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CASO CLINICO
In
questa occasione il "caso clinico" è rappresentato da una situazione
generale che definirei di "disinteresse totale o quasi per il vicino".
È un fenomeno che mi ha colpito sin dall'inizio della mia carriera nell'area
psicologica, quando ancora pensavo a questa professione come ad una sorta
di missione che avrebbe portato sulla terra pace e felicità.
Facendo il
tirocinio in un ospedale psichiatrico, ero inorridita davanti alle porte
chiuse a chiave che delimitavano il confine dei vari reparti e, a volte,
zone particolari all'interno di uno stesso reparto. Poi avevo scoperto,
da alcune informazioni fatte dai degenti, che in realtà ciascuno si sentiva
minacciato da chiunque pensava diverso da sé e perciò solo più pericoloso
e temibile.
Mi pare che
l'esperienza riportata più sopra riproponga una situazione simile con l'aggravante
che i pazienti di un ospedale psichiatrico sono "giustificati"
se qualche loro ragionamento manca di logica o di complessità. Non altrettanto
si può dire per chi non solo è assolutamente normale, ma addirittura è,
e si considera, altamente sensibile al problema del disagio e della sofferenza
nelle sue diverse espressioni.
Ma anche in questo
campo esiste una enorme "specializzazione": così c'è l'Unione
Cechi, c'è l'ANFFAS, il Centro Studi e Consulenza Invalidi, e, ovviamente,
l'elenco si potrebbe allungare di molto evidenziando gruppi che si occupano
di problemi fisici, psichici, caratteriali, e così via. Se da un certo
punto di vista questa impostazione è comprensibile, perché una maggiore
"specializzazione" può offrire più opportunità di soluzione a
problemi ben conosciuti e analizzati, dall'altra crea qualche problema,
in qualche caso di tipo competitivo: ogni gruppo e associazione cerca di
ottenere il massimo delle risposte al suo tipo di problemi e di esigenze;
non esiste un piano comune, che consenta di affrontare problemi generali
e di orientamento globale della qualità della vita per chi soffre o comunque
vive una situazione particolare di difficoltà, anche solo temporanea.
Questa parcellizzazione
a livello associativo è l'esempio macroscopico di ciò che avviene anche
a livello di singole persone e di famiglie: ogni caso è "atipico",
difficilmente rientra in una "norma" perché poi le variabili che
entrano in gioco sono numerose e determinanti per qualsiasi tipo di intervento.
Dunque, perché
non provare ad invertire la tendenza, magari costituendo una sorta di "network"
che consenta di collegare le "parti simili" dei vari gruppi, potenziandone
l'incisività ed insieme offrendo un appoggio sicuro e qualificato ad ogni
tipo di possibile utente?
A noi pare
un'idea interessante, ma cosa ne pensano i diretti interessati?
M.S.