L’orecchio di Dioniso. L’ascolto: attraversare i miti, fondare realtà (Margherita Sberna)

Relazione Introduttiva  -  XXVII CONVEGNO NAZIONALE  - Telefono Amico Italia

Il riferimento a Dioniso nel titolo della relazione mi ha fatto commettere un errore che poi  è risultato essere uno stimolo creativo in merito al tema dell’ascolto, vero nocciolo della  questione. Ho infatti pensato subito al dio greco, Bacco per i romani, ma poi  mi sono accorta di essermi sbagliata: l’orecchio di Dioniso, non è  riferito al dio, bensì al tiranno Dionigi di Siracusa.

Così  ho concentrato l’attenzione sul  fenomeno dell’errore.

Perché parlare di errore? Perché di solito si attribuisce a chi parla la responsabilità della correttezza della comunicazione, mentre l’ascolto è una parte essenziale del processo per la comprensione del messaggio che ci viene inviato. Comunicare efficacemente risulta essere un evento quantitativamente meno frequente dello scambio di parole, a  causa di disfunzioni-sia da parte di chi emette il messaggio, sia da parte di chi lo riceve- che  producono disturbi. Per esempio chi parla può usare un codice –cioè un linguaggio- sconosciuto a chi ascolta: una lingua differente, un gergo specialistico, o addirittura uno stesso termine a cui si assegna un significato differente. La cosa si complica se si usano sinonimi che arricchiscono il concetto di connotazioni emotive, valutative ed etiche. Se il messaggio espresso verbalmente non corrisponde al comportamento – si sorride mentre  si aggredisce qualcuno- il contenuto  della comunicazione è ambiguo. Altri problemi nascono dalla censura -cioè se si omettono parti importanti del proprio pensiero- così come dalla prolissità – troppi dettagli mettono in ombra il nocciolo della questione.

Chi ascolta può farlo superficialmente con conseguenze sulla percezione e sull’interpretazione del messaggio; può avere riferimenti culturali diversi  che generano confusione o fraintendimenti; può essere attraversato da emozioni in relazione al contenuto del messaggio che ne influenzano la comprensione completa.

Altri errori possono essere causati da ostacoli ambientali, come per esempio i rumori che impediscono oggettivamente l’ascolto.

Così ho pensato di riflettere sulle modalità che caratterizzano l’ascolto da diversi punti di vista che ho individuato  in cinque variabili :

1- i miti intesi come immagini stimolo;

2- i fenomeni o le realtà concrete sottesi o evocati dal mito;

3- le funzioni del  Telefono Amico, cioè i compiti che si è assunta l’Associazione;

4- le tecniche che si possono usare per il raggiungimento degli obiettivi e per l’intervento in presenza dei fenomeni individuati;

5- i cambiamenti che il volontario, o il Telefono Amico come organizzazione, dovrebbero introdurre per aumentare la congruenza fra teoria e pratica.

In questa  tabella sono riassunti i cinque scenari che ho ricavato da questo esercizio creativo.

Miti

Realtà/fenom

Funzioni TA

Tecniche

Cambiamenti

Dionisio / Bacco

Creatività/ immaginazione

Far cambiare

Meta-comunicazione

Tecn.provocat.

Dalla centratura su di sé a quella sull’altro

Semele

Curiosità

Far aprire

Segnali contatto

Domande & risposte

Confini sé/altro

Intrusività / scambio

Orecchio di Dioniso-
Invasori & prigionieri

Paura

Intimità

Segreti

Prevenire

Far sfogare

Condividere

Creare relazioni

Indifferenza

Consulenza emotiva

Implicazioni emotive

Ganesh

Tolleranza

Saggezza

Dare senso alla diversità

Tecniche di rispecchiamento

Essere a-valutativi

Buddha

Ascolto ecologico

Stimolare benessere

Inversione di ruolo

Attenzione segnali deboli

Un’avvertenza per chi legge: quello che segue va inteso come un punto di vista utilizzabile per  riflettere e, forse, per stimolare altre (nuove?) strategie di intervento.

Primo mito: Dioniso

Dioniso è figlio di Giove e di una donna mortale, Semele, figlia a sua volta del re di Tebe. Rimasto orfano, Dioniso viene tenuto nascosto da alcune ninfe, perché Giove ha paura che Giunone, sua vera moglie, si vendichi di lui e del suo tradimento uccidendone il figlio/frutto. Così Dioniso trascorre la sua vita nel bosco con un maestro, finché scopre l’uva ed “inventa” il vino che porta poi in dono agli uomini i quali lo assaggiano e da quel momento  ne godono. Egli, dunque, incurante del pericolo che grava su di lui, si allontana dal bosco dove è stato allevato dalle ninfe e viaggia per tutta la Grecia portando in dono il vino come elemento di felicità, di gioia, di divertimento e di allegria fra gli altri uomini. Rinfrancato da questo evento, un giorno Giove decide di portare il figlio  sull’Olimpo e di presentarlo agli altri dèi ai quali racconta tutta la storia. Gli abitanti dell’Olimpo restano perplessi al racconto e, un po’ increduli, guardano Dioniso con diffidenza finché egli non offre il vino. Dopo aver assaggiato la bevanda, gli dèi concedono a Dioniso prima l’immortalità e poi ne fanno  un loro pari.

Morale: Dioniso in vantaggio in quanto discendenza di un dio  ed insieme in pericolo  per lo stesso motivo,  trova la soluzione alla sua difficile situazione attraverso un’invenzione, un gesto di creatività,  il cui prodotto condivide con altri umani e Dei.  Il dono, l’aver trovato l’uva e di conseguenza l’aver inventato il vino, è qualcosa che è prodotto dalla sua creatività collegata all’attenta osservazione del mondo in cui  vive.

Creatività e immaginazione . Molte volte noi riusciamo a capire quello che una persona ci vuol dire proprio attraverso queste due capacità. La comprensione avviene, perché mettiamo insieme dei dettagli, apparentemente insignificanti, e ci creiamo un quadro della situazione, che è diverso o parzialmente diverso da quello che avevamo inizialmente. Oppure perché prendiamo degli spunti e li utilizziamo in una maniera differente da quella tradizionale. Come quando ci capita di leggere un romanzo e ad allo stesso tempo, nella nostra mente, scorrono le immagini del racconto come fosse un film. Chi ama le opere di narrativa conosce l’importanza delle descrizioni particolareggiate per costruire lo scenario completo all’interno del quale ogni singola azione prende il giusto peso e si evidenziano i collegamenti fra le parti. Si riesce così a ricostruire l’ambiente, oltre alle azioni dei protagonisti, completando le parti mancanti secondo i principi della percezione che ci consentono di vedere una figura, benché incompleta, in forza dello  sfondo.

Creatività e immaginazione sono essenziali per trovare i tasselli mancanti, utili per  arricchire e precisare il messaggio  ricevuto.  Fra le componenti della creatività ci sono infatti la capacità di osservazione –collegata alla memoria- la capacità di   analisi e la capacità di elaborare la realtà  connettendone i differenti elementi in insiemi/aggregazioni che possono produrre “oggetti” nuovi o prima “invisibili”. Mentre la creatività tiene conto della realtà e delle sue leggi e regole, l’immaginazione introduce la fantasia, il magico, impossibili concretamente ma non per questo  meno influenti sulla psiche umana. Potremmo forse sostituire questi due concetti con altri due: razionale/irrazionale-emotivo.  In altre parole  ascoltare e capire non solo con la mente, il cervello, ma anche col cuore.

Il richiamo è alla funzione metabletica tipica del volontario in generale, ma particolarmente congruente per chi si dedica al Telefono Amico (TAI d’ora in poi). Poiché il servizio ha per utenti privilegiati persone in stato di crisi, che potrebbero in conseguenza a questo attivare comportamenti estremi e pericolosi per sé e per gli altri, la produzione di un cambiamento, anche minimo, è essenziale. Così il volontario si connota per il suo  desiderio di far cambiare, e per la tensione al far cambiare. Ciò che interessa nell’immediato è influenzare lo stato emotivo per modificare le decisioni prese in un momento di sconforto ed evitare l’irreparabile.

Per aiutare la persona al telefono, si deve fare in modo che essa modifichi la percezione di quanto sta vivendo. Ogni situazione, evento, fatto della vita, suggerisce delle reazioni soggettive che possono essere radicalmente diverse da persona a persona, in conseguenza per esempio del carattere, dell’esperienza, dell’umore. Non si tratta  di voler modificare la posizione dell’altro radicalmente, ma piuttosto di illuminare con un fascio di luce qualche dettaglio che gli può essere sfuggito e che, evidenziato, può stimolare altre visioni, nuovi punti di vista. In questo senso l’errore si può trasformare in creatività, utile a suggerire un’immagine che modifica lo scenario, come il vino che ha guadagnato l’Olimpo per un mortale condannato a morte.

E’ famoso un piccolo esercizio di creatività per illustrare questo approccio ai problemi: immaginate di camminare per la strada, tranquilli per i fatti vostri. Improvvisamente incontrate un’altra persona che viene verso di voi e quando  vi incrocia, vi riempie di botte e vi spacca un braccio. Così voi finite in ospedale, dove  ne avrete per un mese.

Domanda: quali sono i vantaggi?

I vantaggi sono ad esempio che per un mese finalmente non dovrete andare a lavorare; che  vi potrete  occupare dei vostri hobbies; che finalmente farete il check-up completo che vi proponevate di fare da 20 anni; eccetera, eccetera.

Dunque per promuovere un cambiamento bisogna anche mettersi in un’ottica che consenta a noi, che rispondiamo al telefono, di vedere alcune cose in maniera diversa da come le vede la persona che ci chiama senza per questo banalizzare il problema dell’utente, perché esso è sicuramente significativo ed importante per lui.

Ebbene la creatività è una dote che  può aiutare in questo senso, offrendo spunti concreti utilizzabili per l’intervento. Può parere un azzardo, ma -applicando l’approccio creativo-  potrebbero essere di aiuto in questo caso alcune tecniche cosiddette provocatorie. Esse mirano a provocare una reazione emotiva significativa, che sviluppi un ripensamento ed una revisione del contenuto della comunicazione.

Quando parlo di provocazioni mi riferisco al tipo di intervento. Per esempio: mettere in dubbio quello che l’altro dice, o contraddirlo; oppure illustrare  in maniera abbastanza vivace, se non aggressiva, altri modi per affrontare le situazioni;  fare l’elenco di opzioni diverse;  suggerire percorsi evitati, mai presi in considerazione  dall’utente. Può sembrare un approccio pericoloso, una  modalità poco accogliente, una strategia che accelera una decisione autolesiva.

Una certa dose di  rischio è innegabile. Potrebbe accadere per esempio che, se un utente ci ha messo tanto per alzare il telefono, questo trattamento provochi la sua ira ed il suo rifiuto del rapporto, con la conseguente interruzione della telefonata.

Ma questo è un evento che potrebbe accadere comunque. In più, indipendentemente dal fatto che l’interlocutore stia poco oppure molto tempo al telefono, il volontario TAI non sa a priori come andrà a finire la telefonata, né quanto durerà, né cosa farà l’utente dopo la conversazione. Quindi non è detto che un approccio più deciso sia negativo.

Una presa di posizione un po’ vivace potrebbe non essere necessariamente negativa nell’esito: essa non comporta come conseguenza logica ed unica una decisione drastica da parte della persona che ha telefonato.  Anzi, di solito un’eventuale arrabbiatura produce e fa utilizzare energia, inserendo una modificazione nello stato emotivo dell’utente e stimolandone la vitalità.  In più la forza di questa strategia sta nella cosiddetta “delusione delle aspettative” poiché chi telefona lo fa per avere comprensione e non immagina un atteggiamento critico. Benché in uno stato di difficoltà, chi telefona usa una forma di potere nei confronti di chi chiama in suo aiuto e può arrivare ad  applicare  modalità manipolative al rapporto che stabilisce. Se così fosse la strategia accogliente non ha efficacia per produrre un cambiamento.

In alternativa, potremmo ricorrere alle procedure tradizionali o cercare delle strade intermedie.

Per riuscire a decidere ed operare una scelta in un tempo così breve come quello di una telefonata occorre stare molto attenti ai segnali di meta-comunicazione.

Il concetto della meta-comunicazione –da P.Watzlawick in poi- indica la relazione che esiste fra chi comunica. Metacomunicare correttamente – cioè in modo efficace – comporta il rendersi conto che il proprio sistema di codifica linguistica può essere diverso da quello dell’interlocutore  e la consapevolezza degli aspetti relazionali propri dello scambio comunicativo.

A questo punto si apre un problema di fondo. La relazione fra utente e volontario del TAI nasce e si sviluppa attraverso il telefono, mentre quasi tutti i segnali standard classici di meta-comunicazione vanno osservati visivamente, cioè hanno bisogno della presenza fisica. Ad esempio l’ abbigliamento, l’espressione del  viso, la  gestualità, ecc. non si vedono al telefono. In futuro forse  ci saranno delle soluzioni funzionali a superare questo problema[1] ma per ora  non c’è la possibilità di vedere. Parrebbe anche che non ci sia la “volontà” se ci si vuole attenere alle norme dello Statuto del TAI. Quindi sono altri gli elementi a cui prestare attenzione. Come ad esempio la scelta dei vocaboli; la sintassi (cioè come è costruita la frase); la ripetizione di alcuni vocaboli rispetto ad altri; il tono della voce; la velocità con cui si esprime un pensiero;  i sospiri o il pianto; e così via. Tutti elementi impalpabili, e difficili da valutare non conoscendo l’interlocutore. Resta però una strada da percorrere, rispetto sempre alla possibilità di cambiamento. Di solito le prediche non sono efficaci  quanto invece gli interventi che toccano la persona nel profondo. Ciò non richiede un  discorso lungo, quanto di riuscire a capire qual è l’elemento, l’insieme di forze e di debolezze in grado di provocare un’emozione significativa e contrastante rispetto allo stato d’animo che ha spinto alla telefonata. Il cambiamento nel vissuto può produrre una modificazione nelle primitive intenzioni.

Il mito di Dioniso-Bacco si adatta a questa situazione analogicamente: il fanciullo sopravvive, nascosto e protetto, ma privo di relazioni; schiavo benché molto amato; in un rapporto di dipendenza sia da Giove suo padre, sia da Era (Giunone) sua temibile nemica. 

Il  volontario TAI  è ugualmente nascosto per  essere protetto  dall’invasione degli utenti nella sua vita privata.  Lo stratagemma  dell’anonimato non lo preserva però da un legame di dipendenza dai suoi utenti. Il senso di responsabilità per l’agito (o meglio, il “detto”) rappresenta  un fardello pesante e forse eccessivo in un contesto di volontariato.

Questa può essere la causa del turnover dei  soci TAI, ed anche dell’affluenza ridotta di volontari in rapporto ad altre organizzazioni simili. Il servizio prestato richiederebbe una massiccia   formazione ed anche il supporto della supervisione e del counseling con ciò rendendo necessarie delle risorse economiche consistenti. 

Allora come procedere? Tutto questo, che cambiamento comporta al volontario? Ho inserito quest’ultima variabile perché interpreto il titolo di questo convegno in questo senso: credo che ascoltare le persone, ascoltarle veramente, cambi anche l’ascoltatore. In quest’ottica il servizio del TAI, anche se esercitato da volontari, richiede un costante modificarsi, per rendersi sensibili e permeabili e per poter continuare nel tempo.  Peraltro, questo si configura come un vantaggio in un mondo dove l’omologazione rappresenta  la tendenza più diffusa, perché consente di continuare ad evolvere, a crescere, a svilupparsi.

Da questo punto di vista, quello che il volontario dovrà fare è cambiare la centratura, la focalizzazione: passare da sé agli altri. Se io voglio ascoltare, necessariamente devo cambiare.

Questo  atteggiamento mette in discussione tutta la mia persona, ed i comportamenti che agisco. Il volontario TAI si sente in quanto tale una persona importante e significativa per le cose che fa, e in questo senso è una persona centrata su di sé. In realtà tale pensiero è dominante in tutti gli operatori che si occupano di azioni sociali, che siano volontari o professionisti. È abbastanza naturale ritenersi il  fulcro della situazione , anche se non l’elemento più importante, perché in questa società dove tutti pensano ai soldi, all’effimero, all’apparire anziché all’essere,  avere come valore il benessere altrui,  mette in una prospettiva diversa. Per questo siamo importanti.

Proprio perchè  viviamo in un mondo dove le diversità tendono ad appiattirsi, la condizione di divergenza acquista molta importanza, ha molto significato, evidenzia ed enfatizza. Questo è il contenuto dello scambio fra il servizio  prestato, di solito pesante e di sacrificio, e l’assenza di compenso. Non è malvagio né scandaloso fondare anche il volontariato su una transazione. L’appellante stesso acquisisce un’altra importanza, perché valorizza  il servizio e  permette uno scambio significativo. Ciò dovrebbe cambiare l’ordine delle cose.

Secondo mito: Semele

Giove era un po’ zuzzurellone, e oltre alla moglie aveva un certo numero di amichette più o meno vicine. Sposato con Giunone, non le era fedele e quindi, quando capitava l’occasione, passava dal corteggiamento a qualcosa di più significativo. Semele diventa così l’amante di Giove,  benché non possa mai vederlo. Il dio arriva quando c’è buio, fa l’amore, se ne va prima che si faccia giorno e quindi Semele non lo vede mai fisicamente. Nel frattempo Giunone, che – come tutte le mogli – è sospettosa, riesce a scoprire l’inganno del marito e si ripromette di vendicarsi. Così  suggerisce a Semele di chiedere a Giove come prova d’amore di giurare di esaudire ogni suo desiderio.Semele è inizialmente un po’ perplessa di fronte alla proposta, perché pensa che Giove, essendo un dio, possa avere la facoltà di non prestare fede alle promesse. Ma Giunone replica che i giuramenti sono sacri anche per gli dèi e quindi Giove, dopo aver giurato, dovrà tener fede all’impegno preso. Poi  Semele gli  chiederà di mostrarsi a lei. Dal canto suo Semele, pur essendo molto contenta della relazione con Giove, era un po’ curiosa, desiderava sapere chi fosse, e voleva vederlo fisicamente. Ella pertanto mette in atto i suggerimenti di Giunone e  chiede  all’amante di farsi vedere. Giove, fedele al giuramento, ubbidisce, ma la sua luminosità fa sì che Semele muoia in un incendio, bruciata dalla luce che Giove  emana. Si dice anche che Giove a questo punto abbia tolto a Semele il bambino di cui era  incinta – e che poi diventerà Dioniso – e se lo sia cucito nella coscia, fino allo scadere del tempo di gestazione

Il  mito di Semele  evidenzia il fenomeno della curiosità, che nello specifico rappresenta un modo attraverso il quale il volontario aiuta una persona ad aprirsi, a comunicare.

Nel nostro contesto culturale essere curiosi è ritenuto  un comportamento leggero, invadente o addirittura non rispettoso nei confronti degli altri. Ma la curiosità ha valenze positive quando stimola all’apprendimento e alla conoscenza. Questo vale anche nel campo delle relazioni interpersonali. Dal punto di vista della Psicologia in presenza di un’altra persona –anche una sola di numero- si verifica una comunicazione e si  stabilisce una relazione interpersonale.

Ma c’è di più: “L’attività e l’inattività, le parole e il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.” (Watzlawick, Beavin, Jackson – Pragmatica della comunicazione umana – Astrolabio, Roma, 1971).

Nella comunicazione la possibilità di capire dipende in gran parte da chi comunica e quindi, nel caso del TAI, da chi  telefona: per esempio la sua credibilità, la sua forza di attrazione -determinata dalla similarità e dalla familiarità col ricevente- e la sua piacevolezza. In un processo normale chi comunica deve stimolare ed ottenere l’attenzione e l’interesse dell’interlocutore usando accortamente le parole ed il silenzio, i gesti e la mimica del viso. Tutto questo non è necessario per il volontario TAI che è interessato al comunicatore per scelta di campo. Se chi comunica si esprime bene il risultato finale è che la persona che ascolta capisce effettivamente il messaggio. Gli esseri umani sono però piuttosto contorti: anche quando hanno le idee chiare su ciò che vogliono esprimere, non sempre scelgono  la strada più diretta. Nella maggioranza dei casi seguono percorsi tortuosi, per una forma di pudore, oppure perché non sanno bene come spiegarsi o, infine, perché la loro situazione è effettivamente complicata e difficile da spiegare ad un estraneo. E’ comprensibile che chi telefona abbia qualche titubanza rispetto al condividere il suo problema: se non avesse difficoltà relativamente alla comunicazione, probabilmente avrebbe trovato con chi confidarsi nella sua cerchia di amici o di familiari.

Il TAI ha un’utenza maggioritaria in età piuttosto avanzata: dai 35 anni ai 50 anni. Questa è un’età in cui un individuo è considerato adulto, responsabile di sé, maturo. Stando alle nostre leggi un individuo è maggiorenne, cioè gode della piena capacità di agire giuridicamente, a partire dai 18 anni. Così vota, guida la macchina, si può sposare, può tenere per sé e amministrare una vincita miliardaria alla lotteria. A 35 anni alcuni hanno appena  costituito una loro famiglia, mentre altri sono nonni di numerosi nipoti. Quindi  è un periodo di vita corrispondente alla maturità. Il fatto che il TAI abbia quest’utenza come maggioritaria indica  che in questa fascia ci sono problemi a volte molto grossi e che probabilmente c’è una effettiva difficoltà o una possibile reticenza ad esprimersi, cioè un’ambivalenza fra il desiderio di condividere le proprie preoccupazioni e il problema di dare un’immagine  di sé non congruente con lo stereotipo culturale. Tuttavia, dando il beneficio della buona fede a tutti e pensando comunque che chi fa una telefonata sia bisognoso di aiuto, occorre riuscire ad arrivare al nocciolo del problema, capire quale sia effettivamente l’elemento che ha stimolato il contatto, che ha provocato questa comunicazione e, quindi, facilitare l’apertura, la condivisione.

Come si fa a far aprire? Come si può superare l’ambivalenza di chi è in un grave disagio ed essergli di effettivo supporto?

Un modo relativamente efficace è quello di attivare un ascolto partecipato, teso cioè ad interagire con chi parla. Lo scambio e l’interazione fra emittente e ricevente sono parti essenziali del processo di comunicazione e di norma producono il successo dell’impresa. Il meccanismo del feed-back è tipico della comunicazione cosiddetta “a due vie”, cioè quella che prevede che emittente e ricevente si scambino i ruoli per tutto il tempo di durata della comunicazione. Si ha così  un costante controllo del livello di comprensione del messaggio inviato. Il feed-back, o informazione di ritorno, serve anche per fornire all’emittente informazioni relativamente  alle reazioni indotte nel ricevente dal suo comportamento. Così chi non ha capito può chiedere spiegazioni e chi ha parlato può darle, rendendo più efficace il processo.

Fare delle domande, poiché la questione tecnica riguarda l’incremento del livello di informazione, non solo fa parte della normale esperienza della comunicazione, ma evidenzia anche l’interesse  dell’ascoltatore per il suo interlocutore.  Dall’altra parte fare commenti  su quanto si apprende evidenzia il coinvolgimento emotivo e la propria vicinanza all’altra persona.

Fra le due persone che comunicano si stabilisce un  transfert, cioè si crea un rapporto emotivo indipendente dal livello di frequentazione e di conoscenza. Il termine non ha qui il significato che gli viene dato in psicoterapia. Si vuole invece sottolineare la presenza di  un sentimento, un fenomeno di “innamoramento”, di feeling, di vicinanza  di chi parla, è bisognoso di aiuto, nei confronti di chi ascolta, dall’altra parte del telefono. Il transfert inserisce una variante nella situazione, rendendo il clima emozionale  adatto  a comunicazioni più intime e profonde. Inoltre si stabilisce un rapporto di dipendenza  nei confronti di chi è investito dal transfert e questo consente di modificare il comportamento dell’utente che chiede aiuto proprio per essere distolto e dissuaso dalle  decisioni che ha preso.

Sta al volontario TAI “l’onere della prova” e cioè dimostrare che vale la pena cambiare.

Può essere necessario che il volontario sia il primo ad esprimere empatia, ad evidenziare le proprie emozioni, in modo che poi – sentendo una comunicazione connotata anche da questi elementi – l’appellante sia portato a parlare anche di temi  che inizialmente voleva tenere nascosti. Nessuno  telefona davvero perché ha il figlio che non trova lavoro, per esempio, perché ci sono altre strade per trovare soluzioni a tale problema. Gli argomenti di avvio del contatto sono di una certa importanza e, anche se  fossero mal posti, sono dovuti a  reali difficoltà e a concrete situazioni di disagio. Persino quando capita  che le volontarie – in particolare quelle con voce giovane e/o  bella – siano importunate venendo fatte oggetto di corteggiamento durante la telefonata, il fenomeno va considerato come espressione di un bisogno e/o sintomo di un disagio.

Per le volontarie gestire queste situazioni può essere un problema, benché rappresenti un aspetto della telefonata, almeno inizialmente, piacevole. Chi fa questo tipo di approccio lo sa benissimo e non sempre è spinto da un’intenzione perversa e maligna. Può essere uno stratagemma per  sentirsi a proprio agio. Può trattarsi di un tentativo di “captatio benevolentiae” utile a facilitare la comprensione  da parte dell’ ascoltatore. Dall’altra parte chi riesce a porre le basi per un buon rapporto e non ne modifica lo stile e il tono  durante la telefonata, probabilmente ha qualche problema collegato a questa modalità comunicativa. Per esempio una difficoltà di approccio con le persone con le quali dovrebbe confrontarsi nel quotidiano o che gli stanno accanto. Questo comportamento potrebbe quindi essere utilizzato per velocizzare la creazione di un clima emotivo che facilita la comunicazione e la relazione col volontario TAI, consentendo all’appellante di esprimersi più adeguatamente in rapporto al suo problema, ma  nel contempo ponendo i limiti  entro i quali il servizio viene offerto e gestito.

Un’altra tecnica consiste nel dare  possibili risposte, cioè nel fare ipotesi su come potrebbe essere risolto il problema. Le risposte possono riguardare anche valutazioni e giudizi; possono offrire supporto; possono interpretare e spiegare alcune parti o tutta la situazione. Può servire ad esplorare ed insieme a raccogliere altre informazioni, quindi ad avere maggiori dati sui quali fondare successivi interventi. 

Cosa cambia per il volontario che usa queste tecniche?

Cambiano  i confini. Il quesito diventa: “fin dove  ho diritto ad entrare in intimità con l’altra persona? Fin dove è utile che io le faccia dire o ammettere alcune realtà, alcuni pensieri, alcuni comportamenti di cui non vuole parlare? Fino a dove ho il diritto di essere intrusivo? Quando devo lasciare stare e fermarmi?”. Credo che questo sia un problema etico piuttosto serio, la cui importanza si accentua a causa della mancanza di informazioni rispetto all’esito del colloquio telefonico. Fra l’altro la questione dei confini e dell’anonimato, due aspetti della stessa problematica, hanno influenza sulla questione organizzativa e sulla visibilità all’esterno, oltre che sulle adesioni al Telefono Amico Italia.

Questi dubbi vanno risolti di volta in volta, poiché non c’è una scelta che possa dare maggiore sicurezza e garantire i risultati. D’altronde gli aiuti possono essere soltanto due: una maggiore professionalità e una maggiore esperienza.

Questo tipo di problema –quanto essere intrusivo-  coinvolge anche chi si occupa di formazione e di sviluppo delle competenze psicologiche di una persona. Si ha a che fare con questo delicato confine e si deve decidere se valicarlo o no ed in che modo. Gli elementi che risultano d’aiuto in questo caso derivano dalla professionalità e dall’ esperienza, dalla percezione che si ha di quella persona e dalla sua reattività. La decisione che si individua si basa a volte su qualche elemento in più, rispetto alle informazioni  che può avere un volontario TAI. In realtà rappresenta la risposta alle seguenti domande: “ce la farà questo individuo a sostenere il mio intervento? Andrà via a pezzi oppure troverà energia e sostegno da quello che io gli sto per dire? Questo gli servirà per andare avanti?”

E’ molto difficile anche nel  lavoro dei formatori, sapere in anticipo cosa succederà dopo.  Lo è ancora di più per il TAI. È un rischio che forse bisognerebbe prendere in considerazione più profondamente e collettivamente per arrivare ad una strategia condivisa.

Andrebbero studiate le modalità di verifica e gli indicatori di successo del lavoro del TAI per avere  un’immagine più corretta e fedele alla realtà. I dati non dovrebbero essere solo quantitativi, ma anche qualitativi. La  valutazione, su come funziona il servizio, come finisce la telefonata, la frequenza di alcune problematiche, la  causa dell’avvicendamento fra i volontari, ecc., offrirebbero l’opportunità per riflettere su altro.   L’anonimato per entrambe le parti coinvolte  fa parte dell’esperienza e della filosofia del TAI. Si tratta di argomenti discutibili o non è ammesso neppure di rifletterci?   Cosa è ritenuto più importante fra l’essere fedeli ai principi fondanti  del  TAI  ed essere efficaci?

Ecco un esempio che potrebbe stimolare la riflessione e suggerire percorsi alternativi di dibattito.

La Legge N.45, contro la tossicodipendenza, prevede la segnalazione alla Prefettura del giovane che venisse trovato in possesso di sostanze stupefacenti, a partire dalla marijuana in su, in qualsiasi quantità, anche per uso personale. Segue un colloquio, obbligatorio per legge, con un’assistente sociale della Prefettura. Successivamente all’A.S. compete di  decidere cosa fare di queste persone, se sanzionarle oppure inviarle in comunità terapeutiche o in trattamento e con quale intensità. E’ possibile anche non intervenire del tutto.

Il tempo medio del colloquio, trattandosi spesso della prima segnalazione, è di circa 20 minuti. La stessa durata  media delle telefonate al TAI.

In entrambi i casi il tempo pare oggettivamente poco per ottenere qualsiasi tipo di risultati. Nel caso della L 45 si tratta di decidere fra sanzioni diverse (dal ritiro della patente, ad una multa, alla comunità terapeutica, alla terapia). Nel caso del TAI si tratta di evitare  comportamenti  a volte irreparabili.

Gli operatori della Prefettura impiegano più tempo con i giovani che non parlano e  sentono il bisogno di approfondire il colloquio  per comprendere le cause dell’uso di droghe. E’utile che l’Assistente Sociale approfondisca il discorso entrando nell’intimità della persona? Se  chi deve  sostenere il colloquio non ha assolutamente intenzione di collaborare o comunque manifesta molta reticenza è corretto che l’operatore usi tutte le tecniche che conosce per stabilire una comunicazione dato che lo scopo di questa procedura è di attuare un intervento di prevenzione secondaria del tutto impossibile se non si stabilisce un rapporto?  Le difficoltà concrete con cui deve fare i conti il personale della Prefettura sono un organico sotto dimensionato, un numero di colloqui da fare esorbitante e sempre in crescita, la lentezza della burocrazia che soffoca più che essere di supporto, le leggi buone ma inapplicabili, ecc. La situazione potrebbe essere migliorata se si investisse del tempo, e forse anche del denaro,  per  una verifica seria  della situazione ed una valutazione del rapporto costi-benefici di un tale servizio.

Così  in molti casi ci si attiene ad applicare  la formalità  tralasciando la sostanza, con le conseguenze che tutti possiamo  immaginare.

Per TAI è diverso. La gestione del caso è il contenuto dell’intervento.

Cosa succede all’utente con cui non è stato possibile instaurare la comunicazione ed avviare un rapporto? Qualche errore è pressoché inevitabile …… E’ quindi opportuno aumentare il livello di sicurezza, la sensibilità, la tolleranza alla possibilità di errore dei volontari perché riescano a gestire con minor fatica queste situazioni. Diversamente occorre rivedere la mission del TAI e soprattutto le modalità di perseguimento di essa.

Terzo mito: l’Orecchio di Dioniso

L’orecchio di Dioniso, o di Dionigi, perché in realtà si riferisce al tiranno di Siracusa, è una caverna che si trova  a Siracusa e che secondo la leggenda serviva per due scopi. In primo luogo, data la sua posizione e la sua conformazione, serviva  per sentire in anticipo l’arrivo delle navi e quindi anche dei nemici che arrivavano dal mare. In secondo luogo serviva per rinchiuderci i prigionieri. Infatti, si narra che il tiranno avesse ordinato che, in mancanza di nemici provenienti dal mare, fossero rinchiusi nella grotta i suoi prigionieri, poiché – tenuto conto che essi si confidavano facilmente tra loro – la struttura della caverna avrebbe permesso a Dionigi di ascoltare quello che si dicevano. Tale inganno dava la possibilità al tiranno di raccogliere prove più concrete per punire i prigionieri.

Questa leggenda (il nome è stato dato dal pittore Caravaggio)  mette in luce tre fenomeni: la paura, l’intimità e i segreti.

Una  persona che si rivolge al TAI ha sicuramente qualcosa che la preoccupa, ha un qualche motivo di timore, di paura, che può essere a un livello più o meno consapevole, più o meno profondo. Ci sono tanti tipi di paura: ve ne sono alcune che ci portiamo dietro da quando nasciamo, altre assolutamente non superabili, neppure con un supporto esterno. La paura della morte, ad esempio.  La paura è un sentimento soggettivo così come è personale il grado di intensità.  Ci  sono persone che  hanno paura di esprimersi, di parlare, preoccupate di evidenziare così delle loro caratteristiche che ritengono  inaccettabili per gli altri. Il fenomeno dell’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita che osserviamo nel nostro Paese si può spiegare in vari modi: con la difficoltà di apertura; la percezione di spazi di libertà scarsi e circoscritti; il disinteresse per la comunità in cui si è inseriti; una scala di valori basata sull’effimero e sul contingente;  la difficoltà di gestione della propria diversità o di alcuni comportamenti “fuori dalla norma”.

Attraverso la scoperta dei problemi di un individuo, si entra nel suo profondo. Ci sono degli aspetti che sono talmente nascosti, talmente intimi da essere taciuti. Persino nella relazione di coppia ciascuno dei membri  non condivide tutto col partner. Il che è anche un bene anche se più questo spazio “riservato” è vasto e consistente,  più prende corpo il dubbio che qualcosa non funzioni correttamente nella relazione.

In alcuni casi questo livello di intimità  viene valicato benché l’interlocutore sia un estraneo. A volte proprio perché è un estraneo! In ogni caso si tratta di un dono e insieme di una responsabilità, soprattutto se si tratta di un “appellante” che si rivolge al TAI. Si diventa così depositari di contenuti che possono essere per il ricevente privi di importanza  ma che ne acquistano in funzione delle intenzioni di chi li ha offerti. Non si tratta di un valore oggettivo, ma non per questo è da sottovalutare. Quindi  l’informazione  è importante, almeno per chi la emette.

Questo contesto attiva le funzioni della prevenzione e dell’espressione emotiva. Così come l’orecchio di Dionigi serviva per prepararsi ai nemici, il volontario - attraverso questa funzione – fa qualcosa per evitare alla persona che chiede aiuto dei danni peggiori, quindi per prevenire.

Il concetto rimanda ad un percorso lungo e differenziato in rapporto al tipo di prevenzione. Secondo la  definizione di Caplan, si tratta in questo caso di prevenzione terziaria, tesa ad evitare la cronicità del disagio  che potrebbe portare l’individuo ad atti autolesivi. Ma se individuiamo l’origine del malessere nel cosiddetto “disagio della convivenza” , ecco che il compito del TAI comprende anche azioni che dovrebbero avere un carattere più generale e avere destinatari collettivi che vanno  oltre l’individuo che chiede aiuto. Volendo considerare la situazione con le caratteristiche attuali, ciò che andrebbe fatto non riguarda solo la dissuasione dal prendere decisioni estreme, ma dovrebbe consentire – compatibilmente coi tempi della telefonata e con i problemi dell’appellante – di porre le basi per l’avvio di un processo che aumenti  l’autostima tenendo conto soprattutto di tre variabili:

  • il rafforzamento dell’IO come identità ed accettazione di sé
  • l’aumento del livello di sicurezza come espressione di fiducia in sé
  • la stimolazione della socievolezza come capacità di entrare in relazione con gli altri.
 

Può essere di supporto a questa funzione l’altra che evidenzia la parte attiva dell’ascolto e che si materializza attraverso:

  • la creazione di uno “spazio libero” dove ciascuno si può esprimere come vuole, per modalità e contenuto;
  • la valorizzazione del messaggio comunicato;
  • l’incentivazione dell’apertura alle emozioni ed ai sentimenti che vivono in parallelo col l’accoglienza e la comprensione per la “parte debole”  dell’appellante o comunque per gli aspetti che questi non accetta di sé.
 

Cosa si può fare dal punto di vista tecnico? A mio parere si deve condividere.

Più facile da dire che da fare. Non sembrano esserci problemi di comprensione del concetto, eppure trasferirlo nella realtà concreta attraverso comportamenti coerenti richiede convinzioni profonde e tempi lunghi per l’apprendimento.

Mettersi nei panni degli altri è un modo di dire, che rivela le difficoltà nel momento dell’attuazione concreta. Basta pensare al fenomeno degli immigrati: non più tardi di 50 anni fa molti italiani andavano all’estero come emigranti e avevano grandi difficoltà ad integrarsi con i residenti. Così come oggi accade agli extracomunitari. Questa  esperienza non fatta da tutti individualmente, ma patrimonio collettivo del nostro popolo,  non ha lasciato traccia e non influenza gli attuali comportamenti degli italiani nei confronti degli immigrati che sono nel nostro Paese.

Altre volte ci capita di avere accanto una persona che vede le cose come noi le vedevamo in passato, e noi la percepiamo come un “marziano” semplicemente perché col tempo abbiamo cambiato posizione. Non facciamo il ben che minimo sforzo per capire. Molti dei problemi tipici della famiglia fra genitori e figli derivano da comportamenti troppo rigidi o al contrario troppo lassisti, che non tengono conto dell’esperienza vissuta da chi è ormai adulto. Se ci sono difficoltà a condividere eventi, situazioni, problemi, persino a livelli di familiarità e di consanguineità elevatissimi, a maggior ragione ciò può accadere nei confronti di  un estraneo.

Per condividere si devono verificare alcune condizioni:

1.        accettare l’altra persona com’è   indipendentemente dal  grado di somiglianza  che si ha con lei

2.        non voler cambiare l’altra persona

3.        non esprimere né formulare (anche senza esprimerli) giudizi che possono influenzare il comportamento all’interno della relazione

4.        mettere a proprio agio l’interlocutore

5.        interagire con l’interlocutore e porsi su un piano di parità con lui.

Di seguito viene proposta una griglia che potrebbe essere di utilità sia per la raccolta  delle informazioni, sia per facilitare la condivisione, sia per consentire all’utente una maggiore coscienza di ciò che gli sta accadendo.

SCHEMA PER LA RACCOLTA DI INFORMAZIONI

annotazioni

1

Motivazioni della telefonata: perché e perchè ora?

 

2

Qual è il problema-causa del malessere?

 

3

Cosa è accaduto materialmente?

 

4

La situazione-problema è ripetitiva o eccezionale?

 

5

Quali sono le persone coinvolte nel problema?

 

6

Che ruolo hanno le persone coinvolte nel problema?

 

7

Qual è l’elemento che rende la situazione un problema?

 

8

Come potrebbe essere superata la fase critica?

 

9

Quali sono le forze a favore del superamento?

 

10

Quali sono le forze contro il superamento della crisi?

 

11

Quale azione andrebbe fatta per prima?

 

12

Quale risultato dovrebbe ottenere?

 

Un altro elemento che dovremmo considerare è quello della creazione delle relazioni.

Nella vita di relazioni vere, significative e profonde, ce ne sono pochissime.

Il processo di socializzazione -che dura per tutto l’arco della vita- è graduale e discontinuo e richiede una condivisione di valori, di regole, di comportamenti e di emozioni fra il singolo e gli altri individui presi da soli o come  gruppo.  Perché ciò avvenga sono necessarie:

  • la realizzazione di scambi  che possono avere diversa profondità ed intimità
  • la valorizzazione della diversità, senza la quale gli scambi perdono di interesse
  • l’espressione di sé  il più possibile piena ed aperta
  • l’accettazione di una possibile messa in discussione in conseguenza del confronto con l’altro o gli altri.

Fin dalla sua fondazione, perlomeno come centro di aiuto, il  TAI si proponeva anche come supporto in situazioni di solitudine e di assenza di relazioni. Il termine “amico” nel nome dell’Associazione sottolinea ancora oggi questo aspetto anche se, creare una relazione in un tempo comunque sempre molto breve, non è né facile né garantito.  Ma non è neppure impossibile. Fa parte dell’esperienza di molti, se non di tutti,  il ricordo di una persona  incontrata per caso in un momento della nostra vita  che ha lasciato in noi un segno indelebile benché, magari, non ne sappiamo neppure il nome! Sta dunque nella modalità di gestione dell’incontro la possibilità di offrire un vissuto o almeno un modello-esempio di come potrebbero andare le cose.

Così anche per i volontari: occorre riuscire a stabilire una relazione, lasciarsi attraversare dal sentimento, affezionarsi, fare scambi, collegarsi; ma insieme mantenersi a distanza, cioè non essere coinvolti completamente; essere  indifferenti, cioè non parteggiare rispetto  ai contenuti del messaggio che si riceve.

I cambiamenti richiesti da questo punto di vista rimandano al rapporto fra i principi fondativi del TAI e l’operatività concreta.  I comportamenti messi in atto dai volontari, dalle descrizioni che se ne  sentono, parrebbero incompatibili con l’interpretazione stimolata dal mito dell’orecchio di Dioniso. Sta in questo la necessità di cambiamento innanzi tutto dell’atteggiamento e di conseguenza delle azioni da mettere in campo. Essere permeabili dal punto di vista emotivo non significa rinunciare ad una  posizione non invasiva.  D’altra parte il dialogo e l’amicizia richiedono un’interazione, così come attuano un influenzamento che è comunque reciproco, cioè che agisce su entrambe le parti-persone coinvolte.  Garantire la piena libertà dell’appellante non è impedito dall’ ampliare lo scenario  e di conseguenza la visuale sulla situazione.  Non dare risposte risolutive non significa astenersi dal suggerire più percorsi fra i quali l’ altro possa scegliere in piena autonomia e responsabilità.

Stare su questa sorta di altalena può richiedere un affinamento delle capacità e una maggiore attenzione a fenomeni di burn-out che possono aggredire il volontario, ma non aumenta i rischi di insuccesso o la frequenza dei possibili errori.

Quarto “mito”: l’elefante

Gli indù considerano l’elefante come un esempio, una similitudine, un’analogia dell’uomo saggio perché ha le orecchie grandi e quindi sa ascoltare.

Fra gli dei che onorano, Ganesh – che ha la testa di elefante – è uno dei più noti e “condivisi” anche con altre religioni. Le leggende così come i nomi dati a questo dio sono molto numerosi. Mi piace segnalarne due. La prima riguarda la nascita di Ganesh. Secondo la leggenda più diffusa,  Parvati, la sposa di Shiva, lo creò  plasmando i fluidi profumati estratti dal suo corpo e dandogli la forma di un ragazzo bellissimo a cui inalò vita e diede  l’incarico di guardiano severo della sua porta. Fu  per questo che Ganesh   impedì a Shiva di varcare la soglia e nella colluttazione che seguì  venne decapitato.  Shiva, per consolare Parvati disperata per la perdita del figlio, non trovandone più la testa , la sostituì con quella di un elefante e fece di Ganesh suo figlio e il capo di tutti i suoi servitori.

La seconda leggenda è collegata al dio come espressione della saggezza. Un giorno Ganesh giocava col fratello accanto ai genitori i quali regalarono ad entrambi un frutto straordinario. Fra i due nacque una lite per impossessarsi del frutto e quindi fu decretato che l’avrebbe avuto chi dei due avesse fatto per primo 3 giri del mondo.  Mentre il fratello volava nello spazio, facendo però tappa a tutti i templi e luoghi sacri che incontrava, Ganesh fece 7 giri intorno ai genitori con grande devozione e vinse la gara perché spiegò il suo comportamento dicendo “Shiva e Parvati sono la totalità del mondo. In loro si trova tutto l’Universo: non occorre che io vada più lontano”. Ganesh è il dio del quotidiano, della saggezza, del successo. A lui si chiede la protezione e la benevolenza per ogni impresa che si intende avviare, da un matrimonio, ad un viaggio, ad un lavoro.

Due  altri  elementi  mi paiono significativi come suggestione analogica con le funzioni del TAI. Il primo è che la religione Indù non prevede conversioni. Cioè si è induisti solo per nascita, non lo si diventa. Non esiste il proselitismo e d’altra parte nessun induista vuole convincere altri esseri umani che la sua religione è  la migliore. Il secondo: i vari dei (e c’è chi dice che ce ne sono 33 milioni) sono modalità di espressione di un unico Dio in conoscibile e senza forme.

Dunque la saggezza è una sintesi fra intelligenza, creatività, equilibrio, che consente di vedere come possibili soluzioni diverse ma anche di inventarne di nuove  purché congruenti coi bisogni. La tolleranza è una componente della saggezza che permette un criterio di accettazione elastico, che non pone limiti né rispetto alla quantità né alla qualità,  astenendosi da qualsiasi pressione. C’è spazio per tutti.  La convivenza è resa possibile da vincoli, leggi, norme. Non necessariamente si deve ricorre alla limitazione delle libertà individuali o di minoranze. Il rispetto reciproco è essenziale e non va dimenticato né offeso chi ha un ruolo anche se in un contesto estraneo alla nostra cultura. Pare essere questo l’insegnamento dell’Induismo  che è affine alla funzione di valorizzazione e di riconoscimento del significato della diversità.  

Soprattutto nella nostra epoca,  il concetto di diversità non è trattato in maniera univoca.  Da un lato esso è tenuto in considerazione come fattore discriminante. Si pensi all’evoluzione della filosofia del marketing  basato un tempo sul prodotto ed ora sulle tipologia di possibili target che raggruppano a volte consistenti porzioni di potenziali compratori e a volte élites  sofisticate nei gusti. Altri esempi sono le campagne educative in senso lato, a favore dell’integrazione razziale;  la moltitudine di organizzazioni, governative e non, che si occupano dei diseredati che affollano il cosiddetto “Terzo Mondo”. E così via.  Il messaggio sotteso a quest’area parrebbe quello del riconoscimento del diritto all’esistenza di tutti, con pari dignità e diritti.  

Un’altra impostazione opposta alle precedenti  sottolinea l’estraneità, la distanza con chiunque “non sta nella norma”. Ne  derivano forme di “razzismo”    che coinvolgono anche condomini, indipendentemente dal colore della pelle, dalle credenze religiose e dagli ideali di vita.

In un marasma simile non tutti sono in grado o hanno le possibilità di esprimere compiutamente sé stessi. I vincoli non sempre sono interni e dunque derivanti da carenza di capacità psicologiche di qualche genere da parte dell’individuo. In molti casi non è possibile scegliere e, nonostante leggi, norme, consuetudini e diritti,  il timore di subire ingiustamente qualche tipo di vessazione  che coinvolgerebbe anche altri  impedisce di agire secondo il desiderio o l’etica.

Fenomeni come il perbenismo, l’omologazione, il conformismo, l’ossequiosità ipocrita, la retorica, influenzano grandemente soprattutto in un contesto dove le convenzioni, benché negate a parole,  hanno grande peso sui fatti e le azioni compiute.

L’impegno del TAI dovrebbe essere quello di offrire una sorta di “zona franca” dove qualsiasi tipo di diversità  non suscita scandalo, a partire dalla propria  per arrivare a quelle più impalpabili e forse  lontane dal nostro modo di pensare. Può essere questo il problema: ciò che non si conosce si capisce con difficoltà e magari non completamente  e per questo c’è il rischio di rigettarlo, come si trattasse di qualcosa che fa paura  o, proprio perché  sconosciuto, intacca la  nostra sicurezza ed autostima. Per  il diverso vivere l’esperienza del rifiuto, dell’ allontanamento e a volte della segregazione, significa segnare indelebilmente la propria esistenza ed affrontare i rapporti con l’altro  con una sorta di handicap permanente. Alcune diversità possono essere considerate oggettive: il colore della pelle; il parlare una certa lingua; la ricchezza;  le abilità professionali; per fare degli esempi. Altre sono del tutto soggettive  sia per chi le esprime sia per chi le osserva: la religione; la scala dei valori; i sentimenti; le capacità psicologiche; ecc.

In entrambi i casi  queste variabili influenzano il rapporto spesso impedendo scambi paritari e soddisfacenti.

C’è diversità anche fra appellante e volontario TAI. Apparentemente il bisogno sta  tutto da una parte – quella dell’appellante – e la forza di soddisfarlo  sta dall’altra. In realtà a ben guardare invece  entrambi i ruoli hanno bisogni e soddisfattori che risultano fra loro complementari. Il volontario ha “bisogno” dell’ utente perché in questo modo soddisfa il suo desiderio di fare del bene, di essere di aiuto ad un’altra persona, di sentirsi utile. Dunque è una situazione paritaria da questo punto di vista.  Se è vera la battuta “…da vicino nessuno è normale..” - che è diventata l’indirizzo del website degli ex   ospiti dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini- ognuno di noi è caratterizzato in modo da essere unico. Questa unicità  può essere considerata una vergogna da nascondere, o può essere un tesoro da valorizzare, coltivare, potenziare.

La nostra esperienza da questo punto di vista influenzerà il nostro approccio con l’altro. Nel caso essa non sia entusiasmante e dunque non faciliti un’empatia spontanea , può essere d’aiuto l’uso di tecniche di rispecchiamento, cioè di quelle modalità che consentono l’identificazione da parte di chi ascolta e la visione di sé come in uno specchio per chi si esprime. Esse si fondano su due ipotesi. Innanzi tutto quella  che il coinvolgimento emotivo  impedisce una visione equilibrata e realistica della situazione a chi ne è protagonista.  Per fare un esempio, il tempo di attesa di un evento desiderato sembra non passare mai, mentre succede il contrario per un fatto temuto, indipendentemente dalla durata effettiva.  Una scossa di terremoto è molto più lunga del tempo misurato dall’orologio. La realtà appare diversa a causa delle emozioni che ci attraversano in parallelo con lo sviluppo dell’evento. A volte “l’ingorgo emotivo” è tale da non consentirci di ricordare  cosa abbiamo detto; oppure la sequenza degli accadimenti che ci hanno coinvolto; o l’argomento del dibattito; ecc.

La seconda ipotesi riguarda l’ascoltatore che elabora in tempo reale i primi dati raccolti arrivando alla conclusione secondo percorsi standardizzati o stereotipati  o derivanti dalla sua esperienza personale o dalla risonanza emotiva che il racconto ha prodotto su di lui.

In ultima analisi si tratta di superare l’ostacolo rappresentato da un cattivo o lacunoso ascolto da parte di entrambe le parti coinvolte. Queste tecniche di rispecchiamento hanno qualche aggancio con quelle  creative usate nelle operazioni di analisi di un problema: cambiando il punto di vista, evitando la fissità, si possono scoprire dati preziosi per affrontare efficacemente e con successo un  quesito così da individuarne la chiave che porta alla soluzione.

Ascoltare con attenzione e senza interrompere è il primo modo attraverso il quale l’uditore non solo raccoglie informazioni sull’accadimento scatenante, ma anche su come esso è vissuto e connotato da parte del protagonista. Dovremmo tornare a parlare di metacomunicazione, nel senso che il racconto è significativo perché rappresenta l’immagine del passato per il primo attore di esso. Le omissioni e gli ampliamenti, che si potranno scoprire in seguito, sono altrettanto importanti delle informazioni puntuali e precise.

Anche le domande sono utili, soprattutto se sono formulate per far aggiungere dei dettagli  che possono chiarire la situazione. Non devono prevedere o suggerire dunque una risposta, né devono forzare la situazione  costringendo a parlare chi non ne ha voglia. Devono solo rappresentare delle opportunità,  per l’appellante in questo caso, di  offrire informazioni, ma anche di esprimere posizioni, punti di vista, idee, dubbi, emozioni. Tutto questo può favorire la riflessione in prima istanza di chi sta trasmettendo un messaggio. La tecnica è simile a quella che si usa in contesti formativi e/o di supervisione, dove in realtà l’obiettivo è di aumentare la consapevolezza di sé e del contesto in cui si  agisce.

Riassumere il problema, fare il punto rispetto a quanto si è capito, ridefinire la situazione con altre parole rispetto a quelle usate dall’appellante, sono altri modi per consentire a chi ha comunicato:

  • di controllare che il suo messaggio sia arrivato esattamente;
  • di precisare meglio a sé stesso il nocciolo del problema
  • di  prendere coscienza di elementi non considerati, ma significativi.

La vicinanza emotiva fra volontario e appellante è sicuramente alla base di tutto il rapporto e là dove si esprime consente di superare il problema delle competenze tecniche facilitando uno scambio intimo.  Il difficile sta nel superare gli ostacoli posti dallo strumento di comunicazione che non consente né di vedersi  né di toccarsi  e quindi impedisce alcune forme di scambio che più facilmente avvicinano senza dover ricorrere a parole a volte inadeguate.

L’ultimo mito è quello di Buddha

Anche questo dio è caratterizzato dalle orecchie enormi ad indicare la funzione dell’ascolto. Figlio di re e destinato a diventare un guerriero, fu allontanato da questo percorso dal padre che temeva di perderlo secondo quanto affermava una profezia. Ma Siddharta – era questo il suo nome alle origini – scoperta la miseria attraverso gli schiavi del padre, abbandonò sposa, lusso e piaceri per mettersi  alla ricerca della verità. Il nome Buddha significa “persona che ha aperto gli occhi al modo di essere del tutto”. Ed a questo scopo Siddharta dedicò tutta la sua vita,  vivendo poveramente, staccato dal mondo, in meditazione e preghiera costanti. La ricerca e la meditazione gli fecero comprendere che per risolvere i mali  del mondo occorreva trovare in sé stessi  pace e felicità: questa era la strada che avrebbe portato un maggior benessere a tutti gli uomini.

Noi impariamo ad ascoltare prima di imparare a parlare, anzi impariamo a parlare perché ascoltiamo qualcuno che ci parla.

L’ascolto è sempre stato considerato nella comunicazione l’elemento passivo, mentre è  chi parla che ha un ruolo importante. In realtà bisogna essere bravi anche ad ascoltare per capire tutto.

L’ascolto diventa importante ed attivo attraverso due meccanismi: il primo è quello del rimando o feed-back, cioè della risposta che chi ascolta dà a chi parla. Il secondo è l’ ascolto ecologico, usando una definizione attuale, nel senso che è attento al benessere dell’altra persona e quindi al benessere della relazione. Noi in realtà non conosciamo l’altra persona, ma conosciamo la relazione che stabiliamo con lei.

Il feed-back ha due scopi principali:

  • dare informazioni a chi emette il messaggio rispetto alla comprensione che ne ha il ricevente;
  • offrire il punto di vista del ricevente sul comportamento messo in atto, come un riscontro sull’esito delle proprie azioni e sull’interpretazione che di esse viene data.
 

Entrambi i contenuti sono estremamente importanti per l’individuo sia per rendere più efficace la comunicazione, sia per gestire il rapporto  interpersonale  con consapevolezza  ed intenzionalità.  Il feed-back sottolinea l’intercambiabilità dei ruoli perché la comunicazione sia efficace: in altre parole chi parla deve lasciare spazio all’intervento comunicativo di chi ascolta per raccogliere dati sull’andamento della relazione comunicativa. Così diventa a sua volta uditore, mentre chi stava silenzioso si attivizza e dà il suo contributo mettendo in comune il suo punto di vista.

Per quanto riguarda l’ascolto ecologico, esso presuppone e si fonda sull’accettazione dell’altro e sul rispetto della sua libertà  senza imporgli esplicitamente o nascostamente vincoli che favoriscano la censura  o che condizionino la comunicazione aperta.  Torna il concetto di parità e di uguale valore fra i partner che comunicano. Quindi ciascuno  ha diritto ad avere i suoi scopi  ed a perseguirli   indipendentemente dal fatto che essi siano condivisi dagli altri: la relazione comunicativa dovrebbe facilitare il successo nell’impresa.

L’obiettivo finale resta l’aumento del benessere individuale e collettivo. 

Nonostante il clima di apparente divertimento o di normalità, che pare caratterizzare la nostra esistenza, oggi molte persone nascondono disagi, insoddisfazioni e problemi che non riescono ad affrontare in modo funzionale al loro superamento.  La diffusione di patologie collegate alla depressione in forme più o meno gravi, è un’ulteriore conferma del cosiddetto “male di vivere”. Questo disagio ha radici non solo nelle caratteristiche di personalità dell’individuo, ma anche nel contesto umano e culturale nel quale si vive.  L’habitat da questo punto di vista è piuttosto deteriorato e non ci sono grandi speranze per un’evoluzione veloce verso una situazione migliore e più soddisfacente.

Difficile fare qualcosa per cambiare il mondo. Possibile migliorare la qualità della vita di chi ci chiede  aiuto a partire dal  farlo sentire al centro dell’attenzione di chi ascolta. Ci sono alcune situazioni nelle quali ascoltiamo secondo il principio “dalla parte al tutto” inducendo da poche parole il significato completo della comunicazione, spesso sbagliando. E’ un’abitudine di chi è poco interessato allo scambio o addirittura, tende a prevaricare. Al contrario il nostro ascolto dovrebbe essere concentrato su chi sta parlando.

D’altra parte ci sono persone che parlano con un tono sempre uguale, facilitando la distrazione dell’uditore: meglio sarebbe essere vivaci e vitali. Dunque emittente e ricevente sono corresponsabili dell’esito dello scambio comunicativo.

La chiarezza di espressione, l’intensità, il tono della voce sono elementi molto significativi per comprendere il livello delle nostre emozioni. Ad esempio, il fatto di parlare ad alta voce è un sintomo di apertura, mentre chi parla sommessamente, tiene la voce bassa,  è più chiuso, non vuole farsi sentire  da tutti, forse non vuole comunicare del tutto. 

Ecco, tutti questi elementi, dovrebbero rendere esplicito quello che si può chiamare il terzo orecchio, che è quello della sensibilità ai segnali deboli, cioè a quelli che sono nascosti oppure che sono considerati meno importanti, meno riconoscibili anche dalla persona che  parla.  Si tratta di un atteggiamento, prima che di un comportamento osservabile. La fretta e la frenesia con cui viviamo, sempre di corsa e spesso in ritardo, impediscono di avere la tranquillità necessaria a notare particolari considerati di solito marginali e apparentemente di poco conto.   Niente è casuale nella comunicazione,  per lo meno nel senso che non capita per caso, senza un motivo.  Così un atteggiamento ed  un comportamento che potrebbero essere parossistici ed eccessivi in una situazione di  normalità  sono invece necessari in casi in cui il linguaggio e le modalità di espressione sono lo strumento del rapporto.  Torniamo a sottolineare l’importanza della meta-comunicazione ma anche dell’interesse  dell’ascoltatore per il contenuto concreto della comunicazione  in tutti i suoi aspetti.  A volte il malessere è camuffato con tante  parole o al contrario,  spostando l’attenzione  su un fatto eclatante. In altri casi il racconto di un evento apparentemente insignificante  viene ripetuto continuamente; o il rapporto fra le diverse parti del discorso è incongruente e contradditorio. Bisogna distinguere se il bisogno espresso corrisponde al tipo di servizio che si intende erogare  e comunque il  grado  di autenticità  di chi ci interpella.

L’atteggiamento del volontario deve essere da questo punto di vista  simile a quello  del ricercatore che vuole avvalorare o sconfermare una sua tesi ed il comportamento  deve essere indagatore .

Un supporto per facilitare il cambiamento in quest’area sta nella sperimentazione dell’inversione di ruolo.  Non occorre farlo concretamente con il nostro utente. Il contesto adatto può essere il gruppo dei pari – cioè dei volontari all’interno del percorso formativo o di supervisione. Oppure può trattarsi di una sorta di esercizio teorico che almeno ci consenta di “capire”  meglio la situazione.

Il quesito è “Cosa farei io, al suo posto?  Come mi sentirei?  Che messaggio mi arriverebbe da un altro che assume questo comportamento?….”

Non si tratta di un’impresa così difficile e potrebbe farci vedere con maggiore profondità il punto di vista altrui.  Potremmo intravedere i bisogni effettivi del nostro interlocutore così come l’importanza che ad essi viene assegnata. E avremmo l’opportunità di agire di conseguenza.

Una persona malata, per esempio, spesso viene accudita pensando particolarmente ai suoi bisogni fisici, raramente si pensa ai suoi bisogni immateriali. Si privilegiano spesso i soli bisogni fisici perché è un modo per sfuggire, un modo per difendere noi stessi dalla sofferenza, dal dolore; si fanno tutte le cose che servono per fare star bene quella persona, e si bada poco a starle vicino, a chiacchierare con lei. Mi è capitato di incontrare operatori  di comunità terapeutiche per malati terminali di AIDS i quali si battevano per impedirgli di fumare, mentre non riuscivano a fargli compagnia,  né a condividere il  loro  dolore. La tecnica consente dunque di comprendere più a fondo l’altra persona  e di rispondere a quello che lei ritiene il suo principale bisogno. Un atteggiamento “pedagogico” non è richiesto ed è  anzi non funzionale perché inserisce comunque una disparità di livello fra gli interlocutori ed anche un giudizio di merito dove non è richiesto né è opportuno.

In tutto questo non va dimenticata  l’influenza del pensiero della morte come opzione alla quale l‘appellante  fa riferimento per trovare una via di fuga al suo disagio.   Evitare che questa sia la scelta dell’appellante  significa salvarlo. Benché in realtà  quasi mai si sappia come si è effettivamente conclusa la vicenda,  l’andamento della  telefonata  consente qualche ipotesi  e l’altalena fra il timore di non riuscire a impedire il gesto estremo ed il sollievo per aver allontanato questo evento, fanno vivere al volontario  sentimenti di impotenza e di onnipotenza  che alla lunga provocano burn-out.   In realtà il volontario ha a che fare con persone che vogliono “essere convinte” a fare ciò che hanno già deciso.  Persone che cercano dunque una conferma ad una scelta che rimane  loro.   L’onnipotenza del volontario sta perciò  nella capacità  di far emergere ed evidenziare gli  elementi a favore della continuazione dell’esistenza e di rafforzamento del  sé    che lo stesso appellante comunica,  benché quasi “a bassa voce”,   stimolandone la  percezione  così che compia un’inversione fra la figura e lo sfondo dell’immagine della sua esistenza.  Guardando un'immagine percepiamo l'oggetto che sta in primo piano come figura principale e ciò che sta dietro come sfondo . il fenomeno preso in considerazione e' l'inversione  del rapporto tra la figura e lo sfondo. Le linee che definiscono i margini di certe figure possono dare origine a due immagini o a due sagome diverse. P er la nostra mente e' difficile percepire simultaneamente due immagini significative. pertanto, per percepire le due possibili "soluzioni percettive", si dovrà  invertire alternativamente ciò che e' visto come "figura" con ciò che e' visto come "sfondo".

 Così i dettagli che l’appellante percepisce come negativi  possono perdere di importanza, mentre quelli positivi sono posti  in  primo piano.

CONCLUSIONI

Un intervento provocatorio non può concludersi che con un’altra provocazione. Ogni organizzazione è nell’aspetto esterno speculare rispetto a quello interno. Per TAI  l’ascoltare il più possibile senza intromettersi o interferire è importante al punto di parlarne nella “Carta Nazionale dell’Associazione Nazionale dei Centri di Soccorso Telefonico”.  Questo principio è però contraddetto dagli scopi etici ed insieme concreti dell’Associazione. L’ambivalenza risultante da queste due “anime” produce effetti sui comportamenti dei volontari, ma anche sull’immagine complessiva dell’associazione, sulla  sua visibilità e sullo sviluppo delle sue potenzialità.  Il dilemma fra attività e passività forse non è risolvibile, soprattutto in tempi brevi, ma affrontarlo potrebbe consentire un’evoluzione. Si sa che ogni cambiamento è costoso, ansiogeno e incerto nei risultati.

Cosa succederebbe se TAI ed i suoi volontari mancassero, e cosa se  cambiassero? Spesso si comprende l’importanza di  qualcosa che si dava per scontata allorché   manca. Ugualmente può accadere di scoprire che una situazione che si immaginava come preoccupante  non lo è nella realtà.

I  gesti in alcuni contesti, soprattutto di tipo sociale o politico in senso lato, consentano di essere ascoltati più che  le parole. Le parole non sono sostituibili, ma ci sono altri strumenti per comunicare, a volte in modo più incisivo ed efficace.

Se TAI ha imparato ad ascoltare, forse è giunto il momento di insegnarlo agli altri.



[1] Il riferimento è alla seconda relazione introduttiva ai lavori del Convegno: F. Stangle, Internet counselling: cambiamenti e trappole. Come la rivoluzione digitale ha cambiato il modo di comunicare