POSSIBILITÀ E OPPORTUNITÀ

"Disegno: questo mi protegge dalla morte e dal pericolo"(Max Beckmann)

1.1. COS’È LA RIABILITAZIONE:

STORIA E MODELLI

Riabilitare significa "rifare abile, abilitare nuovamente, mettere nei diritti di prima, e rimettere in buona fama, rendere nuovamente degno di stima" (Zingarelli, 1960).

In ambito psichiatrico, secondo le parole di Ciompi e coll., il concetto di riabilitazione "indica immediatamente un processo ed un obiettivo, che va inteso, nel migliore dei casi, come reinserimento, quanto più possibile completo, nella normale vita sociale e lavorativa".

Sia in medicina generale che in psichiatria, la riabilitazione implica l’esistenza di una menomazione, di un esito di un processo morboso, e quindi si può dire che "la riabilitazione si occupa principalmente dell’individuo che conserva tracce della malattia".

Il concetto di riabilitazione è fondato sul presupposto che, nonostante il disagio psichico, la sofferenza e le disabilità indotte dalla malattia, il malato mentale possa riacquisire e sviluppare capacità perdute e recuperare quindi ruoli adeguati nel proprio ambito familiare e sociale, che gli consentano di integrarsi, nel modo migliore possibile, nella vita di comunità.

La riabilitazione non punta l’accento sulla patologia, ma su ciò che rimane di sano dell’individuo.

Il termine riabilitazione è frequentemente impiegato nella letteratura medica e, da non molti anni, anche in quella sociologica. Tuttavia l’impiego originario del concetto di riabilitazione appartiene alle scienze giuridiche, come afferma Muller.

Infatti, è riabilitato colui per il quale sia stato ripristinato lo stato giuridico precedente.

Secondo Braceland, "in medicina generale la riabilitazione è quella fase dell’assistenza in cui il malato viene aiutato ad assumere un ruolo indipendente nella società. La riabilitazione segue alle cure mediche e al periodo di convalescenza; cerca di superare e di compensare una menomazione fisica esistente e i blocchi emotivi che impediscono al paziente di sfruttare tutte le sue possibilità. Si insiste soprattutto sull’autosufficienza nel lavoro. In psichiatria la riabilitazione ha connotazioni più ampie e vaghe, e le varie definizioni riflettono la dottrina di chi le propone".

Secondo Frieman e Simmons, ad esempio, il paziente psichiatrico ben recuperato è quello capace di vivere in un ambiente non medico, ma in un ambiente sociale paragonabile a quello di altri adulti nella comunità.

È utile sottolineare come, tra i vari autori che hanno trattato il tema da un punto di vista psichiatrico, vi siano posizioni divergenti rispetto al concetto di riabilitazione.

Bellak e altri, per esempio, ritengono che il compito principale della riabilitazione sia la ricostruzione della forza dell’Io del paziente, in modo da renderlo psichicamente adeguato, pronto a lavorare e capace di affrontare i fattori affettivi e interpersonali nell’iniziare e continuare un lavoro.

Un altro orientamento largamente diffuso tra gli psichiatri è rappresentato dalla posizione di Giberti e Rossi, e consiste nella sinonimia riabilitazione-inserimento lavorativo.

Per Bernard invece, gli aspetti pratici ed essenziali della riabilitazione, che tale autore chiama riadattamento, sono il lavoro terapeutico (dall’ergoterapia al laboratorio protetto nelle aziende e nelle officine, al laboratorio industriale) e l’alloggio in comunità protette (case-albergo, case-famiglia, gruppi appartamento, ecc.).

Se si considera il significato del termine riabilitazione, si evidenzia che alcuni principi che la caratterizzano possono essere ritrovati a partire dagli inizi del 1800, con la nascita di quello che veniva chiamato "trattamento morale".

Esso puntava l’accento sul valore dell’occupazione, dell’educa-zione e del rapporto con l’ambiente. Vi è dunque intrinseco, nel "trattamento morale", il concetto della recuperabilità delle persone affette da disturbi psichici mediante interventi di diverso genere, fra i quali anche quelli di tipo pedagogico ed occupazionale.

In Italia i programmi di riabilitazione si diffondono a partire dagli anni ’60. L’impronta ideologico-politica, che caratterizzò questa fase storica della psichiatria italiana, conferisce agli interventi riabilitativi un significato particolare, correlato all’obiettivo di un progressivo e totale smantellamento della struttura manicomiale e di uno sviluppo di una psichiatria interamente condotta in ambito comunitario.

In questa prima fase la riabilitazione è generalmente rivolta ai lungodegenti ed il processo riabilitativo si svolge all’interno e/o all’esterno della struttura manicomiale. Vengono creati atelier, laboratori protetti, gruppi di ricreazione e di socializzazione e nascono i primi esperimenti di comunità terapeutica. Contemporaneamente, interventi nel contesto familiare e sociale permettono di realizzare un graduale riavvicinamento dei pazienti alla famiglia e ai luoghi di lavoro.

Negli anni che vanno dal 1964 (anno di inizio dell’esperienza del gruppo dell’Istituzione Negata di Franco Basaglia) al 1978 (anno di promulgazione della legge 180) non si parla esplicitamente di riabilitazione: essa si definisce attraverso la pratica della deistituzionalizzazione e ne è la premessa.

Infatti la riabilitazione ha come fine prioritario:

    • il miglioramento della qualità della vita quotidiana nell’istituzione;
    • l’aumento del potere contrattuale del degente, sia sul piano materiale sia su quello affettivo;
    • il progressivo istituirsi di possibilità di vita alternativa all’istituzione per il paziente, l’appro-priarsi della vita quotidiana e delle sue possibilità fuori da ogni circuito invalidante.

In realtà la riabilitazione assume un ruolo di primaria importanza nel panorama dell’assistenza psichiatrica solo negli ultimi anni, dopo l’entrata in vigore della legge 180, per il progressivo spostamento dell’intervento terapeutico dall’ospedale psichiatrico, dove l’assistenza psichiatrica era caratterizzata da una prassi sostanzialmente custodialistica, a strutture e servizi collocati nel tessuto sociale, allo scopo di garantire la fine dell’isolamento e dell’emarginazione del malato e consentirne l’integrazione nel suo contesto sociale e nella sua famiglia.

Comunque, anche indipendentemente dalle riforme, e quindi anche in quei Paesi dove non si sono avute importanti innovazioni legislative, si è assistito in questi ultimi trent’anni ad una cospicua diminuzione del numero di pazienti degenti in ospedale psichiatrico, in seguito a una politica di dimissione e a un accorciamento della durata media della degenza.

Lo spostamento del polo residenziale e terapeutico, dall’ospedale psichiatrico al territorio, ha contribuito notevolmente ad allargare il campo di intervento della riabilitazione. Questa si occupa sempre di più dell’adattamento fra il disabile e i non disabili che vivono accanto a lui.

L’evoluzione storica dell’approccio riabilitativo è rispecchiata dalla parallela evoluzione delle tecniche impiegate, che però, in genere, non soppiantano le precedenti: vi si affiancano in modo complementare e le integrano in una prospettiva che sta diventando sempre più articolata.

Si è passati da un impiego estensivo dei laboratori di riabilitazione industriale allo sviluppo dei centri diurni di riabilitazione psicosociale, all’affinamento di tecniche specifiche a carattere comporta-mentale da un lato, alla consapevolezza della necessità di un supporto a lungo termine e della integrazione di tecniche diverse dall’altro.

Oggi la riabilitazione psichiatrica sta acquisendo un ambito di intervento sempre più ampio, sta anzi diventando più un "approccio" che un insieme di tecniche specifiche. È opinione comune, e sostenuta da numerosi studi, che le determinanti del disturbo psichiatrico, della sua gravità e dei suoi siti, dipendano da numerosi fattori attinenti a campi diversi dell’esperienza umana.

Si devono così prendere in considerazione aspetti biologici, aspetti psicologici individuali o del gruppo familiare di appartenenza e fattori sociali. La costruzione del programma terapeutico si fonda sull’analisi della costellazione di questi fattori in relazione al singolo individuo, alle risorse di cui dispone l’èquipe curante e alle risorse dell’ambiente di riferimento.

Gli aspetti da prendere in considerazione, per quello che riguarda la valutazione della situazione del singolo individuo, sono:

    1. la diagnosi psichiatrica;
    2. la presenza di eventuali disturbi di tipo organico determinanti la patologia psichiatrica;
    3. l’assetto psicodinamico della personalità, in particolare riguardo il tipo di evoluzione del paziente;
    4. la storia del paziente, con particolare attenzione alle sue modalità di porsi nei confronti delle persone importanti della sua vita e di comportarsi nelle diverse circostanze;
    5. l’atteggiamento del paziente nei confronti delle proprie difficoltà, il suo livello di sofferenza soggettiva;
    6. l’indicazione ad un trattamento farmacolo-gico;
    7. l’indicazione ad un trattamento psicoterapeu-tico;
    8. l’indicazione ad un trattamento riabilitativo.

Un’analisi accurata delle caratteristiche del paziente ha anche lo scopo di definire, con il paziente stesso, un contesto di lavoro comune, ed è un’alleanza con lui sugli obiettivi e le modalità per conseguirli, tale da evitare le implicazioni e i pericoli di prese in carico superficiali e frettolose.

La capacità di stabilire una buona alleanza terapeutica è uno dei più importanti fattori di prognosi positiva del trattamento. Il lavoro preliminare implica anche la conoscenza degli aspetti familiari, sociali ed ambientali che coinvolgono il paziente.

L’intervento riabilitativo deve quindi articolarsi secondo due strategie fondamentali:

    • sviluppare le risorse e le abilità del soggetto, a partire dall’identificazione dei suoi bisogni;
    • sviluppare le risorse e le abilità dell’ambiente, in una direzione che amplifichi e rinforzi l’inter-vento operato sull’individuo.

La malattia mentale è infatti un’alterazione della vita di relazione, per cui non si può focalizzare l’attenzione solo su uno dei due poli di questa relazione; quando ci si pone un obiettivo terapeutico-riabilitativo-educativo esso deve tendere anche al mantenimento o alla costituzione di un contesto significativo, che consenta lo svolgersi della vita di relazione.

Il campo operativo e gli strumenti di intervento saranno quindi la vita quotidiana, le relazioni interpersonali, il rapporto tra l’individuo e il suo ambiente.

Gli obiettivi della riabilitazione sono quindi quelli di identificare, prevenire e ridurre le cause dell’inabilità, e, nello stesso tempo, di aiutare la persona a usare e sviluppare le proprie risorse e capacità.

Il processo educativo/terapeutico è costituito da un’interazione pianificata di collaborazione tra l’operatore, il soggetto e l’ambiente.

Oggetto fondamentale del processo di valutazione iniziale è il comportamento sia attuale che passato del paziente, in relazione ai diversi contesti ambientali in cui è vissuto.

Le informazioni dovrebbero essere raccolte dal maggior numero possibile di fonti (il paziente stesso, i familiari, i colleghi di lavoro, gli psichiatri e lo psicoterapeuta curante), al fine di verificare le differenze di comportamento del paziente in differenti contesti. Raccogliendo informazioni da un’unica fonte è, infatti, possibile che si generalizzino giudizi non rispondenti alle reali condizioni di funzionamento e disabilità del paziente.

Mediante una corretta valutazione iniziale gli operatori evitano anche di nutrire eccessive aspettative nei confronti dei pazienti, aspettative che dipendono da una non corretta e insufficiente conoscenza del livello iniziale di disabilità del paziente, prima della comparsa dei sintomi.

I contesti nell’ambito dei quali si dovrà orientare l’osservazione delle disabilità riguardano principalmente tre aree:

    • l’attività lavorativa: va valutato il grado di relazioni interpersonali che il paziente è riuscito ad allacciare con i colleghi, la sua capacità a sostenere i ritmi lavorativi, la sua abilità lavorativa in riferimento al livello delle sue mansioni e gli specifici problemi che il paziente ha nell’am-biente di lavoro;

    • la vita domestica: va valutata la capacità del paziente di curare la propria persona, di mantenere in ordine le proprie cose e la propria abitazione, di cucinare, di amministrare il proprio denaro e in generale la sua capacità di affrontare i compiti quotidiani;

    • le relazioni sociali: l’attenzione in questo caso va posta sulle relazioni familiari, sulle funzioni e sui ruoli che il paziente svolge all’interno della famiglia d’origine o di quella acquisita, sulla partecipazione ad attività sociali all’esterno della famiglia, sulla presenza di amici e confidenti.

Qui di seguito vengono presentati alcuni dei più diffusi modelli di riabilitazione psichiatrica.

Modello di Social Skills Training (SST)

Questo modello può essere definito come "l’insieme di quei metodi che utilizzano i principi della teoria dell’apprendimento, allo scopo di promuovere l’acquisizione, la generalizzazione e la permanenza delle abilità necessarie nelle situazioni interpersonali".

Il modello concettuale sottostante agli approcci di SST è quello biopsicosociale, secondo cui esordio, decorso ed esito delle malattie mentali sono determinati dall’interazione di quattro fattori:

    • la vulnerabilità;
    • lo stress;
    • il coping (fronteggiamento);
    • la competenza.

I più significativi esponenti di questo approccio di orientamento behaviourista sono Liberman, Anthony, Farks, Bellack e Fallace.

Modello psicoeducativo

Gli studi che stanno alla base di questo modello sono certamente quelli sulle Expressed Emotions, condotti da Brown e Wing a Londra negli anni ’60. Con tali studi si mirava, in principio, a stabilire quali fossero le variabili rilevanti per valutare il grado di adattamento sociale degli psicotici dimessi dagli ospedali e, in un secondo tempo, vista l’importanza che assumeva in quella prospettiva il criterio dell’evitamento delle ricadute, a identificare i fattori precipitanti le recidive.

I follow-up condotti da Brown su pazienti schizofrenici indicavano un ruolo preponderante dell’Emotività Espressa (EE), ossia degli aspetti verbali e non verbali della comunicazione tra paziente e familiare, in relazione a quattro componenti:

    • commenti critici;
    • ostilità;
    • ipercoinvolgimento emotivo;
    • empatia.

Le finalità dell’intervento psicoeducativo sono essenzialmente quelle di diminuire o impedire le ricadute.

Modello Spivak

Mark Spivak ha dato vita ad un modello compiuto e sistematizzato di riabilitazione, che implica un’analisi approfondita dell’"oggetto" di applicazione, ossia la cronicità psichiatrica, ed un’articolata proposta di trattamento, ampiamente collaudata nel centro Shalom per lo Sviluppo delle Competenze Sociali a Gerusalemme.

Egli sostiene che gli individui etichettati come psicotici cronici non sono altro che persone che hanno ‘seri problemi nell’esistenza’, per cui sperimentano continui fallimenti personali e sociali, nel tentativo di soddisfare le richieste e i bisogni propri e altrui. Per poter valutare il funzionamento attuale di queste persone è necessario ricostruire i percorsi che hanno condotto alla progressiva desocializzazione del paziente.

Modello Ciompi

Luc Ciompi presuppone che l’individuo schizofrenico sia caratterizzato da un’elevata vulnerabilità, che si esprime prevalentemente sotto forma di disturbi nel processing delle informazioni e nella ridotta capacità di affrontare adeguatamente gli eventi critici del processo di vita.

In condizioni particolarmente stressanti, le tensioni tra l’individuo e l’ambiente a lui circostante, precipitano nell’episodio psicotico acuto. Lo scompenso psicotico acuto sarebbe, secondo Ciompi, una grave crisi dello sviluppo che può condurre al fallimento esistenziale o, al contrario, può costituirsi come occasione di maturazione e cambiamento.

La riabilitazione è concepita da Ciompi come un percorso di lavoro il cui obiettivo è "…il reinserimento, quanto più possibile completo, nella normale vita sociale e lavorativa…".

Secondo B. Saraceno, nei modelli che sono stati presentati manca il ‘dove’ e non si capisce mai quali siano gli scenari in cui avvengono le strategie che realizzano gli assunti teorici. Continuando nella sua riflessione critica, questo psichiatra sostiene che, nei modelli riabilitativi presentati, non c’è traccia dell’alleanza con i bisogni del malato; questa traccia non c’è o perché la riabilitazione si fa dentro l’ospedale senza accorgersi che si è dentro l’ospedale, oppure perché si fa fuori dall’ospedale senza accorgersi che il fatto di esserne fuori non fa scomparire l’ospedale, ma semplicemente fa scomparire l’angoscia che esso determina in chi da esso si allontana, lasciandolo immodificato.

La questione, continua Saraceno, è quella dell’intratte-nimento operato dalla psichiatria in questo unico spazio ad una sola dimensione, che può essere il manicomio, così come qualunque altro luogo. È l’unidimensionalità della malattia l’istituzione da trasformare; è l’intrattenimento unidimensionale della malattia la funzione da interrompere.

1.2. COS’È L’ARTE TERAPIA: STORIE E SPUNTI TEORICI

L’arte terapia è un trattamento orientato verso la riabilitazione del malato mentale, attraverso l’espressione libera della creatività. Nel paziente psicotico la produzione grafica può sostituirsi alla parola come mezzo di comunicazione e divenire quindi un momento essenziale nell’iter terapeutico.

L’arte terapia ha preso le mosse da quella che per lungo tempo è stata definita psicopatologia dell’espressione e che vedeva nella produzione grafica ed artistica del malato mentale l’espressione della sua patologia. Già nel 1877, Lombroso affermava che la follia sviluppa la creatività perché lascia più libero il freno della fantasia, dando luogo a creazioni che una mente troppo razionale non sarebbe in grado di produrre, essendo più difesa di fronte a ciò che è apparentemente illogico o assurdo (Lombroso fu tra i primi a collezionare opere artistiche prodotte da pazienti psichiatrici).

Esistono però delle differenze tra l’artista e il malato mentale che si esprime nell’arte. Nella costruzione di un’opera d’arte, alla libera espressione della creatività deve far seguito un’elaborazione del materiale emerso. L’artista ha la capacità di far emergere questo materiale inconscio senza esserne travolto, mentre per lo psicotico il materiale inconscio che emerge diviene incontrollabile, portando ad una perdita del rapporto con la realtà.

Per lo psicotico la comunicazione tra mondo interno e mondo esterno si perde, poiché l’arte si coglie sempre dall’interno e si esprime nel fuori; l’espressione artistica può costituirsi come mezzo di questa comunicazione là dove essa è inibita, inceppata o bloccata e allora l’arte può diventare terapia in quanto mezzo di comunicazione tra il dentro e il fuori, di partecipazione con gli altri, di espressione dei contenuti affettivi, come strumento per entrare in contatto con parti di sé di cui non si ha consape-volezza e conoscenza e come elemento strutturante dell’Io, poiché tesa ad incrementare la capacità di espressione, decodificazione ed elaborazione degli istinti e delle emozioni graficamente espressi.

L’arte terapia non costituisce un momento occupazionale e ludico, ma proprio per l’attinenza che il prodotto artistico ha con i processi creativi e simbolici, per la sua capacità di attingere ai movimenti inconsci e per la qualità della relazione che l’arte terapeuta stabilisce col paziente, costituisce un momento essenziale e significativo nel quadro del progetto terapeutico.

L’arte terapia, come io la concepisco, è una "terapia" in cui lo strumento privilegiato è l’espressione creativa del paziente, colta all’interno delle dinamiche relazionali. Pur prevedendo un particolare setting, dove la produzione artistica è considerata in funzione del processo e delle dinamiche in atto, il capitolo III presenta l’esperienza di un atelier di arte terapia all’interno di un SPDC, dove lo spazio atelier è stato "creato" all’interno della sala da pranzo/soggiorno.

Disegnando il paziente dichiara, pur nel contesto di un comportamento regressivo, la propria volontà di esistere, di mantenere uno spazio virtuale di comunicazione con l’altro e con se stesso. Il prodotto grafico-pittorico, essendo contempora-neamente soggettivo (una parte di sé) e oggettivo (diverso da sé) può divenire un tramite attraverso il quale lo psicotico dal proprio mondo interno, che lo costringe in un isolamento artistico, giunge alla riscoperta e al riconoscimento del mondo reale.

È nella relazione educativo/terapeutica che il prodotto artistico può essere utilizzato come un’espressione oggettiva di cui si può parlare, su cui si può lavorare, attraverso cui si può conoscere ed apprendere.

Questi aspetti fanno dell’attività espressiva uno strumento che si oppone ai meccanismi cronicizzati della malattia e che consente, attraverso l’uso di tecniche e metodologie, di inserire la libera espressività all’interno di un progetto terapeutico, riabilitativo ed educativo.

L’arte terapia come metodo di intervento terapeutico nasce da un lungo processo le cui radici risalgono alla seconda metà dell’800, quando l’interesse per le produzioni figurative dei malati di mente era ispirato da una ricerca di tipo prevalentemente nosografico e diagnostico.

È soltanto nella seconda metà del ‘900 che l’interesse per l’attività grafica si organizza come un vero e proprio modello terapeutico, grazie anche ai contributi di molti studiosi. Si svilupparono studi sulla produzione grafica delle popolazioni primitive, sul disegno infantile e su un approccio all’opera artistica come documento di un’evoluzione patologica.

Prende forma l’idea che la storia del soggetto, può essere più facilmente compresa attraverso il disegno, perché questo consente l’accesso a ciò che non si vede, e a quel mondo che si colloca tra il detto e il non detto.

Tra gli anni ’40 e ’50 vengono pubblicati i testi sull’Art Therapy di Margareth Naumburg, Edith Kramer, Loretta Bender e Paul Schilder: è di questi anni la stesura e la pubblicazione del primo testo che riporta l’esperienza di arte terapia condotta da Margareth Naumburg con pazienti psicotici. Agli inizi degli anni ’60 vengono pubblicate le prime riviste del settore, sia in Inghilterra che negli U.S.A.

A partire dal 1975 vengono anche istituiti, in alcune università nordamericane, diplomi in Art Therapy. Nel 1959 Robert Volmat, che aveva già avviato la pubblicazione del volume "L’art psychopatologique" e la creazione di un laboratorio grafico-figurativo per la terapia delle malattie mentali, dà un impulso decisivo alla fondazione della Società Internazionale di Psicopatologia dell’Espressione.

In Italia è solo con la legge 180 del 1978 che le attività espressive assumono un valore rilevante e vengono riconosciute come metodo terapeutico. L’arte terapia si qualifica come un metodo con una precisa teoria, in cui l’attenzione per le produzioni dei pazienti schizofrenici va oltre la classificazione diagnostica, in quanto vengono inquadrate nel processo creativo considerato e utilizzato all’interno di un progetto terapeutico. All’atelier di arte terapia possono accedere pazienti affetti da diverse forme psicopatologiche: schizofrenia, psicosi maniaco-de-pressiva, depressione, sindromi borderline.

Nell’atelier di arte terapia, il progetto terapeutico si articola su diversi livelli:

    1. Osservazione e decodificazione della produzione grafica per rilevare, attraverso questa, le diverse fasi del processo psicopatologico e per cogliere il messaggio comunicativo. L’atto del disegnare, del produrre forme ed immagini, avvicina il paziente al proprio mondo interno e l’arte terapeuta (o l’educatore) al mondo del paziente; sulle immagini prodotte è possibile inoltre lavorare associando emozioni, ricordi, idee, in modo da ampliare l’esplorazione dei vissuti e dei pensieri del soggetto e aiutarlo a conoscersi attraverso l’espressione di sé nell’immagine. La sensibilità e l’esperienza dell’arte terapeuta (o dell’educatore) sapranno manovrare questo processo di avvicinamento e integrazione tra il mondo delle immagini, del disegno e delle verbalizzazioni, in base anche alla capacità del paziente di tollerare una più profonda conoscenza di se stesso. Come nel sogno, il simbolo o l’immagine sono protetti da una sorta di censura, e nel disegnare sulla carta il paziente ha la facoltà di esporsi, ma anche di nascondersi quanto basta per sentirsi protetto da intollerabili giudizi, valutazioni o interpretazioni.
    2. Utilizzazione di strategie di tipo pedagogico finalizzate a ridurre le resistenze del paziente, a stimolare la sua creatività e sostenere le funzioni dell’Io attraverso l’esame di realtà, l’apprendimento, l’espressione creativa. Liberare le proprie energie creative, in direzione di uno scopo, aiuta i pazienti a rafforzare l’autostima e ad acquisire una maggiore fiducia in se stessi.
    3. Stimolo alla comunicazione e socializzazione nonché addestramento al controllo delle pulsioni nel rispetto delle norme del gruppo. Il "lavorare" in un’attività comune ha una significativa funzione socializzante, in quanto consente di graduare e modulare il rapporto con gli altri. Il soggetto può lavorare mantenendo la distanza e successivamente, attraverso il disegno, ridurre tale distanza avvicinandosi a relazioni comunicative con gli altri. I pazienti che frequentano l’atelier spesso manifestano sintomi quali la frammentazione del pensiero, mancanza di finalismo, stereotipie sia verbali che gestuali: in alcuni casi impoverimento idetico, tendenza all’isolamento, deflessione del tono dell’umore, difficoltà a mantenere l’attenzione, mancanza di fiducia, scarsa motivazione alla cura di sé. Questo tipo di quadro sintomatologico richiede duttilità e versatilità da parte dell’educatore, sia per quanto riguarda l’organizzazione del trattamento, sia per quanto riguarda la scelta degli strumenti. Spesso con i soggetti psicotici è difficile poter lavorare sul piano delle interpretazioni e della chiarificazione dei contenuti simbolici emergenti dalle comunicazioni verbali.

Quando l’impoverimento del pensiero, l’appiattimento affettivo, accentuano gli effetti della censura e delle resistenze ad esprimersi, i pazienti possono faticare a trovare un’immagine per iniziare a disegnare, con il risultato di un iniziale blocco dell’attività: il foglio può rimanere bianco e, se non interviene adeguatamente l’educatore (o l’arte terapeuta), l’incontro si può trasformare in una situazione frustrante. L’inibizione del processo creativo può esprimersi anche attraverso la produzione di scarabocchi, stereotipie, immagini geometriche, o, come si è detto, con l’assoluta assenza di immagini.

Diverso è il problema quando si tratta di lavorare con pazienti dove il pensiero è dominato dalla labilità, dalla confusione, da una sovrapposizione ideativa, con nessi associativi labili o frammentati. In questo caso il soggetto può avere difficoltà a selezionare un’immagine precisa, rinunciando alle altre, e la conseguenza è la sovrapposizione di più immagini sul foglio. È possibile assistere alla comparsa di immagini condensate, stesure caotiche di colori apparentemente privi di significato, o colori che coprono immagini precedentemente disegnate; diventa allora difficile non solo decodificare le immagini, ma anche mettere ordine nel caos delle immagini stesse.

Alcuni soggetti organizzano la produzione grafica con una qualità fortemente difensiva. Può venir disegnata una casa, un fiore o un oggetto in modo tale da dare l’impressione di trovarsi di fronte a una "cosa spersonalizzata", senza storia, senza vita, un’immagine che invece di parlare, di comunicare emozioni o interrogativi e pensieri, rimanda un senso di estraneità, di fissità, di banalità.

In tutte queste situazioni è necessario che l’educatore (o l’arte terapeuta) sia in grado di creare un clima empatico, perché tutti gli atteggiamenti e modalità che il paziente esprime possono rappresentare una verifica del grado di tolleranza e accettazione da parte dell’educatore/arte terapeuta. Quest’ultimo stabilisce una relazione con il paziente in gran parte mutuata dal mezzo espressivo e attraverso di esso rintraccia messaggi e comunicazioni, sia di tipo intrasoggettivo che intersoggettivo: il paziente, lavorando creativamente, produce immagini che parlano a se stesso, ma parlano anche all’educatore/arte terapeuta.

Qui di seguito vengono tracciate, a titolo esemplificativo, alcune tecniche che vengono utilizzate per affrontare le situazioni prima descritte. Vengono inseriti alcuni disegni riferiti alle tecniche esposte, in gran parte tratti da materiale bibliografico, alcuni prodotti invece nell’atelier in cui ho lavorato.

Disegno libero

Il foglio bianco è vissuto come uno specchio rivelatore di ciò che non si vuole rivelare oppure rimanda troppo tangibilmente l’esperienza del vuoto interiore.

Quando la situazione di disegno libero è vissuta con troppa ansia, il paziente può sviluppare intense resistenze, espresse da razionalizzazioni riguardanti la propria incapacità tecnica e la mancanza di pratica. È utile allora ricorrere a tecniche di disegno che aggirino questo ostacolo (come il disegno gestuale e geometrico o l’intervento diretto dell’arte terapeuta o educatore nel disegno o, nel caso di pazienti molto regrediti e bloccati, il collage). È importante fornire anche nozioni di tipo tecnico, perché non è possibile parlare di libera creatività senza un minimo di bagaglio tecnico che la consenta. Il paziente è molto gratificato quando riesce ad imparare ciò che gli consente di superare quelle che, inizialmente, gli sembravano difficoltà insormontabili.

Intervento diretto dell’arte-terapeuta nel disegno

A volte i pazienti molto regrediti o bloccati, nei primi incontri, possono chiedere che l’arte terapeuta (o educatore) intervenga direttamente, disegnando per loro ciò che essi desiderano, ed esprimere di non ritenersi in grado di disegnare. L’intervento attivo dell’arte terapeuta come testimonianza della sua particolare disponibilità verso il paziente, facilita l’avvio dell’alleanza terapeutica, rassicura il paziente e ne agevola l’inserimento nel gruppo.

L’arte terapeuta può produrre un disegno completo su tema proposto dal paziente, assegnando a quest’ultimo soltanto compiti limitati (per esempio colorare), oppure può eseguire sul foglio anche una sola traccia, o un reticolo di linee, invitando il paziente a continuare, sollecitandone la fantasia, oppure ancora, quando il paziente riproduce un disegno in modo ripetitivo e stereotipato, può intervenire suggerendo colori e forme diverse, portando il paziente a sviluppare temi nuovi a partire da quelli abituali.

Spesso avviene che dal disegno eseguito dall’arte terapeuta, il paziente riesca, con semplici interventi autonomi, a far emergere una produzione simbolica più ricca e variata di quella che sarebbe emersa da un disegno spontaneo.

Un lavoro di questo tipo resta preminentemente un mezzo per facilitare la relazione tra paziente e operatore.

Disegno gestuale

Nei casi di blocco espressivo è utile suggerire al paziente l’esecuzione del disegno gestuale. Quest’ultimo viene eseguito attraverso liberi movimenti del braccio e quindi del mezzo grafico (pennarello, gessetto, matita) sul foglio, senza alcun riferimento ad uno schema precostituito o alla realtà. Questo tipo di attività grafica è tra l’altro il più adatto ad esprimere stati emotivi, non facilmente rappresentabili nei termini della figurazione tradizionale.

Con questa tecnica si può osservare un facile superamento delle resistenze: pazienti che solitamente producono con modalità stereotipate, possono rivelare capacità coloristiche insospettabili; la possibilità di esprimersi in modo astratto aggira il timore di essere oggetto d’indagine e di valutazione. Gratificando il prodotto del paziente, poi, si accresce l’interesse per l’attività e di conseguenza si stimola una produzione più varia.

Disegno geometrico

L’esecuzione del disegno geometrico è particolarmente adatta a pazienti sospettosi, difesi, che utilizzano meccanismi di razionalizzazione dei propri vissuti emotivi. Le forme geometriche altamente strutturate, ma di facile esecuzione, permettono di comunicare evitando i contenuti emotivi legati ad una comunicazione simbolica diretta.

Con questa tecnica si aggira anche l’ostacolo rappresentato dall’aderenza della riproduzione all’oggetto reale. Il paziente si esprime tramite la libera scelta della forma e dei colori, delle collocazioni spaziali e queste scelte sono riferibili a criteri logico-formali, ma anche affettivi.

Collage

È forse una delle tecniche più adatte per i pazienti che ritengono di non essere in grado di disegnare o che non sono in grado di concentrarsi sul disegno. Solitamente l’arte terapeuta propone un tema e il paziente ritaglia da giornali o riviste le figure e le scene adatte per esprimere il tema scelto, che può essere più o meno impegnativo a seconda della situazione psicopatologica del paziente. Le immagini vengono in seguito incollate sopra a un supporto, secondo un ordine significativo stabilito dal paziente.

Questa attività si presta molto bene ad essere eseguita in gruppo, data la sua facilità di esecuzione, di correzione e di modifica. Il lavoro, che richiede una certa manualità, può essere progettato preventivamente dai pazienti attraverso la ricerca di un tema comune e la formulazione di un piano di azione in cui ad ognuno sono attribuiti compiti e spazi di azione personali. La collaborazione ad un progetto comune favorisce la comunicazione ed ha una funzione socializzante.

Acquarelli su carta bagnata

Gli acquarelli vengono eseguiti direttamente con pennarello intinto nel colore molto liquido, su carta precedentemente bagnata: il colore si espande autonomamente dalle macchie in vaste zone; successivamente a foglio asciutto si può dare una forma più precisa e significativa, secondo ciò che la macchia suggerisce.

Questo tipo di tecnica consente di superare la tendenza a ripetere passivamente sempre lo stesso gesto grafico, la riluttanza a colorare i disegni nelle vicinanze del margine per paura di uscirne, la contrazione del gesto grafico. Come risultato si può ottenere dal paziente una colorazione più libera e meno contratta e un allentamento della tensione.

Questa tecnica, sia per l’effetto suscitato dal colore e sia per l’aspetto ludico, si è rivelata molto utile anche con i pazienti depressi.

Colori a dita

Questo tipo di attività viene proposta ai pazienti molto coartati sul piano del movimento e dell’espressione. Il colore viene steso direttamente con le mani, senza un mezzo intermedio, con caratteristiche di maggiore spontaneità nel gesto. Il materiale è regressivo, in quanto simile a quello usato in attività della prima infanzia.

Durante questa attività può verificarsi un certo piacere regressivo nello sporcarsi, oppure una certa repulsione, con un rifiuto successivo a usare questa tecnica. È adatta al superamento di condizioni di ipercontrollo espressivo e di coartazione del gesto o per pazienti che presentano gravi limitazioni motorie e nei casi di insufficienza mentale.

Mandala

Il paziente psicotico può rimanere come paralizzato di fronte al bianco vuoto, sia perché questo lo rimanda al proprio vuoto interiore, sia perché non riesce ad ordinare all’interno dello spazio bianco del foglio, vissuto come infinito, gli oggetti della propria esperienza delirante e frammentata, alla quale sente di non poter dare un ordine e un significato.

L’esecuzione di mandala molto semplificati, intesi come produzione di un numero libero di cerchi concentrici ed una successiva collocazione all’interno di colori, forme, riproduzioni di oggetti, parole, offre al paziente la possibilità di esprimere le proprie tematiche interiori e di integrarle in un simbolo grafico. Questo simbolo si organizza attraverso la separazione dello spazio esterno da quello interno mediante il cerchio più grande e attraverso la sua successiva suddivisione in cerchi concentrici sempre più piccoli, che creano e separano spazi ulteriori; si crea dunque una struttura grafica nella quale organizzare le immagini secondo criteri di lontananza, vicinanza, confine, secondo polarità dentro-fuori.

Copia dal vero

È un mezzo utile per riportare l’attenzione sul confronto con la realtà di pazienti molto disturbati e dissociati. Richiede impegno tecnico e psicologico, può quindi essere vissuta con ansia. Viene accettata di buon grado da pazienti con discrete capacità tecniche, che spesso chiedono anche consigli e chiarimenti per migliorare la loro produzione.

Il paziente è sollecitato a mettere in atto un processo di analisi, pianificazione, controllo e verifica, tramite l’osservazione dell’ogget-to reale, l’individuazione della sua struttura di base, del materiale di cui è fatto, della sua collocazione spaziale, il confronto tra l’oggetto e la sua riproduzione grafica, la verifica della meta raggiunta.

Tutto ciò promuove nel paziente il passaggio dall’imitazione rappresentativa globale e sincretica, nella quale le cose vengono riprodotte così come il paziente se le rappresenta e non come le vede, all’imitazione riflessiva che, attraverso l’analisi e la ricostruzione intelligente dell’oggetto, con piena coscienza di imitare, attua una distinzione tra io e non io, tra la realtà oggettiva e un modo soggettivo di cogliere la realtà.

Elaborazione di oggetti e scultura in materiali plastici

La manipolazione della materia solida può dare al paziente sia piacere che fastidio; è sempre opportuno verificare le cause. La costruzione di oggetti concreti con una significazione relativa al loro utilizzo può essere molto gratificante, soprattutto se l’oggetto viene costruito per qualcuno. La manualità richiesta consente una liberazione dell’energia, a volte troppo contenuta, veicolandola in un atto concreto che deve tradursi in un risultato concreto.

Quando il paziente riesce a produrre una scultura, forse per la materialità dell’oggetto e per la sua delimitazione, sembra trarre una particolare gratificazione; è ipotizzabile che tale gratificazione realizzi in modo sano le fantasie che hanno a che vedere con il desiderio di "dar vita e forma alla materia inerte".

Il disegno della figura umana e il ritratto

Il disegno della figura umana consente al paziente di esprimere un’immagine di sé e dell’altro ricca di contenuti emotivi ed affettivi, significativi e chiarificatori riguardo alla propria immagine corporea e al modo di entrare in relazione con il mondo.

L’ansia di frammentazione e depersonalizzazione si esprime spesso proprio attraverso questo tipo di disegno dove è possibile notare, quali segni indicatori, la mancanza o atrofia degli arti, lo stacco delle parti del corpo, un segno grafico spezzato, la contaminazione.

La difficoltà tecnica nella copia della figura umana è molto consistente e, inoltre, la qualità del simbolo è carica di una forte componente emotiva; l’arte terapeuta deve essere vicino al paziente, pronto ad offrirgli sostegno, incoraggiamento ed anche un aiuto pratico, quando la situazione lo richiede.

Body tracing (sagoma grafica del corpo)

Il problema dell’alterazione dell’immagine corporea può venir affrontato con mezzi che implicano l’utilizzo di parti del corpo: impronte delle mani o dei piedi tracciate con il colore a dita, oppure il disegno del contorno del corpo riprodotto a dimensione reale su un grande foglio e la sua trasformazione.

Creare un’immagine di sagoma del corpo su un grande foglio consente di restituire percettivamente un’immagine di corpo intero. Questo è molto importante per quei pazienti che hanno di se stessi un’immagine frammentata e distorta. Inoltre, la consegna successiva di "vestire" la sagoma consente di sollecitare proiezioni, favorendo l’emergere di contenuti personali

Diari-calendari

Nel paziente psicotico si evidenzia spesso il problema della difficoltà a concettualizzare il tempo, che si esprime sul piano comportamentale nell’incapacità a progettare e ad organizzare la propria vita, sia nel presente che nel futuro.

Sono utili incontri incentrati sulla costruzione da soli o in gruppo di calendari, diari e disegni rappresentanti momenti diversi del giorno, aspetti diversi di uno stesso oggetto in rapporto al tempo, elementi della natura soggetti a modificazioni stagionali, disegni in sequenza rappresentanti un accadimento, disegni rappresentanti storie.

Formine di legno

Con i soggetti molto disturbati e deteriorati è possibile facilitare l’espressione con l’utilizzo di forme già pronte, come formine di legno o di cartone rigido. Le forme già date aiutano il soggetto ad orientarsi in un universo precostituito e rassicurante e possono venir riorganizzate in insiemi significativi. Quando un paziente è incapace di affrontare le sedute di arte terapia senza un aiuto concreto, perché troppo immerso nel suo mondo interiore, le forme precostituite aiutano a spostare l’attenzione verso il mondo esterno.

Al di là della conoscenza e dell’utilizzo delle tecniche fin qui descritte, l’educatore (o l’arte terapeuta) deve essere capace di costruire una dimensione di incontro empatico, in cui il processo creativo può fondersi ed evolvere. Costruire una dimensione empatica significa soprattutto mettere il paziente nelle condizioni di sentirsi accolto, capito, accettato in un contesto capace di infondergli e fargli sperimentare un senso di sicurezza, di fiducia e di appartenenza.

Egli dovrà cogliere nel dispiegarsi delle parole, dei gesti, delle immagini del paziente, gli indicatori dei movimenti intrapsichici e dovrà essere attento alla dimensione inconscia di tali movimenti.

Ogni paziente disegnando crea una sequenza di segni, colori, immagini che si estendono nel tempo, foglio dopo foglio, incontro dopo incontro, raccontando la sua storia e il suo percorso e l’arte terapia diventa uno strumento che sa duttilmente adattarsi a livelli di integrazione o disintegrazione del pensiero diversi, riuscendo a comunicare attraverso l’attivazione di canali di comunicazione sintoni con le possibilità del soggetto.