Guido Contessa conversa con Giampaolo Lai su
"Ascesa e caduta della cultura del T-Group" in Tecniche 3  

 

Il contributo di Lai ha il grande merito di riaprire un dibattito su un tema che sembra sia stato rimosso dallo scenario accademico e professionale italiano. La rimozione è un fatto tanto più strano se si considera che essa riguarda, come ha detto Rogers, "la più potente tecnica inventata dalle scienze sociali durante tutto il secolo"
. I motivi di questa rimozione sono tanti e potrebbero occupare da soli una profonda riflessione. Tuttavia, per ora mi preme fare qualche precisazione e qualche distinguo in margine al lavoro di Lai.
La sostanziale precisione dell’articolo di Lai ha un’ombra di fondo che mi pare vada fugata. Lai sembra dare eccessiva importanza a coloro che, in passato, vedevano nel T-group un modello esistenziale o social-politico, scambiando in sostanza una tecnica per un contenuto.
Se non si parte dal concetto che il T-group è una tecnica, molti sono gli equivoci possibili. Tale errore è stato fatto da molti e anche per diverse tecniche. Non sono stati pochi i contributi, anche assai accreditati, che hanno fatto questo errore con la psicoanalisi, lo psicodramma, la psicosintesi o la bioenergetica. I risultati di questa confusione hanno sempre prodotto fedi e sette, invece di professionalità raffinate ed efficaci. Ora le cose stanno cambiando e in meglio, per fortuna. La maggioranza dei professionisti è arrivata a chiarirsi meglio il significato di una tecnica e la differenza che esiste fra una tecnica, una teoria, uno stile, un metodo, una fede.
Una tecnica è uno strumento concreto e operativo, plasmabile e aggiornabile, ma da inserire in un contenitore più ampio (il metodo), da fondare su uno scenario produttore di senso (la teoria) e da interpretare in modo originale (lo stile). La tecnica senza metodo diventa trucco da fiera, senza teoria diventa orpello, senza stile diventa freddo automatismo. La concezione per cui una tecnica è in sé metodo, teoria e stile è solo frutto di illusioni magiche o di una idolatria tecnocratica tipica delle stagioni infantili.
Che il T-group possa "essere esportabile dai partecipanti alle organizzazioni da cui provengono" è una idea che può aver dato a Lai qualche neofita folgorato dalla esperienza della destrutturazione, ma che non ha mai sfiorato alcun trainer serio. Così come è dalla fine degli Anni Sessanta (visita di A. Winn all’ARIPS) che i trainers sanno bene come i "risultati locali" di un T-group non possono essere fatti "filtrare nel contesto globale, nell’azienda, nella città, nella società". Spaltro, assai più criticato che letto e ascoltato, non ha mai detto che il T-group potesse assumersi il compito di cambiare il mondo. Semmai certe teorizzazioni macrosociali riguardano i piccoli gruppi, ma allora siamo in un capitolo ben più ampio e diverso, rispetto a quello del T-group.
Allo stesso modo, mi sembra fuorviante affermare che "per tutti (i trainers) l’impegno nei T-group non è più esclusivo, com’era una volta, ma rappresenta in genere quasi un dopolavoro rispetto ad altre attività…". In primo luogo perché non mi risulta che ci sia stato un tempo né qualche formatore per il quale il T-group fosse un impegno esclusivo. Ho cominciato a bazzicare all’ARIPS nel 1971 quando tutti coloro che allora vi erano impegnati si occupavano di interventi sulla sicurezza lavorativa. I primi lavoro che realizzò l’ISMO, e di cui mi occupai personalmente, furono una ricerca (seguita da formazione) per venditori porta-a-porta e un piano di ristrutturazione della Formazione Professionale della Regione Lombardia. In secondo luogo perché coloro che hanno continuato a fare il mestiere di formatore (e il T-group è una tecnica di formazione) non hanno mai smesso di usare il T-group o tecniche simili da esso derivate.
Enzo Spaltro parla spesso della "sconfitta" del T-group, come tecnica da usare sul territorio dell’interfaccia tra piccolo gruppo e società. Ma questo discorso non va inteso come un problema del T-group, bensì di tutte le tecniche di cambiamento programmato, applicate ai macrotesti. La onestà di uno psicologo del lavoro e di un esperto di piccoli gruppi come Spaltro non rende il T-group meno efficace di latre tecniche che, forse non avendo "padri" altrettanto lucidi e onesti, vengono contrabbandate come un toccasana. Per fare qualche esempio, quale efficacia per il cambiamento organizzativo o sociale hanno mostrato tecniche come la coinemica fornariana, o la sistemica selviniana, o la socioanalisi di Pagliarani? Il passaggio dal micro al macro, soprattutto in Italia, è un modo ostico per ogni tecnica a noi nota. Diverso è il discorso in latri Paesi, dove il cambiamento organizzativo e sociale viene più che da noi intenzionalmente programmato. Per citare due casi statunitensi macroscopici: l’NTL ancora oggi, basandosi sul T-group e le sue derivazioni, forma circa 40.000 dirigenti all’anno; lo staff di consiglieri di Gorbaciov ha partecipato 5 anni fa ad un programma di formazione che prevedeva anche T-groups. Allo stesso modo diverso è il discorso in quelle realtà italiane (ancora poche, ma sempre di più) dove il cambiamento comincia ad essere programmato. L’ARIPS consente a circa 300 operatori sociali l’anno una esperienza di T-group e l’ISMO sta facendo anche di più nel settore aziendale. Naturalmente non si tratta dei T-groups che forse alcuni romantici, trasfigurando la loro memoria, hanno sperimentato venti anni fa. Ma si tratta della stessa tecnica, sia pure evoluta, inserita i un contesto formativo, supportata da teorie adeguate, e attuata con stili funzionali agli obiettivi.
Il T-group è una tecnica di formazione, che ha come coordinate solo tre vincoli: la centratura esclusiva sul presente (qui e ora), la sovranità plurale (il piccolo gruppo), il ruolo non pedagogico del conduttore (una direttività ridotta al minimo). Detto ciò possiamo considerare T-group, o derivato, tutti i momenti formativi che si traducono in una riflessione collettiva, autocentrata e "condotta" da uno specialista.
Una prima questione riguarda intanto la distinzione fra i problemi del T-group e quelli della psicoterapia. Il fatto che certi terapeuti provengano da esperienze di T-group o facciano cose che "sembrano" un T-group non ci autorizza a confondere le acque. Sarebbe come confondere lo psicodramma con il role-playing: tecniche cugine ma assai lontane fra loro. Una seconda questione riguarda la effettiva diffusione del T-group: cioè dei momenti formativi autocentranti, collettivi e con specialista. Forse l’impressione della crisi del T-group è data, ai non specialisti della formazione, dal fatto che spesso si usano diverse definizioni (e non è raro che tali diversità dipendano da vera e propria ignoranza) per indicare attività assai simili.
È difficile trovare, nel sociale come nell’impresa, programmi formativi che non prevedano momenti detti di "valutazione" del processo di apprendimento, di "verifica delle motivazioni", di "riflessioni sul lavoro di gruppo", di "analisi del clima organizzativo", di "discussione sui ruoli interni", di "confronto sulle relazioni" fra i partecipanti e questi e lo staff, e così via. Cosa sono tutte queste attività se non dispositivi di riflessione collettiva e autocentrata, cioè T-groups?
Va ricordato che il T-group è nato durante una riunione di "verifica e valutazione" che l’equipe di Lewin faceva al termine di una giornata di seminario per operatori sociali sulla integrazione razziale.
Ed ancora, quanti sono i programmi formativi diretti alle skills più personali (leadership, comunicazione, negoziazione, creatività, ecc.) che non prevedono momenti autocentranti?
Infine, non mi sembra siano poche le imprese che hanno in corso interventi di cambiamento organizzativo, che prevedono momenti autocentranti, nei gruppi omogenei o fra gruppi interfunzionali.
Così come ormai la totalità delle scuole o dei servizi socio-sanitari sta (ri)organizzandosi, attraverso piani formativi e consulenze che prevedono in certe fasi momenti autocentranti. Lo stesso vale per le cooperative e per le piccole imprese del terziario sociale. È inutile dire che nei casi di gruppi omogenei (family) il T-group non solo offre un apprendimento individuale da trasferire, ma anche un apprendimento collettivo che è nello stesso momento cambiamento organizzativo.
Concludo questo intervento con una riflessione che riguarda la sotterraneità del T-group. Perché se ne parla poco e spesso in modo imprecisato? Qui ha ragione Spaltro quando afferma che il T-group è una tecnica di "periferia", antiautoritaria e non accademica e perciò poco illuminata dai riflettori dei Congressi e delle Riviste. Aggiungerei che il T-group è una tecnica "laica": è nata e si è sviluppata nell’unico contesto italiano che non ha mai creato consorterie, lobbies o corporazioni. Se a ciò si aggiunge la grande efficacia del T-group, ecco una ipotesi che può spiegare la sua rimozione: un’arma potente, potenzialmente in mano a tutti, rischia di produrre effettivi cambiamenti….parliamone il meno possibile!

Tratto da "Tecniche", anno 2, numero 2, settembre 1990, Edizioni Riza, Milano, pag.89-92