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PAZIENTI
ED ETICA
IL
PAZIENTE "NEVROTICO"
Il
paziente "nevrotico" è quello che, apparentemente, non ci pone
alcun problema a questo riguardo. Infatti sappiamo tutti che egli ha un'"esagerata"
coscienza di malattia e si rivolge a noi portando il suo "male, sintomo,
sofferenza, cruccio, ansia, problema, bisogno, dubbio, insicurezza":
in qualunque modo voglia esporci il suo "disagio", ci prospetta
la sua personale "psicodiagnosi sintomatica" che discende, per
usare un'espressione del Brunner, dalla corrente "psicologia popolare".
Comunque sia esprime un "male della vita" la cui "benigna"
prognosi, implicita o esplicita, è peraltro condivisa dallo psicologo clinico
(psicodiagnosi e psicoterapia). È auspicabile che un tale "mal vissuto"
dichiarato dal paziente non venga più classificato (nell'ottica nomotetica),
in un oggettivo quadro clinico. Passi, ai fini psicodiagnostici, la descrizione
tipologica (nell'ottica ideografica) di un soggetto isterico o fobo-ossessivo,
ecc. E' assai probabile invece che tale "mal vissuto" venga correttamente
tradotto in chiave dinamico - strutturale. Ma ancora non basta; questa diagnosi
dinamica bisogna che venga trasformata nella peculiare "poetica"
del soggetto. Solo in questo modo la diagnosi diventa "umana"
e ci consente di dare senso e significato allo "stare al mondo"
del paziente: diagnosi intesa come progetto di avvio per l'azione psicoterapeutica,
nel segno del desiderio-speranza che può consentire al paziente di recuperare
il benessere e comunque di conoscere meglio se stesso.
Il rischio implicito nella diagnosi, medica o psicologica che sia, è quello
di oggettivare il malessere. Erronea oggettivazione che per il paziente
viene a costruire un potente alibi (sancito dall'Autorità Scientifica Abilitata)ù,
alla deresponsabilizzazione, con la messa in atto di tutti i meccanismi
regressivi conseguenti. Nell'ottica casualistica ottocentesca la malattia
è cosa estranea al paziente. si può identificare correttamente la TBC con
il "bacillo" aggressore del polmone; non si possono identificare
i conflitti irrisolti del paziente con la nevrosi fobico - ossessiva. Ma
anche la malattia fisica, lo sappiamo bene dopo le acquisizioni sullo stress
(reazione globale dell'organismo) di Selye, non può più essere identificata
con un singolo elemento patogeno, foss'anche il famigerato bacillo scovato
da Koch. Sappiamo anche bene che le moderne malattie sono più da imputare
all'esagerazione del sistema immunitario (allergie, malattie autoimmuni),
che non agli sviliti bacilli. La premessa per affrontare un lavoro psicoterapeutico
col paziente nevrotico (ma ciò vale per il paziente con una malattia fisica)
è che questi accetti l'identificazione tra il suo "disturbo" e
se stesso. È indispensabile che il paziente assuma la titolarità del "suo"
disturbo. Posto ciò, in linea teorica il paziente (nevrotico o malato) dovrebbe
avere tutto l'interesse a saperne di più del suo male. In pratica, ben lo
sappiamo, possono permanere resistenze e difese per il mantenimento del
suo attuale equilibrio faticosamente raggiunto. È risaputo che il sintomo
è uno stato di compromesso: la manifestazione comportamentale, somatica
e mentale, di un conflitto interiore irrisolto che, più male che bene, consente
di mantenere un equilibrio a cui il soggetto rinuncia con difficoltà, certo
per paura del "peggio". Ma quale peggio? Dopo anni di analisi
dei vari "complessi" e dei relativi meccanismi di difesa, si "deve"
prima o poi giungere al problema della morte. La buonanima del mio analista,
allora presidente degli adleriani italiani, uomo di buon senso e capace
di slanci di semplicità, lasciandomi in sospeso il problema, mi disse "la
tanafobia non è analizzabile". Candida constatazione che colloca il
residuale materiale analitico non più nell'angosciante immaginario passato
bensì nell'immaginario (non meno angosciante) futuro. Ma ne consegue che
in linea teorica ogni analisi si dovrebbe terminare con l'elaborazione dell'orripilante
"ferita narcisistica" legata all'angoscia della morte. Mentre
al contrario assai di frequente l'analisi diventa interminabile o quasi.
La ragione è che della morte futura non si parla neanche in analisi. Si
interpreta reiterativamente la paura (anche di morire), l'ansia, ecc. sempre
come "giovanile paura di castrazione" ancora da superare. Mai
come preveggenza della morte futura. Magari si torna e ritorna a rimestare
i conflitti con il padre o la madre. Si interpreta l'angoscia magari andando
a ritroso fino a "trauma della nascita". Ma anche il trauma della
nascita è già da interpretare come rischio precocissimo di morte. Trauma
relativamente superabile se a trent'anni ci si ritrova semplicemente nevrotici
anziché cerebrolesi. Ma il saggio terrore del corpo nei confronti del suo
dissolvimento è ormai memorizzato. Il nevrotico lo manifesta con malessere,
sintomi fastidiosi e momentaneo panico. Vissuto angosciante che il corpo
esperisce, come qualsiasi altro animale superiore. Angoscia di morte di
cui il nevrotico ha orrore di prendere coscienza.
Nell'ottica analitica ortodossa, ma anche di altre Scuole, si arriva al
paradosso di interpretare il rituale ossessivo del soggetto (che magari
controlla reiterativamente il rubinetto del gas) giustamente come meccanismo
di difesa nei confronti dell'ansia, ma senza mai verbalizzare la cosa più
ovvia, che l'ansia è segnale dell'angoscia di morte (figuriamoci poi se
è dovuta a casuale asfissia da gas da cucina). E morire in modo "casuale"
è frustrazione narcisistica da poco per chi, come l'ossessivo, ha la mania
di controllo. controllo magico che il soggetto ossessivo pretenderebbe di
avere sugli eventi della vita e sulla morte. Inoltre, perché mai si dovrebbe
avere tanta paura delle pulsioni se queste non ci comportassero il rischio
di ritorsioni cruente dall'altro, tanto della femmina che può essere tutt'altro
che disponibile, tanto del maschio antagonista. Anche se l'Etologia ci dice
che in linea di massima gli scontri per la supremazia del territorio non
finiscono quasi mai con la morte del perdente, tuttavia la lotta non è finzione
rituale: è vera o può anche finire con la morte dell'avversario più debole.
Il rischio è sempre la menomazione e la morte. Anche dietro al più banale
sintomo nevrotico si cela sempre l'angoscia per la morte. Questo, il drammaticissimo
ultimo tema, in analisi o dopo analisi, da affrontare se si vuole vivere
meglio. Quindi il problema dell'informazione diagnostica o, nella bruttissima
espressione tecnica italiana, del "consenso informato" non esiste
di per sé. Esiste, implicito nelle diagnosi, il problema della morte. È
l'umanissimo sentimento della pietà che sottende l'occultamento della diagnosi
infausta. Non è in discussione la buona intenzione del "pietoso bugiardo":
è in discussione se è etico o opportuno che il terapeuta usi il suo potere
tecnico per "alienare" il pensiero della morte dalla mente del
paziente pur facendosene (almeno nelle intenzioni) totalmente carico.
IL PAZIENTE "PSICOTICO"
Il secondo tipo di paziente che incontriamo è quello "psichiatrico", che, notoriamente, non ha la coscienza della malattia. In questo caso, il teorico diritto all'informazione diagnostica si infrange con la totale incapacità del paziente a recepirla. Per questi pazienti non è solo pressoché impossibile "recepire" la giusta e corretta informazione diagnostica, ma è estremamente difficile instaurare la relazione psicoterapeutica. Occorre qui abbandonare, di necessità, il rispetto dell'autonomia individuale, il primo dei "tre criteri etici di riferimento largamente condivisi" (11) a tutela del malato. Si è costretti ad optare per il secondo principio etico, quello della "protezione dell'integrità della persona" anche contro la volontà del soggetto (psicotico). Gli interventi a tutela della salute mentale permangono in un "ambito a statuto speciale". Per il buon motivo che il soggetto "alienato" è stato colpito nella sua peculiare essenza di esser umano: quella di "esserci" e avere coscienza di sé; di qui la sua irresponsabilità e, conseguenza di questa logica, impunibile anche di gravi reati. L'elemento perverso di questa "tolleranza" è che un pazzo criminale può restare, in linea teorica, tutta la vita in manicomio, a prescindere dalla gravità del reato. Forse sarebbe meglio farli scontare la pena conseguente la delitto come ogni altro delinquente e, nel mentre, curarlo in modo appropriato. Nell'ambito psichiatrico la diagnosi psicopatologica diventa di grande utilità solo all'èquipe terapeutica in termini di prognosi e progetto terapeutico. Fintanto che il paziente è relegato nel suo stato psicotico ha poco senso dargli una corretta e dettagliata informazione del suo stato di salute mentale. Il rispetto che ogni terapeuta deve avere per il suo paziente è quello di continuare a pensarlo, nonostante tutto, come persona vivente cioè ancora potenzialmente in grado di potersi "individuare". Con la consapevolezza che questo paziente (alienato mentale) è pressoché mentalmente morto. Inutile dire a un uomo che è morto: occorre dirgli che è ancora vivo. Questo sostanzialmente il significato che do al "trattare umanamente il paziente psicotico". Per il paziente in coma o mentalmente alienato a causa dell'anestesia totale, o per fattori psichici, il rispetto dell'autonomia individuale è totalmente a carico del terapeuta: l'obiettivo primario dell'azione terapeutica (non importa la durata del tempo) resta sempre quella di restituire l'autonomia e libertà al paziente.
IL PAZIENTE "AMMALATO NEL FISICO"
E
infine arriviamo al "malato nel fisico". In realtà gli psicologi
sono sicuramente pochi. Ancora oggi sembra che la che la cultura ospedaliera
italiana non contempli i bisogni psicologici del malato: tanto che addirittura
si disattendono normative nazionali che lo prevedono espressamente. Infatti
il Decreto Ministeriale del 1988 (Standard Ospedalieri) è pressoché totalmente
inapplicato. Al di là di ciò, nello specifico argomento che qui intendo
trattare, e cioè della questione "consenso informativo", come
psicologo ospedaliero operante al Centro Trapianti d'Organo dell'Ospedale
S. Martino di Genova, posso dire che in tale settore l'informazione diagnostica
e prognostica, con relativa prospettazione dei possibili rischi chirurgici
diretti e post trapianto, è correttamente fornita al paziente. anche se
potrebbe essere migliorata di molto se solo il medico fosse in grado di
"ascoltare" il paziente. Ma qui le cose sono decisamente facilitate:
il paziente sa già in modo del tutto esaustivo la diagnosi. In linea di
massima trattasi di malato nefrologico cronico, magari in dialisi da anni.
Che dire del malato grave di cuore in attesa di trapianto: l'alternativa
(il paziente ne è ben consapevole) è la morte. In generale, per quanto riguarda
il malato ospedalizzato, ritengo che poca attenzione venga rivolta al "consenso
informativo" e che nessuna attenzione venga posta, da parte del medico,
allo stato d'animo del paziente. Il medico, per sua formazione, non è preparato
all'ascolto dell'altro. Per ben che vada interpreta i bisogni del malato
in termini paternalistici. Certamente quando si tratta di appendicite o
di calcoli alla cistifellea non è un grave dramma se il malato non ha grande
comprensione dal personale sanitario preposto al suo accudimento, supposto
che trovi negli affetti familiari il supporto psicologico contingente al
periodo di ricovero. Ma in ospedale non ci sono solo operati di questi mali
minori. E comunque una informazione all'ascolto e alla relazione sanitario-paziente
dovrà essere attuata quanto prima. Così come si spera di riuscire ad introdurre
nell'ospedale le nostre conoscenze di psicologia dell'organizzazione. Ma
sia chiaro che siamo solo agli inizi e dobbiamo recuperare un forte "gup
culturale" in tale senso. A tal fine, come sindacato, stiamo facendo
sforzi notevoli. Ma torniamo al punto. Il punto è quello, veramente dolente,
dell'informazione diagnostica del malato con prognosi infausta. Qui si
annaspa, si entra in panico. Tanto da parte del malato e dei suoi familiari,
tanto da parte del personale sanitario preposto alle cure. La scienza medica,
per sua vocazione (più patologica che sana) nega la morte. È su questo punto
che si impone una riflessione etica e bioetica che dir si voglia. Una riflessione
di fondo si impone al fine di tentare di evitare sterili contrapposizioni
tra coloro (pochi) che sono a favore dell'informazione diagnostica, anche
infausta, e coloro (la stragrande maggioranza) che sono a sfavore di tale
informazione diagnostica. La riflessione che spero possa conciliare le due
opposte tendenze è la seguente. Le condizioni della nostra esistenza si
collocano entro due estremi stati mentali che vanno dall'originaria narcisistica
onnipotenza (che comprende senso di invulnerabilità, immortalità, perfezione)
alla catastrofica impotenza per approdare, dopo un lungo e difficile percorso,
allo stato mentale adulto del realismo del possibile. Un troppo precoce
scontro con la realtà ostile può determinare ferite così gravemente narcisistiche
che ci possono gettare nel baratro autistico; ma anche se questo incontro-scontro
con la realtà avviene secondo un garbato svezzamento, appaiono lo stesso
(imperando ai primordi della vita la legge emotiva del tutto e del nulla),
ansie, depressioni, fobie, sensazioni ipocondriache, paranoie, tics e rituali
ossessivi, irriducibili indicatori dell'angoscia di morte sebbene governabili
dalla mente in sviluppo. Anche la cultura dei popoli sviluppatasi nei secoli
ha cercato in varie maniere (miti, credenze, rituali, religioni, filosofie)
di incanalare l'angoscia di morte. È la Religione che ci ha rassicurato
per molti secoli sull'immortalità, se non del corpo almeno dell'Anima. Più
modernamente, nell'ottica materialistica, riflessioni filosofiche, acquisizioni
mediche, biologiche, psicoanalitiche, hanno spezzato questa rete di sicurezza.
Per preservarsi dall'angoscia di morte l'uomo moderno si è aggrappato alla
scienza medica attribuendole il ruolo di strenuo difensore della vita. Ma
la medicina può solo garantire (anche se non è cosa da poco) la tutela della
salute del corpo. Alle soglie del 2000 la stragrande maggioranza degli individui,
per motivi presumo narcisistici, è mentalmente medicalizzata. È arduo andare
contro questa mentalità. Contro la presa di coscienza della realtà della
morte del corpo si ergono i meccanismi di difesa più potenti ed arcaici:
proiezione, scissione, negazione, spostamento, ossessività per non parlare
di tutto il restante armamentario psicologico, meno potente ma pur sempre
efficace. La domenica in chiesa a quale strano prete verrà mai in mente
di ricordare, per rendere un po' più umile il parrocchiano rampante, di
citare il biblico monito "polvere sei e polvere resterai". Anche
in ambito educativo le cose non vanno diversamente. Da almeno 30 anni anche
il più sano dei motti pedagogici dell'infanzia, che qualcuno dei presenti,
come me, forse ancora ricorda: "l'erba voglio non cresce neanche nel
giardino del re", non lo pronuncia più nessuno. Così l'erba voglio
è diventata gramigna e la si trova dappertutto. Anche nell'accanimento terapeutico.
Le favole paurose sono state bandite, su dettami psicoanalitici da illuminati
pedagogisti. Mi viene da dire che anche l'ansia, il pavor nocturnus (terrori
notturni), incubi o sogni paurosi che dir si voglia, dei bambini, stanno
scomparendo. Le malattie più in voga dei bambini che possono far pensare
lontanamente a un disagio psichico sono gli stati allergici e l'asma. Per
contro sappiamo bene che lo scontro con la realtà lascia i suoi segni sul
corpo: ciò è ineluttabile. Malattie, infortuni: è del tutto naturale che
debbano creare ansia e angoscia. Indici premonitori indispensabili a prevenire
il danno peggiore di tutti: la morte.
L'informazione diagnostica della malattia implica inesorabilmente la spinosa
questione della morte.
Luigi Fasce