La Guerra come fatto economico di Sbancor
(v.anche
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Un'analisi dei debiti americani, pubblici e privati e delle strategie per uscire dalla crisi. "Le cifre dell’incubo americano si possono facilmente estrarre da una serie di siti disponibili sulla rete. Ma l’incubo prende forma solo quando a questi dati si cerca di dare un senso e una successione logica. Questo, in poche parole, è il mio mestiere. Ed ecco allora che le cifre, accumulate con solerte minuzia da schiere di ossequienti contabili assumono i cupi toni propri alle guerre. A dimostrazione che la guerra nella attuale situazione è parte essenziale dell’economia degli scambi, non una sua temporanea sospensione, causa militari, ma la sua ovvia continuazione, con altri mezzi".


Senza guerra nessuna economia può reggere le periodiche crisi di sovraccumulazione, ne le crisi più strutturali, come quelle determinate dall’innovazione tecnologica. Non si tratta cioè di appropriarsi delle ricchezze del nemico attraverso la guerra imperialista (Hilferding, Lenin), ma di salvaguardare la “propria” ricchezza dalla ciclicità sempre più accelerata delle crisi. E’, questa, una funzione “imperiale” di primo livello. Come dire: fa la differenza fra vivere a New York e vegetare a Rawalpindi.

Dunque, la crisi in America scoppia nel Marzo 2001. E in quel mese che in principali indicatori dell’economia reale cominciano a flettere. Dalla produzione industriale alla crescita del P.I.L. Ma il vero crollo della Borsa avviene all’inizio di settembre 2001. Pochi giorni prima dell’ 9/11.
Da quella data ad oggi, da un surplus di bilancio federale degli U.S. di circa 255 miliardi di dollari si passa a un deficit di oltre 350 (agosto 2003) e per il 2004 si prevede di raggiungere quota 480 (escluse le spese per una più che probabile permanenza delle truppe in Iraq).
Il che vuol dire che dal 9/11 al 2004 gli U.S.A. avranno buttato sul mercato oltre 730 miliardi di US$ di spesa pubblica. Il che vuol dire circa il 5% del loro P.I.L all’anno.. Alla faccia dell’Europa di Maastritchn che limita al 3% il deficit consentito ai paesi membri.

Ovviamente il P.I.L. americano, gonfiato dalla spesa militare crescerà intorno al 3,3 % . Di questo incremento, l’1,75 circa è dovuto alla spesa militare, che viaggia oltre circai 400 miliardi di dollari l’anno ed il resto dall’aumento dei consumi.

Il bello è che sia la spesa pubblica, sia i consumi, sono finanziate con debito. Debito pubblico e credito al consumo sono infatti i due motori finanziari della ripresa americana. Il debito pubblico americano è arrivato sopra i 3.340 miliardi di dollari, di cui circa il 40% collocato sui mercati internazionali (era solo il 17% nel 1982) . Il credito al consumo è arrivato al circa il 26% delle entrate personali, i mutui immobiliari sono arrivati a circa 850 miliardi di dollari.

Fra i principali creditori del debito americano figurano i paesi asiatici, Giappone e Cina in testa, per circa il 40% del totale debito estero. L’influenza dei paesi OPEC si è ridotta al 2%, segno di massicci disinvestimenti negli ultimi anni.

Ora, nonostante il “dollaro debole”, nel II° trimestre del 2003 i flussi di entrata di capitali finanziari in America sono aumentati, fino a raggiungere i 959 miliardi di dollari, più di quanti ne entravano nel 2000, quando la bolla di Wall Street non era ancora scoppiata. L’impero dunque continua a drenare risorse dal resto del mondo per finanziare una bilancia commerciale in deficit cronico e i molti debiti di Stato e cittadini.

Il problema è: fino a quando questo precario equilibrio potrà reggere la discesa del dollaro? L’ultimo G7 a Dubai ha decretato che non è il dollaro a scendere (come avvenne invece nell’accordo del Plaza degli anni 80) ma sono le altre monete a doversi rivalutare. Prima fra tutti lo yuan Cinese. apprezzabile ipocrisia di banchieri centrali: "non sono io ad essere debole, sono gli altri ad essere forti".

Tutti i giorni, sui mercati, avviene però che yuan e yen non si rivalutino quanto gli Euro. Così, per ora, grazie all’idiozia delle burocrazie finanziarie della Unione Europea è l’euro che si apprezza a fronte del dollaro: da 0,85, nel momento di massima forza del dollaro, a 1,17 di questi giorni. Oltre il 37% di apprezzamento. Quel che si dice una moneta forte. Peccato che il mercato si metta in movimento solo nel pomeriggio, quando apre Wall Street. Segno inequivocabile che è il dollaro che scende, non l’euro che sale. Insomma l’America sta svalutando la sua moneta, migliorando quindi l’appeal del suo export e, contemporaneamente, ridimensionando il suo debito estero, ovviamente denominato in dollari. Fino a quando potrà farlo, senza provocare una fuga dal dollaro, disastrosa sia per Wall Street sia per i Treasury Bonds? La mia banale risposta è che potrà farlo finché la produttività in America sarà superiore a quella di tutti gli altri paesi. Schumpeter annoverava l’innovazione tecnologica fra le cause della crisi. E la crisi “made in U.S.A.” è certamente dovuta al fatto che agli incrementi di produttività non ha fatto seguito un aumento della produzione, la domanda, cioè, non ha seguito l’offerta e quindi si è diffusa una tendenza deflazionistica, diminuzione diffusa dei prezzi, soprattutto nei settori high tech. Ma, come diceva Heidegger, dove “cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”. E ora gli americani stanno usando il tono deflazionista del loro mercato, per poter aumentare spesa pubblica e svalutare la propria moneta, senza rischiare un inflazione. Cosa che noi europei, con industrie obsolete e a bassa produttività non possiamo mai permetterci. God bless America.

Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.