indice generale |
IL "BUCONERO" DELLA PSICOTERAPIA
Luigi
De Marchi, psicologo e saggista, è stato protagonista di una lunga battaglia
per i diritti civile e la modernizzazione del costume che ha portato, tra
l'altro, alla legalizzazione della contraccezione. Nel quadro di tale battaglia,
denuncia da quasi 40 anni l'irresponsabile inerzia o complicità delle forze
religiose e politiche dominanti, di fronte al problema cruciale del nostro
secolo, l'esplosione demografica, ed i tragici effetti che tale inerzia
ha prodotto in termini di fame, guerra, degrado ambientale, immigrazioni
di massa e conflittualità inter-razziale.
Pioniere europeo della ricerca psico-pedagogica, De Marchi è stato l'iniziatore
della "psicopolitica", un metodo di analisi psicologica dei grandi
fenomeni sociali e culturali che da oltre trent'anni propone una "lettura"
di tali fenomeni radicalmente diversa da quella di stampo ideologico, economico
o istituzionale che hanno finora dominato, con risultati fallimentari, le
scienze sociali e politiche.
In particolare le sue ricerche sull'angoscia di morte dei singoli e nei
gruppi sono approdate, dieci anni fa, alla formulazione di nuove concezioni
di psicologia clinica e ad una nuova teoria della cultura e della conflittualità
umana.
Fondatore della scuola reichiana in Italia, è stato per vari anni presidente
delle Scuole di Alexander Lowen e Carl Rogers nel nostro paese e dirige
attualmente l'Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale.
Autore di numerosi libri pubblicati da prestigiosi editori italiani e stranieri,
De Marchi ha pubblicato recentemente un'opera, "L'ultimo tabù della
psicologia", che è in larga parte dedicata al recupero culturale e
scientifico di un discepolo di Freud, Otto Rank, rimasto vittima di una
congiura di silenzio da parte della psicoanalisi ortodossa e della psicologia
accademica. Su questi recenti orientamenti della sua ricerca abbiamo rivolto
a De Marchi alcune domande.
Perché questo tributo così entusiasta a Otto Rank, un allievo di Freud che,
stando alle opere conosciute e all'opinione corrente, non occupa un posto
di primo piano nella storia della psicoterapia'
Perché,
appunto, le opere conosciute e l'opinione corrente si fermano al pericolo
della militanza freudiana di Rank. Ma le opere rankiane più significative
sono quelle successive alla separazione da Freud.
La tua opera
ha un curioso sottotitolo: "Tutte le principali scuole di psicoterapia
(Freud, Jung, Klein, Reich, ecc.) hanno uno scheletro nell'armadio".
Qual è dunque questo scheletro?
Il sottotitolo allude
maliziosamente alla rimozione della morte e dell'angoscia di morte quale
fonte primaria di sofferenza psichica nell'essere umano, da parte di tutte
le principali scuole psicoterapiche. E questa rimozione ha avuto conseguenze
gravissime e fuorvianti sul piano teorico e pratico.
Quali?
Nella
prassi terapeutica ha prodotto una vera e propria mistificazione delle emozioni
del paziente, che a volte si è risolta in una odissea tragicomica. Così,
per esempio, dinanzi ad un paziente colpito, dopo la morte di una persona
amata, da una depressione che rischia di ucciderlo, il bravo analista ortodosso
spiegherà, ma solo dopo migliaia di sedute, come la disperazione del paziente
altro non sia che introflessione di impulsi distruttivi originariamente
diretti contro la persona defunta.
Oppure, se un altro paziente non riesce a dormire da mesi perché teme di
morire nel momento preciso in cui, addormentandosi perde coscienza, l'imperturbabile
analista freudiano spiegherà, ma sempre e solo dopo migliaia di sedute,
che in realtà quell'angoscia di morte è solo angoscia di castrazione o,
tutt'al più, di
separazione dagli escrementi.
Di solito questo paziente opera di persuasione, dato il peso schiacciante
dell'autorità dell'analista o del salasso finanziario di un'analisi classica,
viene coronata da pieno successo e l'analisi si conclude con una trionfante
conferma delle teorie freudiane. Ma se, per ipotesi, quel paziente caparbio
rifiutasse di arrendersi e si rivolgesse ad un analista di diversa scuola,
le cose non gli andrebbero molto meglio. Così, dopo altri anni di analisi,
un analista kleiniano arriverebbe anch'egli a smascherare quella dannata
angoscia di morte come copertura di angoscia del seno cattivo o della madre
strega. E se infine il paziente tentasse la sorte con un analista reichiano
"ortodosso", altri anni di analisi verrebbero impiegati a convincerlo
che quell'angoscia di morte è solo paura dell'orgasmo, dal santo e salvifico
orgasmo.
La storia dell'ipotetico cliente finisce qui per limiti di età (suoi) e
di spazio (nostri) non certo perché altri analisti di altre scuole non
sarebbero disponibile per dare qualche altro fantasioso nome alla sua angoscia.
Sul
piano della teoria clinica, la negazione dell'angoscia di morte ha privato
la teoria delle nevrosi di un cruciale fattore eziologico. Una volta riconosciuta
come angoscia primaria dell'essere umano in quanto tale (cioè in quanto
essere cosciente del suo destino di morte e partecipe alla morte dei suoi
simili più amati), l'angoscia di morte appare finalmente un fattore centrale
dei suoi disturbi psichici. Così ridefinito il quadro della psicopatologia
non apparirà certo strano, né comporterà bizzarre interpretazioni il fatto
che, per esempio, nel disturbo d'ansia o nell'attacco di panico il sintomo
principale sia appunto la paura di morire.
Quanto alle sindromi depressive, l'angoscia di morte è di solito
in esse talmente conclamata (oltre che associata al terrore ipocondriaco
di contrarre qualche malattia) da non esigere alcun commento.
O ancora: nei disturbi psicosessuali
potrà essere agevolmente individuata una componente ansiosa per la perdita
di coscienza o di energia inerente all'orgasmo: due perdite percepite come
rischiose per la sopravvivenza. Contrariamente a quanto sosteneva Reich
quindi, non è necessariamente l'angoscia dell'orgasmo a scatenare l'angoscia
di morte ma, anzi, è spesso l'angoscia di morte a scatenare l'angoscia dell'orgasmo.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare; ma penso che, in questa sede, basti
avere dato una idea degli orizzonti teorici nuovi dischiusi da questa riesumazione
dello scheletro gelosamente nascosto nell'armadio, per cent'anni, dalle
massime scuole psicologiche.
Anche nel campo della psicologia sociale, come evidenziavo nei primi anni
'80 con il mio libro "Schimmietta ti amo - Psicologia, cultura, esistenza
da Neandertal agli scenari atomici" (Longanesi), se si aveva il coraggio
di guardare nel "buco nero" della morte, si trovavano preziose
illuminazioni per una nuova teoria della cultura e della conflittualità
umana.
Vuoi essere più preciso?
Vediamo
innanzitutto l'origine della cultura. Le tracce più antiche di attività
culturale umana (nel senso ideativo, non tecnologico del termine) sono notoriamente
le sepolture neandertaliane di 80-100.00 anni fa. Ebbene, esse contengono
offerte funerarie (cibo fossilizzato a asce da caccia), sostanzialmente
identiche a quelle di innumerevoli tombe di epoca storica. Ed hanno lo stesso
fine: assicurare al defunto una vita prospera nell'aldilà.
Per parte mia vedo una valida prova nel fatto che la cultura umana è stata,
fin dai primordi più remoti, soprattutto una formazione reattivo-offensiva
contro un trauma primario della nostra specie che ho chiamato shock esistenziale:
appunto l'improvvisa e ricorrente ondata di terrore e disperazione scatenatasi
nella mente umana quando questa, per l'evoluzione stessa delle sue capacità
intellettive e affettive, divenne capace di intuire il suo destino di morte,
d'immaginare e paventare il proprio annientamento, di partecipare all'angoscia
dei suoi cari e di ripetere quotidianamente questo tormento attraverso la
memoria, il lutto e l'anticipazione. L'uomo reagì a questo trauma primario
negando la morte e sviluppando fantasie, credenze e promesse in una vita
d'oltretomba.
D'accordo, ma che c'entra questo con la distruttività umana?
C'entra, eccome. Ben presto la morte fu percepita dall'uomo come punizione di un'antica colpa - la brama umana di conoscere e amare - che aveva spinto l'uomo a infrangere la Legge Divina: il mito biblico della Genesi è solo la più famosa di queste elaborazioni. Se l'immortalità originaria era stata perduta per queste brame, essa poteva essere riconquistata solo sottomettendosi alla castità e ai dogmi della gerarchia religiosa. E qui secondo me stanno le radici della tragica persecuzione che ha così spesso colpito l'amore sessuale e il pensiero indipendente nella storia umana. Ma l'interpretazione della morte in termini di colpa e punizione ebbe molti rovinosi effetti sui comportamenti dei gruppi umani, che divennero sempre più espiatori, cioè autodistruttivi, e persecutori, cioè distruttivi, nell'intento di riconquistare il Paradiso attraverso il sacrificio di sé e la guerra santa per la Vera Fede o, poi, per la Vera Rivoluzione. Già, perché anche il fanatismo totalitario di destra o di sinistra che ha insanguinato il nostro secolo appare, in questa ottica, soltanto la trasposizione in termini politici dei fanatismi salvifici di stampo religioso.
E Rank aveva anticipato tutte queste ipotesi teoriche?
Beh, non esageriamo. Queste sono mie elaborazioni ed innovazioni personali. Ma Rank intuì fin dagli anni '20 l'importanza centrale dell'angoscia di morte per la dinamica psichica e la fuga di Freud dinanzi a quest'angoscia primaria che lo terrorizzava.
Pensi che questi sviluppi del tuo pensiero teorico di ripercuoteranno sul tuo approccio alla terapia e alla formazione?
Questa ripercussione c'è già stata. Già cinque anni fa fondai l'Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale (IPUE), con sede a Roma in Via Ancona 21, che conduce programmi di formazione nei quali le mie esperienze pionieristiche in campo reichiano e rogersiano vengono integrate con un approccio esistenziale capace finalmente di riconoscere e affrontare l'angoscia primaria dell'essere umano fino ossessivamente negata dalla scuole classiche (e, del resto, anche da quelle più recenti).
Vuoi spiegarmi meglio questa filosofia della formazione?
È semplice. Io ed i miei collaboratori siamo convinti che tre sono le principali dimensioni affiorate nella professione psicoterapica dai tempi dei suoi esordi, cent'anni fa:
1) la dimensione empatica, che ha consentito al terapista di abbandonare i ruoli stereotipati e di trovare nel contatto umano con il cliente la pre-condizione essenziale di un rapporto efficace;
2) la dimensione corporea, che ha consentito di individuare e allentare la tensione somatiche in cui si esprimono e si percepiscono le tensioni psicologiche;
3) la dimensione esistenziale, che ha consentito di vedere le radici evolutive della sofferenza umana, superando i facili riduzionismi con cui troppe scuole terapeutiche hanno preteso di indicare solo nel conflitto tra Natura e Cultura le radici della nevrosi.
Che cosa si propone la nuova Scuola?
Sul piano culturale e scientifico, portare avanti una ricerca radicalmente innovativa in un mondo professionale e didattico sempre più logoro e ripetitivo. Sul piano pratico, formare analisti che, sulla base di un buon contatto empatico, sappiano aiutare i propri clienti ad elaborare la loro angoscia primaria in modo creativo, anziché negarla e mistificarla come è avvenuto finora. Non si tratta di sogni ad occhi aperti: il primo gruppo di analisi è stato diplomato e in autunno partirà il nuovo Corso dell'istituto che, in omaggio al primo esploratore dell'angoscia primaria, vorrei intitolare appunto a Otto Rank.
A cura di M. Sberna