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IL BISOGNO DI NON COMUNICARE

Nel suo significato corrente “silenzio” porta al “tacere” e mette l’accento sulla mancanza. Il dizionario suggerisce “mancanza completa di suoni e voci” ed anche “cessazione del parlare, astensione della comunicazione”.
Dunque: assenza e rottura. Il silenzio sembra potersi connotare solo in negativo: il “meno” o il “niente” di qualcosa che è il vero senso dell’esperienza: il contatto, il parlare, il suono. Il nostro mondo è infatti denso di comunicazione, di contatto, di scambio e di socialità.
Il pieno e il rumore del tempo di lavoro si alterna al tempo del riposo, anche esso pieno di hobbies, passatempi e animatori che pensano per noi altri incontri, altre parole, altro fare. Purché si eviti il silenzio e il vuoto. C’è il non senso, la sensazione di perdere il tempo, l’ozio, la passività e la pigrizia.
C’è anche chi si arrende a fatica al tempo del sonno, sospensione inutile dell’agire e improduttiva necessità del corpo. Memoria residua di antica memoria animale.
Le metropoli perdono la notte. La vita corre sulle ventiquattro ore in un grande giorno senza sosta. Scompare l’alternanza, il ciclo, la pulsazione. Su questo orizzonte a 360 gradi si attua lo sconvolgimento di un grande ordine ritmico.
D’altro canto, le tradizioni di ogni tempo attribuiscono al silenzio la dignità del sacro facendone il fulcro della esperienza mistica. L’accesso ad un ordine superiore dell’esistenza: apertura al mistero, rivelazione, religiosità, contatto con “altro”, grandezza, unicità, contemplazione.
Il silenzio a cui mi riferisco è quel tempo attivo privo di parola e di intenzione di scambio, complementare alla parola e al desiderio di scambio; un  tempo nel quale si compiono processi di ordine particolare e particolari approfondimenti che solo possono realizzarsi in questa condizione.
Esso attiene al mondo dell’intuizione, alla elaborazione interna della complessità dell’esperienza, ai processi creativi e alla concentrazione e alla meditazione.
Permette un tipo particolare di contatto con se stessi a livello del corpo, del pensiero e della vita spirituale.
La dinamica apertura/chiusura, contatto/ritiro, comunicazione/silenzio, costituisce uno dei cardini della salute fisica e psichica. Dinamica vuol dire alternanza, ritmo, respiro; indica un processo e non uno stato; si riferisce perciò alla possibilità di entrare ed uscire da determinati modi di essere, suppone una fluidità, una mobilità e una capacità di risposta a particolari stimoli interni ed esterni.
Lo squilibrio di questo processo produce malessere, ma i mali da mancanza di silenzio (o l’eccesso del comunicare) sono assolutamente ignorati.
Bombardato da una grande quantità di stimoli sensoriali di ogni genere, il corpo logora i suoi canali percettivi, per un eccesso di apertura, per sovraccarico.
Irritabilità, ipersensibilità, eccesso di ricettività sono i danni dell’apertura indiscriminata verso l’esterno.
L’eccesso porta alla paralisi per impossibilità di elaborare ed organizzare risposte comportamentali soddisfacenti. Apatia, stanchezza, senso di fermo, arresto fino alla chiusura, all’immobilità e alla depressione, diventano i sintomi di questo profondo disagio.
Gli studi più recenti sulla creatività e sull’inventiva riscontrano nel silenzio e nell’isolamento le condizioni privilegiate per l’emergere del pensiero creativo.
La misteriosa alchimia che produce l’inesistente, scienza, arte o tecnica, si può compiere solo in una mente capace di concentrazione e nella persona capace di solitudine e dialogo interiore che, lasciando parlare il silenzio, dà alle catene di intuizioni e di immagini in grado di produrre le soluzioni originali e la formulazione di nuovi problemi.
Ecco che, al di là del significato più ovvio di “mancanza di suono e parole”, il silenzio si afferma come momento pieno di senso, esperienza con un preciso oggetto. L’appartenenza di intervallo vuoto, di puro recupero tra tempi di vita “vera”, può essere una vita “altra”: quella che si fa nella chiusura e nell’interno, senza segni visibili, e la cui forza è in grado di alimentare e trasformare il tempo della parola e dell’apertura.
Culturalmente però il ritiro non è tollerato e chi si sottrae alla comunicazione è considerato asociale, inibito e, al limite, strano e malato. L’introversione ha una connotazione negativa nel parlare corrente. Il bambino che gioca da solo “non socializza” e lo si tiene d’occhio. Chi impone la distanza e si isola “ha dei problemi di relazione”. Raramente viene riconosciuto il diritto alla non-comunicazione. Ma, come abbiamo visto, esiste un “silenzio” che non ha nulla a che fare col semplice tacere, col mutismo o impossibilità di parlare, coi blocchi o coi problemi di relazione.
Nella mia pratica di gestalt terapia orientata al processo, che conduco presso il Centro Alia di Milano, identifico spesso in questi, non i segni di un comunicare difficile, bensì i segni di un silenzio negato.
Non è il contatto in se stesso ad essere malato, ma il processo ad essere sregolato e unilaterale. La risposta non può dunque andare nel senso di forzare l’apertura sbloccando le risorse del contatto, ma andrà a cercare nel rifiuto ripetuto della chiusura la radice del malessere ed in una risposta nuova, il rimedio per recuperare l’equilibrio.

Anna Fabbrini