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INCONTRO CON BRUNO MUNARI

È un inno alla creatività, al piacere di inventare e, inventando, recuperare e conservare intatta quella parte dell’infanzia che in ogni uomo è la sorgente della curiosità e della gioia di vivere. Questa è l’impressione che lascia la mostra antologica di Bruno Munari, allestita al Palazzo Reale di Milano. Sento di dover ringraziare Bruno Munari sono solo per quanto, attraverso questa antologia, mi ha regalato, ma per la meravigliosa filosofia della vita che da ogni sua opera, piccola o grande, traspare ed allieta chiunque, nel grigiore della routine giornaliera, si permette lo spazio di ritornare a sperimentare nel mondo della fantasia, i colori, i suoni, il movimento, talvolta col sorriso dell’autoironia, tal’altra con equilibrio ed armonia. Molti hanno scritto su di lui, anche se la sua eclettica attività non è nota quanto meriterebbe. Noi ci rivolgiamo oggi a lui su un giornale di psicologia, diretto agli psicologi, col preciso intento di far conoscere meglio un artista che è insieme psicologo e pedagogo, che coglie l’essenza dello spirito umano e generosamente ci regala con ogni sua opera (invenzione, costruzione, ideazione, progetto) anche una metodologia di intervento semplice, immediato e raffinato, profondo e rigoroso. Ad un osservatore superficiale il personaggio Munari appare difficilmente inquadrabile in una specializzazione, ma, a mio avviso, questo è il suo più grande pregio, in quanto il suo eclettismo non è mai superficialità ma sempre il risultato di una ricerca che ha come referente la realtà, quella dell’uomo e quella delle cose quotidiane nella loro globalità da una parte, e dall’altra nella prospettiva giusta per cogliere un punto d’incontro (spesso invisibile a chi guarda in superficie) tra vita ed arte. La vita diventa arte allorquando ogni gesto, oggetto, circostanza ed esperienza assume un linguaggio; la decodificazione di tale linguaggio porta alla scoperta di qualcosa che tutti gli uomini hanno in comune, la capacità cioè di recuperare, se lo si vuole, la dimensione dell’universale e del “coinemico” attraverso le sensazioni, le emozioni, la meraviglia, il sorriso e tutta quella serie di sfumature espressive che rimandano a quel linguaggio primario così naturale per un bambino e per chi all’infanzia del cuore non ha mai detto addio. E nella fantasia dell’infanzia trovano posto tutti i sensi, stimolati per percepire le cose in libertà e avvicinarsi senza preconcetti al principio allargato di artisticità. Arte come strumento per vivere, alla porta di tutti, arte legata all’Essere non come qualcosa di statico, definito, preorganizzato, incapsulato, bensì come divenire fluente, indefinibile, costantemente riorganizzabile, possibile, svincolato da delimitazioni spaziali e temporali. E tale è il divenire e l’idea dell’Arte. Bruno Munari si scosta dall’opera d’arte tradizionale intesa come risultato circoscritto di un processo creativo, formalmente delimitato, cromaticamente definito e strutturalmente inquadrato, e punta verso la ricerca di nuovi codici di percezione in una “poetica” che entra nel problema della realtà come in un mare senza confini e in continuo movimento.
Ho provato una profonda commozione, mentre percorrevo le sale della mostra a Palazzo Reale; ma non solo per quello che i  miei occhi vedevano e le mie mani toccavano, quanto piuttosto per le infinite associazioni che nella mia mente si accavallavano. Il lavoro di psicoanalista porta me, come molti dei miei colleghi che mi leggono, a contatto con una realtà, quella della Psiche, sempre uguale e sempre nuova, dove tutto ciò che appare definito e chiaro, non ha confini né limiti, dove di certo c’è solo il passare del tempo e il fluire degli eventi. E la sofferenza è la morte della creatività. Dove la realtà e la fantasia, spesso sovrapponendosi si confondono e non c’è più l’uomo che può sognare e amare e, sognando fantasticare, e amando ideare e creare, ma il delirio del caos senza logica alcuna né leggi, e nella migliore delle ipotesi, c’è l’uomo prigioniero dell’oggetto dal quale è posseduto e dall’ideologia che lo schiavizza. E il corpo diventa una cella con le sbarre, mentre il mondo, popolato da nemici è ciò da cui ci si deve difendere, rimanendo immobili o soverchiando il vicino. Nel catalogo della  mostra, in una bella traduzione e presentazione ad opera di Marco Meneguzzo, si legge “… le valenze di un oggetto, di una materia, di un’idea e addirittura di una concezione globale del mondo vanno verificate sforzandone la concezione comune, giocando sull’imprevedibilità del concetto e dell’uso sino a postulare il contrario della visione usuale. Contrario che si affianca a questa, rivificandola e rendendola nuova, perché nuovi sono gli occhi che ora la vedono”. Uno dei compiti dello psicologo clinico è porsi come “altro” dal paziente per potergli riflettere quanto, nel non detto, nel non fatto, nel non vissuto, n’è di inespresso, paventato e desiderato, in modo da portarlo a vedere quanto non ha guardato e vivere quanto si è impedito di vivere. A Munari quindi, e a quanti come lui possono servire da stimolo per meglio conoscerci, il mio grazie di cuore: per non averci voluto insegnare niente, per le sue “macchine utili”, per le sue “rose nell’insalata”, per le sue “tavolette tattili”, per le “aritmie meccaniche” il cui rumore ricorda il cinguettio degli uccelli, per le fontane e i giochi d’acqua, i “fossili nel 2000”, le forchette parlanti, i colori, le luci e i suoni che mi hanno allietato il Natale dell’86.

Franca Maisetti Mazzei