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MUSATTI E FORNARI….e una piccola frase

Il 17 dicembre 1986 il quotidiano REPUBBLICA ha pubblicato un supplemento del titolo “Alla ricerca dell’anima” interamente dedicato alla Psicoanalisi.
Tutti i miei complimenti all’editore per la piacevolezza provata nello sfogliare la rivista, per la bella veste topografica e anche per alcuni articoli gradevoli, chiari e abbastanza esemplificativi di quello che è il settore della terapia psicologica oggi in Italia. Ci auguriamo che Repubblica o qualche altro giornale di grossa tiratura, possa in futuro pubblicare ancora qualcosa sull’argomento con più chiarezza di notizie e con  un elenco di scuole che serva veramente da informazione all’utente e non appaia invece (magari al di là delle intenzioni del giornale) una pubblicità selezionata, non si capisce secondo quali principi.
Ma al di là di tutto questo, un pericolo grave nel quale si incorre, allorquando si ascolta e si scrive, è quello di risultare giudicante o peggio ancora denigratorio, senza magari rendersi perfettamente conto di quanto si comunica, attraverso una frase. Mi riferisco in particolare all’articolo di Paolo Guzzanti, di cui peraltro io apprezzo la serietà e la professionalità. Nell’articolo-intervista fatta a Cesare Musatti e portante il titolo: “L’anima degli italiani non è più quella di un tempo”, io leggo:
Domanda di P. Guzzanti: “Dica la verità: gli psicoanalisti sono  un po’ matti?”
Risposta di C. Musatti: “Più che altro direi che è augurabile che ne abbiano un pochino. Altrimenti non capiranno mai i loro pazienti. Guardiamo in faccia le cose: uno psicoanalista non può entrare lui dentro la testa del suo paziente. Dunque cosa fa al massimo? Può vivere gli stessi meccanismi del paziente, per capirlo, ma questo significa che deve essere in grado di conoscere la sofferenza umana, il malessere, l’angoscia”.
Giornalista: “E non è sempre così?”
C. Musatti: “Magari. Le racconto una cosa. Una volta il professor Fornari mi chiese: Musatti mi spieghi lei una cosa, l’angoscia esattamente che cosa è? Cosa vuol dire avere l’angoscia dentro di sé? Io lo guardai e gli dissi: Dio mio, ma davvero lei non l’ha mai provata? E lui: no mai. Io restai di sale: come potevo spiegare a uno che non l’ha mai provata che cosa è l’angoscia? M a più ancora, come  può uno che non ha mai avuto un attacco di angoscia, entrare in sintonia col suo paziente?” (p. 8 del supplemento).
La mia prima reazione, leggendo l’articolo, è stata proprio un sentimento d’angoscia, angoscia d’altro tipo forse, rispetto a quello di cui parla Musatti, ma comunque dolorosa. Come era possibile che Musatti, mio primo grande maestro, potesse proprio lui, che era stato anche il  maestro di F. Fornari, distruggere in due parole l’opera terapeutica e altamente culturale di un uomo che, nel tentativo di combattere la sofferenza umana, avevo speso una vita? E dov’era quel Fornari che mi aiutata e mi insegnava a lavorare, soffrendo con me la mia impotenza e i miei sensi di frustrazione, liberandomi, attraverso la sua capacità di accettare le frustrazioni, dall’atteggiamento di onnipotenza di chi si crede di poter guarire, e mettendomi, di conseguenza, nella giusta posizione di chi accoglie l’altro così come è, con la serenità che possiede chi veramente da amare? Fornari è fisicamente morto, ma non è morto in chi ha avuto la fortuna di conoscerlo; non ha certo bisogno di essere difeso da nessuno e i suoi scritti, in parte, parlano per lui. Ma non è questo il punto. La mia angoscia è durata poco, si è trasformata prima in rabbia poi in tristezza e nostalgia. Ho espresso il mio risentimento e la mia tristezza a Musatti, e un po’ con tristezza e un po’ con la rassegnazione di chi sa come vanno queste cose (questa almeno è la mia impressione) ha chiarito che nell’intervista è stata omessa solo una piccola frase (Una volta il professor Fornari, quando aveva vent’anni…). È proprio una piccola frase, tre parole soltanto. E il grande Fornari diventa il giovane ragazzo curioso della vita, non quella che tutti si aveva nei primi anni ’40 (il dopo guerra, la fatica esistenziale e di sopravvivenza, le personali esperienze dolorose) ma quella parte della vita interiore dell’unità che aveva vissuto la guerra e della guerra viveva le conseguenze, quell’insieme di percezioni, sensazioni, emozioni, riflessioni che, in un ragazzo ventenne, con una cultura di gran lunga superiore alla norma, diventano un grosso punto di domanda. E al padre (Musatti) al quale attribuiva la capacità di risolvere ogni problema, proprio perché era il  padre analista, e come tale detentore e distributore di varietà, poneva la più grossa domanda. Perché io sto soffrendo e l’umanità è pervasa dall’angoscia? E nella domanda implicita la richiesta d’aiuto e d’amore. Io non so se Paolo Guzzanti ha conosciuto Franco Fornari, né se è mai stato in analisi, ne dubito; avrebbe capito altrimenti che tre parole, dette o non dette, possono rivelare un mondo, anzi un abisso di umanità.

Franca Maisetti