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DI UN GRUPPO DI LETTURA: BREVI NOTE

Non credo siano passati tanti anni da quando mi laureai in psicologia a Padova; eppure il ricordo di quel periodo staziona nella mia memoria sbiadito e lontano. Ho pochi dubbi nell’imputare una simile sensazione ad una specie di fastidio nelle sforzo di rievocare mi fa coniugare parte degli studi fatti con un vissuti di inadeguatezza degli stessi a quello che succedeva, dentro e fuori, di me. Da allora, necessariamente, molte cose sono cambiate, ferma mi è rimasta tuttavia, come punto orientativo, quasi una bussola, l’immagine del mio primo incontro con un bambino autistico. Lavoravo presso un CSZ e all’epoca era in pieno vigore l’inserimento (si dice proprio così…) dei bambini con handicap nella scuola dell’obbligo; non che ciò, in linea di principio, fosse giusto e dovuto, sebbene ripensandoci a posteriori gran parte di complesse e dolorose problematiche erano lo spunto per riaffermare le verità di altri, in luogo di svolgersi come interrogazioni al senso e al soggetto, ai suoi tortuosi percorsi. Luciano lo chiamavano quel bambino e mio era il precipitarsi muto e spossante del mare d’ansia nel misurarmi con lui, nello scrutare il suo sguardo. Mi accorgevo di non sapere, di non sapere nulla, anche se poi non era questo che mi turbava. Il sapere che cercavo, del resto, non l’ho mai trovato e a un certo punto, questo sì mi pare importante, ho smesso di cercarlo: sentivo che quel sapere stava lì, astratto, esterno… Quel sapere di cui cercavo era qualcosa della forma e della sostanza che avevo, bene o male, appreso, volevo che modulasse i ritmi e le cadenze, nel mentre che percepivo che tra me e quel sapere che invocavo sussisteva uno strano rapporto, mortifero direi senza timore di esagerare. Se l’assumo, scolastico o pedante com’è, mi appiattisco e alieno, se non lo faccio, rischio di trovarmi immobilizzato, l’effetto non cambia per me, non vedo perché lo dovrebbe lui, per l’altro, inquietante ombra di presenza ed assenza, sospeso al suo silenzio e alla sua inintelleggibilità.
Che fare, era la domanda di leniniane ascendenze, salvo accorgermi che significava ben poco, di fronte a Luciano e me, anzi nulla. Era altresì vero che, nonostante la sbornia delle idiozie comportamentistiche, del buono esistenza nell’appreso: qualche pagina di Freud,  Bettelheim, qualche testo di psichiatria e fenomenologica …. Una strada era aperta, nonostante facessi fatica a scorgerla. Piuttosto altro mi sembrava il problema, abbisognavo di una posizione, di una parte da cui innestare una ricerca, qualcosa insomma che facesse parlare il mio desiderio, confuso e inesistente, di sapere (di cosa? E per chi?); credo che dall’analisi, l’ultimo vero viaggio in tempo di crociere e di “trip”, mi abbia in questo aiutato, ricostruendo nelle pieghe del mio raccontare, una sorta di romanzo di formazione. Non so quale valore attribuire a questa testimonianza e verosimilmente dubito della sua originalità; la chiamo strumentalmente in causa per motivare le difficoltà  cui mi sono trovato di fronte allorché, all’interno delle attività programmate da un istituto di formazione di Milano, sono stato invitato a predisporre un piano di lavoro “teorico” su taluni testi sacri psicoanalisti. Da dove partire? Freud è immenso e insuperabile. E allora? C’è chi l’avrà letto in parte, chi invece di rimando, chi … non esiste sapere che non si traduca in apprendimento vuoto e stereotipato se non implica, al suo interno, una modalità che apra ad un possesso del medesimo, a un’apparenza che faccia di un sapere, il sapere di qualcuno, per qualcuno.
Ogni lettura che sia realmente tale, paga il suo debito al senso necessario che la presiede, al conflitto che determina tra genericità, accademica o no, e individuazione. La questione più complessa è stata infatti a questo riguardo il tentativo di instaurare una circolarità (che non fosse meccanico rimando) tra esperienza e parola scritta, testo. Partendo dalla prima si è andato alla seconda, per verificare ipotesi abbandonarsi a suggestioni che testi fecondi come quello freudiano puntualmente suggeriscono. Nulla di straordinario, ben s’intende. Ma l’accentrare l’inizio su una presa di posizione di fronte allo scritto, anche il “perdere” del tempo in questa direzione, penso abbia permesso di guadagnare poi. Piccola cosa, indubbiamente. Non vale tuttavia la pena di scordarla., non foss’altro per fissare una priorità troppo sovente messa tra parentesi, quasi fosse data e immanente. La mala fine di taluna psicologia (di tutti e di nessuno) passa forse anche di qui, coagulata in un luogo comune di flaubertiana reminescenza.

Angelo Villa