono
composizioni melodiche
dedicate ad una luna che sorride.
Lasciatemi andare
- gitano silenzioso -
a costruire amuleti di fortuna,
a coprire tutte le pozzanghere
di sputi induriti,
a baciare le mani dei mendichi
sui gradini delle chiese,
a raccogliere pietre travolte dall’odio
per un altare di speranza
sotto un nuovo cielo.
Lasciatemi andare
oltre l’angusto spazio di calce
dove la mia vita si è data per vinta:
a inginocchiarmi di nascosto
dove hanno sepolto il sole
le mie mani disutili.
Anche al cane si scioglie la catena.
Lasciatemi andare…
non fate che io mi annulli ancora
- ogni sera -
e non permettete che io raggiunga il
largo
dove non lascia il segno la marea.
                                    GIUSEPPE SEMINATI
                       
            O.P.P. di Brescia
                                    Premio “Franca Meo”, fuori concorso

LE VERE ARMI DELLA PACE

Questo è pace
Pace è il sogno di un bambino
Pace è il sogno di una madre
Parole d’amore all’ombra di un albero.
Questo è pace.
Pace è quando le gioie
sono diffuse come le sofferenze
quando ogni bussare della porta
annuncia un amico benvenuto
quando la nostra finestra aperta
vuol dire l’ansietà per chi è fuori.
Questo è pace.
Quando un giorno che tramonta
è un germe che la sera
fa spuntare parole e canti di delizia
poiché tutta la giornata
è stato dono e partecipazione.
Questo è pace.
Pace è fare quanto è possibile
è qualcosa di impossibile
per cancellare sofferenze e tristezze
sulla terra.
Per questo pace sono pace di uomini
cuori di uomini.
Pace è quando amore e giustizia
camminano insieme.
Questo non è altro che pace.
Fratelli e sorelle
in pace la terra respira
liberamente, profondamente.
Fratelli e sorelle
prendersi per mano l’un l’altro.
Questo è pace!
                        LETTORE FIAMMINGHI
           
            Osp. Psic. Prov. Di Varese
                                    3° Premio

GIORNI

Lui prendeva la sedia più vecchia e si sedeva in mezzo all’enorme stanza, sotto il pesante lampadario che da un momento all’altro poteva cadergli sul capo e schiacciarli, finalmente, i pensieri neri come scarafaggi, violentati da un piede qualunque, intollerante e potente.
Il lampadario poteva cadere ma non cadeva lui, lo immaginava e lo sperava solo lui, seduto sulla sedia più vecchia al centro dell’enorme stanza.
La stanza era vuota, così aveva predisposto lui, le pareti innocentemente bianche, non una macchia, né un alone, né un chiodo, né un quadro, né una ragnatela, né una zanzara, neanche d’estate.
Solo il bianco assoluto, solo, unico, immenso.
Il bianco, il lampadario e lui seduto sulla sedia. I piedi uniti nelle scarpe a punta nere di vernice, le mani sulle ginocchia, il busto eretto, le spalle dritte, la testa spinta indietro, gli occhi fissi sul muro bianco, le labbra serrate, nessuna espressione sul viso.
Lui guardava sempre quel muro di fronte; lo faceva ogni giorno, di ritorno dal lavoro in quell’ufficio pieno di carta e di colleghi ammogliati, affannati, accasati, ben curati, perfettamente stirati.
Lui si alzava ogni mattina, beveva il caffè al bar sotto casa ogni mattina, diceva buon giorno al signor direttore ogni mattina, si toglieva il cappello e lo appendeva col cappotto all’attaccapanni in corridoio di mattina, alle dieci apriva lo sportello al pubblico ogni mattina, arrivavano tutti con le stesse richieste ogni mattina.
Lui poi tornava a casa, dopo la mattina. Il lampadario era sempre lì, sicuramente minaccioso.
Lui ci si metteva sotto; era il suo modo di correre il rischio e di abbandonarsi all’avventura.
DANIELA LIVIELLO

RITRATTO

Di solito ho una certa facilità a descrivere i caratteri  e la personalità della gente. Eppure capita di trovare più problematico raccontare la personalità di coloro con cui ho vissuto per anni, più che di persone viste da poco. È quello che mi sta succedendo ora.
Infatti vorrei parlarvi della mia nonna materna con la quale ho vissuto per 16 anni; tutte le idee ed i ricordi che mi si affollano in mente sono così confusi e disordinati. La mia nonna si è occupata di  me assieme ai miei genitori per tanti anni; io da bambina ero sempre malata e ho avuto il suo affetto presente in qualsiasi momento di quei brutti giorni di malattia. Se già una nonna normalmente vizia una nipotina, figuratevi se la nipote ha un deficit fisico. E infatti non ho nessun problema a dire che da lei sono stata coccolata in modo quasi vergognoso; ma ritengo che un discreto numero di coccole dell’infanzia serva come riserva per affrontare i momenti duri e dolorosi che inevitabilmente la vita porta.
Lei aveva un aspetto molto dignitoso, sorridente e cicciottello.
Nonostante l’età teneva estremamente all’aspetto e al decoro della  propria persona.
Vivere a stretto contatto con una anziana mi ha portato a prendere delle caratteristiche come la riservatezza, le buone maniere di una volta e lo spirito di sacrificio che molti oggi non hanno tempo di imparare. Non voglio dire che la convivenza fosse sempre tutta rose e fiori. Il suo carattere non era in grado di  “un’eccessiva” (per lei, non per me) quantità di gente e di confusione in casa. Senza contare la severità e disciplina con le quali mi seguiva negli studi, ma anche queste mi sono servite come struttura mentale per arrivare facilmente a determinare bene l’università. Non dimenticherò mai le giornate passate a leggermi i libri e i romanzi mentre ero a letto e non riuscivo a respirare; e le litigate perché pretendeva di farmi mangiare sempre troppo.
L’unico grande rammarico che ho è che quando è arrivata la fine della sua esistenza sia arrivato anche tanto dolore e frustrazione. Lei è sempre stata così attiva e gelosa della propria intimità, ad essere accudita completamente ne soffriva in modo inimmaginabile.
Questa impotenza e questa dipendenza sono state, secondo me, le cause che l’hanno spenta così rapidamente, più che la malattia stessa.
Ho raccontato questa esperienza così personale per me, per far comprendere quanto la parola vecchiaia non sia sempre sinonimo di apatia e egoismo. Che il passare del tempo non fa perdere per forza la dignità ed un sano orgoglio.
Certo io sono stata fortunata perché la mia nonna dagli occhi di  cielo era una persona in gamba. Molti si lamentano dei propri parenti anziani considerandoli esclusivamente come un onere da sopportare, sperando di esserne liberati al più presto. È vero che chi non è giovane spesso ha un atteggiamento aggressivo e noioso, ma sapere di non essere considerato, e tanto meno amato, provoca sempre sentimenti di ribellione.
Non bisogna neanche dimenticare che se molti anziani sono per così dire “antipatici” questo non è dovuto a vecchiaia, ma più semplicemente al carattere che hanno sempre avuto fin della gioventù; infatti la vecchiaia non è in se stessa una malattia, ma una parte dell’esistenza da non vivere con rassegnazione.
Mi rendo conto che è molto semplice dire che bisogna reagire e non rassegnarsi, quando si è giovani di solito non si pensa a quanto ogni piccola azione della vita quotidiana può diventare pesante per un anziano.
Ogni volta che si affrontano questi argomenti si vorrebbe terminare con una ricetta magica per risolvere questi problemi. È evidente che non si può trovarla; ma forse una maggiore pazienza e disponibilità, da parte di tutti noi, può rendere questa fase della vita più tranquilla.

GAIA VALMARIN