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IL LAVORO
PUO' DARE UN SENSO ALLA VITA?
La migliore risposta a chi preferisce concedere invece
che stimolare,
compatire invece che stimare.
Non
è la prima volta che scrivo degli articoli, eppure in questo caso ho difficoltà
ad esprimere le mie idee. Forse perché l'argomento del lavoro per le persone
handicappate è un problema che ho vissuto e vivo io stessa. Raramente la
gente comprende perché un disabile senta il bisogno impellente e profondo
di impegnarsi in un'attività utile a se stesso e agli altri. Forse perché
nella nostra società il lavoro è visto esclusivamente legato ad una corrispondenza
economica e non come una crescita personale. Si è soliti pensare che non
è necessario che un handicappato lavori: tanto ha la pensione ed una famiglia
che lo mantiene. O tutt'al più gli si può offrire un lavoro che non implichi
delle responsabilità, praticamente un gioco, tanto più di questo non può
fare; e l'importante è che riempia il proprio tempo, dando il meno fastidio
possibile. Questo è più o meno il processo psicologico che opera nei datori
di lavoro quando sono costretti ad assumere un handicappato a causa della
legge sulle assunzioni obbligatorie.
È vero che una persona con deficit fisici o psichici ha delle difficoltà,
ma da questo al considerarla un impiccio vi è una notevole differenza. Proprio
a causa di queste difficoltà la persona disabile molto spesso si impegna
in un'attività molto più dei suoi colleghi, perché apprezza fino in fondo
l'essenza del lavoro come possibilità di realizzare i talenti e le capacità
che ognuno di noi ha.
Vediamo di fare un esempio, forse un po' banale. Un giocatore di tennis
a causa di questo sport tende a sviluppare maggiormente la muscolatura di
un arto a discapito dell'altro. Così un disabile a causa dei suoi problemi
tende ad esaltare maggiormente le sue capacità rimanenti. È qui che dovrebbe
entrare in gioco la lungimiranza di chi si occupa dell'organizzazione del
personale, nello sfruttare nel modo più utile e razionale queste ricchezze.
Fin qui abbiamo fatto dei discorsi detti e ridetti: praticamente
retorici, perché la realtà è che ad un handicappato un lavoro non glielo
vuole proprio dare nessuno. Perché sono lenti, maldestri, poco attenti.
In fabbrica vengono collocati nei posti dove il servizio è più ripetitivo
ed alienante; in ufficio, anche se l'handicappato ha persino la laurea,
il massimo che gli si concede è di fare il centralinista. Compiti di prestigio
o di responsabilità neanche a parlarne. Anche perché i colleghi se ne
avrebbero a male, considerando che sono pochi quelli che valutano una persona
non per quello che ha, ma per ciò che può dare. Vi è una mentalità caritativa
assistenziale più che di promozione umana. un'altra situazione in cui si
incorre facilmente è quella di far impegnare la persona con deficit solo
in campi inerenti all'handicap, come se non ci si potesse interessare ed
operare, per esempio, anche nel settore delle scienze o dell'arte. Per quanto
mi riguarda, dopo aver terminato l'Università mi sono trovata nell'angosciosa
situazione di fare la pensionata a 23 anni: condizione per me assolutamente
inconcepibile. Ho mandato tantissime lettere a riviste ed associazioni,
proponendo la mia collaborazione compatibilmente ai miei deficit. Con mia
grandissima sorpresa alcuni hanno risposto dandomi fiducia e la possibilità
di svolgere qualche attività, anche se temporanea. In tutti c'è la sorpresa
di vedermi la mia più completa disponibilità ad impegnarmi; mentre io ritengo
sia un dovere mettere a frutto le inclinazioni personali. Svegliarsi ogni
giorno sapendo che lo si fa per un motivo, investendo le proprie energie
non solo per la propria crescita ma soprattutto per il benessere altrui
è uno dei grandi doni.
Sapere che gli sforzi, le fatiche e anche le disillusioni sono utili perché
diventano esperienze comunicabili anche attraverso il lavoro, ebbene è tutto
questo che può dare un senso all'esistenza. Ho sempre avuto l'idea che su
ognuno di noi vi è un progetto che si esplica in modi diversi; ogni volta
che mi affidano un lavoro, una recensione, un articolo o una ricerca, penso
che quel progetto pian piano si sta realizzando. Come dicevo, non solo per
la mia gratificazione personale, ma perché ogni volta che la firma di un
handicappato compare alla fine di un lavoro, e non solo su una domanda di
assistenza, vuol dire che si può migliorare e si può avere una speranza.
Ogni volta che chi ti è accanto è orgoglioso di te per quello che sei riuscito
a fare e parla di te anche con gli altri, allora sì che vale veramente la
pena di affrontare ogni cosa. Spesso l'handicappato stesso ha un modo di
porsi difficile verso chi lo circonda, il cuore è pieno di rabbia e di
amarezza; ma se si riuscisse a superare tutto questo per progettare e camminare
insieme, sarebbe la risposta migliore a chi preferisce concedere invece
che stimolare, compatire invece che stimare.
Non ho parlato di norme
di legge, di dati o di statistiche perché se non si punta direttamente alle
coscienze e alle mentalità, tutti questi restano solo numeri. Forse il modo
migliore per concludere è citare delle frasi tratte dall'enciclica "Laborem
exercens" , che centrano chiaramente l'argomento. "Senza nascondersi
che si tratta di un impegno complesso e non facile, ci si può augurare che
una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti ad una situazione
che rende possibile alla persona handicappata di non sentirsi ai margini
del mondo o in dipendenza della società, ma come soggetto del lavoro di
pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità umana, e chiamato a
contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e della comunità secondo
le proprie capacità".
Gaia Valmarin
v. A. Govoni 8 - Roma