ARTE E FOLLIA Vai a Cap. 3

"Io scrivo le parole sulla fronte e agli angoli della bocca" (Paul Klee)

2.1. L’ART BRUT E L’ART DES FOUS

Art brut è il nome che l’artista francese Jean Dubuffet (1901–1985) ha attribuito alla collezione di opere da lui raccolte a partire dal 1945 e che dal 1976 sono esposte nell’omonimo museo di Losanna.

Secondo la definizione più corrente, l’art brut è "…l’arte praticata da persone che, per una ragione qualunque, sono sfuggite al condizionamento culturale e al conformismo sociale: solitari, disadattati, pazienti di ospedali psichiatrici, detenuti, emarginati di ogni tipo. Questi autori hanno prodotto per loro stessi, al di fuori del sistema delle belle arti (scuole, gallerie, musei, ecc.), delle opere scaturite dal loro proprio fondo, fortemente originali nella concezione, nella scelta dei soggetti, nel processo di esecuzione, e senza alcuna concessione nei confronti della tradizione e della moda…".

Art brut non è dunque un movimento artistico in senso stretto, ma un polo ideale che permette di circoscrivere opere difficilmente classificabili attraverso i tradizionali schemi della storia dell’arte.

Sulle orme di questa prima formulazione teorica, numerose altre collezioni, sia pubbliche che private, sono state consacrate a questo tipo di opere, imponendone la presenza – parallela, outsider, in ogni caso problematica – nell’arte del nostro tempo.

Per comprendere i motivi che hanno spinto Jean Dubuffet a costituire questa insolita collezione, bisogna ripercorrere la genesi della sua propria opera e del suo pensiero artistico. All’inizio degli anni ‘20, Dubuffet frequenta a Parigi i corsi dell’Académie Julian, ma si rivolta contro l’insegnamento fondato sull’imitazione dei modelli del passato, poiché reputa questo esercizio ozioso e pericolosamente inibitore.

Al tempo stesso, egli osserva con indifferenza i fermenti avanguardistici che scuotono la capitale, coltivando l’idea che l’autentica creazione artistica possa nascere solo da una ricerca individuale, e non da un’ideologia o da un programma. Dei suoi esordi parigini i biografi riportano un solo evento che sembra averlo marcato e confortato nelle sue opinioni: la scoperta dei quaderni di una certa Clémentine R., istoriati di scritte e di disegni raffiguranti fantastici combattimenti di carri alati, ispirati dalle sue visioni di medium spiritico.

Per Dubuffet si è trattato di una rivelazione, del primo contatto con un’opera scaturita da una creatività febbrile e visionaria, espressione di un universo poetico del tutto individuale, per nulla influenzato dalle tendenze artistiche del momento. Su questa base egli ha costruito il suo credo artistico: per dare voce e corpo alle proprie voci interiori bisogna fare tabula rasa delle sovrastrutture culturali, bisogna spogliarsi dell’eredità accademica, liberarsi dal gioco della norma. L’esercizio più salutare deve dunque consistere nell’imparare a dimenticare.

Dubuffet credeva profondamente nelle potenzialità creative che sono presenti, allo stato latente, in ogni individuo. Fin dalla formazione del primo nucleo della collezione, circa la metà degli autori sono stati individuati tra pazienti di ospedali psichiatrici. La condizione di totale isolamento dalla società, nella quale creavano gli artisti "alienati", rappresentava per Dubuffet un punto di partenza ideale per rimuovere l’influenza della tradizione figurativa e delle norme accademiche, "…è stato il solo desiderio di incontrare delle opere rappresentative della creazione cerebrale, capaci di sgorgare in tutta spontaneità e ingenuità nella loro purezza bruta (cioè indenne dalle polarizzazioni della cultura, dai mimetismi dell’arte culturale), che ci ha condotto a orientare le nostre ricerche – almeno in parte – verso coloro che sono per eccellenza i campioni del non-allineamento, i portabandiera del pensiero personale e non condizionato, i grandi adepti dell’immaginazione e i grandi negatori di ogni nozione inculcata…".

In Svizzera, e in seguito anche nel resto dell’Europa, Dubuffet ha trovato un terreno fertile nelle raccolte messe a punto da alcuni psichiatri illuminati, i quali avevano preso l’iniziativa di salvaguardare le produzioni spontanee dei loro pazienti, considerandole sotto un profilo formale piuttosto che come elemento sintomatologico. Dubuffet si è impegnato fin dall’inizio per affermare il valore artistico di queste opere, ma bisogna tener presente che la sua battaglia fu a lungo solitaria.

Fino agli anni ’60 le produzioni dei malati di mente erano considerate (salvo rare eccezioni) niente di più che "casi" di psicopatologia dell’espressione. A proposito del nodo che lega arte e follia, Dubuffet afferma "…La nostra posizione riguardo a questa particolare circostanza – cioè quella che è chiamata follia – è la seguente: intendiamo ignorarla completamente. Non ci riguarda affatto…", e ancora "…Non esiste un’arte dei folli più di quanto non esista un’arte dei dispeptici o dei malati al ginocchio…".

Ma prima ancora di parlare di art brut, bisogna riconoscere il contributo artistico/culturale fornito dalla cosiddetta art des fous. Già dalla seconda metà dell’‘800 (Dubuffet inizia la sua ricerca agli inizi del ‘900) vengono pubblicati in Francia i primi studi su

questa nuova arte e molti studi psichiatrici del ‘900 faranno ampio riferimento a queste pionieristiche esperienze.

Si profilano, dunque, connessioni tra le opere dei malati, l’arte e la psicopatologia: l’opera, l’oggetto estetico prodotto dal malato, verrà indagata da un duplice sguardo, orientato in senso diagnostico-nosografico sostenuto dalla fascinazione e da istanze estetiche.

Alla fine del 1800 lo psichiatra francese Tardieu che così scriveva: "…Che lo si faccia con il pensiero, che si capisca con la fantasia le cose più impossibili, le immagini più bizzarre, non si arriverà mai alla specie di delirio che si dipinge sulla tela con le mani di un alienato, a queste creazioni che vengono dall’incubo e danno vertigine…".

Questi due autori appartengono al gruppo dei precursori, così come Cesare Lombroso in Italia, anche se la sua opera influenzerà decisamente queste ricerche in Europa.

Ma è nel Novecento che gli studi sull’art des fous verranno, infatti, influenzati dalle dottrine psichiatriche dell’automatismo e dalle riflessioni che André Breton e il movimento surrealista formuleranno su questo tema.

L’applicazione della dottrina dell’automatismo alle opere dei malati rivela il suo volto rigido: stili e forme, soprattutto quelli considerati il prodotto del disegno spontaneo (griffonages e disegni liberi), sono classificati come espressioni pure dell’automatismo. Rogues de Fursac, ad esempio, insiste sul carattere involontario dei movimenti della mano, che correla a fenomeni allucinatori.

La grande forza espressiva delle opere che tanto aveva affascinato Tardieu viene così ricondotta entro un modello rigido: la ricchezza ornamentale, il lussureggiante simbolismo, la semplifica-zione delle forme vengono dunque interpretati con un linguaggio che già contiene esplicite riserve sulla stessa arte moderna. La tradizione tedesca esprimerà un’inversione di tendenza, grazie all’opera di Morgenthaler e di Prinzhorn.

Sempre in quel periodo storico iniziano i primi rapporti tra arte moderna e psicoanalisi, che saranno contraddistinti da momenti di duro confronto e da tiepide alleanze. Freud mantenne – come sostiene Ernst Gombrich – un atteggiamento conservatore nei confronti dell’arte, stabilendo "i limiti e i confini", entro i quali fissare il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l’elaborazione preconscia.

Nel secondo dopoguerra gli studi sull’art des fous ricevono nuovi impulsi: l’arte outsider, l’arte non ufficiale, indenne, come riteneva Dubuffet, da contaminazioni culturali, diviene così l’oggetto di nuove attenzioni che coinvolgono studiosi di differente provenienza disciplinare.

Nell’Esposizione Internazionale del 1950 a Parigi vengono esposte moltissime opere prodotte in varie istituzioni asilari e non, presentando approcci diversi. È in questa occasione che Margaret Naumburg, pioniere dell’arte terapia negli Stati Uniti, presenta una serie di 63 dipinti astratti, eseguiti nel corso di una psicoterapia a mediazione artistica.

In queste opere il linguaggio cambia ed entrano in gioco la relazione terapeutica e le dinamiche che la regolano. Al termine della sua terapia con la Naumburg, una paziente scrive: "… Se non avessi mai parlato dei miei disegni, non sarei mai arrivata al fondo dei miei problemi…".

2.2. LA VISIONE: GUARDARE E VEDERE

Guardare e vedere sono le due modalità cardinali della visione e la visione a sua volta, è un esemplare esercizio di senso.

Il senso per eccellenza è la vista, il più evoluto e il più distante dei sensi, se si considera il gusto come quello più primitivo e vicino alla fonte dello stimolo, seguito dal tatto, dall’olfatto e dall’udito. Ma senso nel processo linguistico è anche significato e concetto, oltre che direzione e orientamento nello spazio e nel tempo.

Ritornando alla doppia modalità della visione, possiamo affermare che guardare è un’esperienza percettiva comune e condivisibile, processo cognitivo primario innescato dal punto di contatto tra la coscienza percipiente e la realtà percepita. Vedere, invece, è già in sé un atto mentale, la cui funzione non è solo quella di considerare l’esistenza della realtà naturale, riconoscendola e descrivendola (tutto ciò avviene nel guardare), ma quella di visualizzare il senso latente, l’invisibile, l’essenza delle cose.

In greco eidenai significa sapere e deriva evidentemente da idein, cioè vedere: dallo stesso scandaglio etimologico deriva il senso di eidos che significa aspetto, immagine ma anche idea, concetto.

Klee ci ha insegnato che il vedere si esprime come pensiero visivo di una percezione che intuisce l’essenza invisibile delle cose: l’arte – anzi il pittore – "fa vedere" ciò che non si manifesta nell’ottica e nella fisiologia, ma che corrisponde a una significazione espressiva e soggettiva, una vera e propria "visione del mondo".

Il pensiero si configura come un’attività neutrale e innocente, non imposta e non regolata, piuttosto intima e avviluppata alla memoria e alla soggettività. Quando l’attività del pensiero è seria e intensa, elabora la realtà senza preoccuparsi di descriverla, procede per addensamenti e rarefazioni, ma soprattutto "immagina".

Il pensiero visivo tiene in grande considerazione il caso e l’imprevedibile, ha rapporti con la trascendenza e con l’inspiegabile, è costantemente ma irregolarmente attivo sul fronte dell’immaginazione. In questo senso l’attività del pensiero visivo è sempre affermativa: le immagini, sia che rappresentino oggetti o situazioni esistenti, plausibili, sia che si riferiscano all’inesistente, sono sempre affermative, perché sono quello che sono.

Le tre tappe fondamentali del "far vedere" sono:

    • la rappresentazione,
    • la figurazione,
    • l’espressione.

La rappresentazione: restituzione al mondo di ciò che era stato percepito, "riproducendo" la cosa con l’immagine. È naturale, quindi, che la rappresentazione, per essere funzionale ed economica, debba codificarsi su vari livelli informativi rispetto allo stesso oggetto, secondo una scala di iconicità al cui massimo grado si colloca l’oggetto stesso, al minimo invece la parola.

Questa specie di soggettivismo di natura mentale, che spoglia l’oggettività dei suoi elementi impuri, è la traccia che avrà in Mondrian il suo rappresentante più emblematico.

La figurazione: processo attraverso il quale un eidos diviene figura e che presuppone quindi una visione mentale, un’immagine psichica. Appartengono alla figurazione alcune restituzioni visive di contenuti arcaici e ancestrali, mistici e religiosi, simbolici e archetipici.

È indubbio che dagli studi sull’interpretazione dei sogni di Freud in poi, le immagini interiori condividano con i sogni l’opalescenza metaforica e simbolica, la funzione traspositiva, la dimensione impalpabile e sfuggente del Notturno e dell’Inconscio.

L’espressione: è spesso connessa alla deformazione e i suoi segni attingono all’anima. Van Gogh dichiarava di voler "dimostrare che il rosso e il verde possono esprimere le terribili passioni umane".

L’atto espressivo precede ogni condizionamento culturale, costituisce un fenomeno psico-antropologico primario, si riferisce al "cosa fare" piuttosto che al "come fare".

Nell’espressione la distanza tra il soggetto esprimente e ciò che è espresso viene completamente annullata: senza la mediazione di codici razionali l’atto espressivo avviene d’impulso, istintivamente.

In conclusione, possiamo così riassumere:

    1. la rappresentazione "rispecchia" il senso e si instaura come relazione interna tra il soggetto e il mondo;
    2. la figurazione "mostra" il senso e si instaura come relazione interna tra il linguaggio e il mondo;
    3. l’espressione realizza "l’essere" del senso, nella relazione interna tra il soggetto e il linguaggio.

Le teorie estetiche più interessanti del ‘900 sono state formulate da psicologi, psicanalisti, filosofi del linguaggio, della letteratura, della sessualità, oltre che dagli storici dell’arte, naturalmente.

L’eidos si oppone antagonisticamente alla morphé, dal momento che con il primo termine si intende la forma intelligibile e con il secondo la forma sensibile. L’occhio, dopo aver acquisito una tecnica di dissociazione sistematica e radicale, si dovrebbe esercitare su forme depurate dall’emotività.

Nei primi vent’anni del ’900, il problema della forma susciterà teorizzazioni brillanti e radicalmente innovative. È in quegli anni che Hans Prinzhorn coniuga storia dell’arte e psichiatria sullo straordinario repertorio di opere provenienti da alcuni istituti psichiatrici europei e che egli sta collezionando.

Accanto alla figura di Prinzhorn vanno poste anche quelle di Freud e Heidegger, che contribuiranno a ridefinire l’arte ridisegnandone confini, limiti e differenze.

Se riusciamo a spingere lo sguardo oltre la diversità, oltre la contraddizione, riusciremo a intravedere il luogo della differenza dove coabitano identità e alterità, l’apertura illimitata e il rischio, la mutazione e il rovesciamento, il simulacro.

2.3. ARTE, PSICOLOGIA E PSICANALISI: UN CONFRONTO APERTO

Credo che le concezioni che più hanno influito sulla teorizzazione e sulla pratica delle cosiddette arti terapie risiedano nei modelli (o miti) che hanno inciso sull’elaborazione culturale in questo campo e che sono gli stessi che hanno caratterizzato la storia del pensiero psichiatrico, e cioè:

    1. il paradigma organo-genetico;
    2. il paradigma psico-genetico;
    3. il paradigma socio-genetico.

Questa categorizzazione, pur apparendo rigida e definitoria (tanto più in questo periodo storico in cui si parla di approcci integrati), fornisce utili elementi di riflessione.

Le esperienze e le tecniche terapeutiche sono state sempre pensate facendo riferimento a modelli (miti) che hanno concepito l’eziologia dei disturbi psichici secondo modalità teoriche date e determinate. Pur alla luce dei nuovi sviluppi, è anche vero che non ci si può sbarazzare completamente delle idee che hanno consentito un primo orientamento teorico generale.

Di seguito fornirò una sintetica descrizione dei diversi paradigmi.

    1. Il paradigma organo-genetico è l’insieme dei modelli che hanno rappresentato l’eziologia dei disturbi psichici come malattia del cervello; cioè come un sistema di categorie diagnostiche simili a quelle che costituiscono il campo del sapere medico-neurologico.
    2. L’equivalenza genio-follia che abbiamo ereditato dalla criminologia positivistica di Cesare Lombroso, ad esempio, può essere catalogata in quest’ambito, così come le concezioni di Prinzhorn e di Morgentalher.

    3. Il paradigma psico-genetico è rappre-sentato dall’insieme di quelle teorizzazioni psicologiche e/o psicoanalitiche che hanno inteso la psicopatologia come il risultato di un meccanismo conflittuale, o di una disorganizzazione regressiva dell’appa-rato psichico.
    4. I fautori di questo modello hanno sostenuto che tecniche psicoterapeutiche approfondite e rigorose potevano modificare radicalmente il decorso della malattia.

    5. Il paradigma socio-genetico è costituito dalle molte ed eterogenee concezioni che hanno messo l’accento sull’importanza delle dinamiche micro e macro-sociali: i fenomeni di emarginazione e di deriva, i paradossi comunicativi, i doppi legami, le lealtà occulte, le congiure e le chiusure del sistema familiare, ecc.; insomma, tutti i fattori non strettamente psicologici né fisiopatologici, che sono stati postulati come determinanti nella genesi dei disturbi mentali.

Variamente organizzate, queste diverse teorizzazioni sono quelle che hanno dato vita al fenomeno dell’antipsichiatria e della psichiatria sociale.

Più recentemente, invece, molti di questi modelli hanno trovato una costruttiva applicazione operativa nel complesso delle pratiche che passano sotto la definizione di "riabilitazione psico-sociale".

Orientarsi sugli orizzonti teorici-terapeutici che costituiscono lo sfondo delle diverse esperienze non è comunque ancora sufficiente.

Scrive Anne Denner: "…L’atto stesso di dipingere e soprattutto di modellare è in sé un’attività riparatoria di frustrazioni arcaiche. Esso permette ai pazienti di esprimere delle carenze profondamente avvertite nella prima infanzia e, grazie al diritto di trasgressione, di compensarle per mezzo del gesto creatore e del suo risultato…".

Sul piano terapeutico l’elaborato artistico rappresenta la sintesi d’espressione di sé e le strutture formali atte a contenerla, d’intui-zione e capacità organizzative, d’emotività e razionalità, di pensiero analogico funzionante per immagini e di pensiero logico che sceglie i modi concreti (materiali, gesti) per incarnare tali immagini nella realtà.

Ma se questa funzione di sintesi avviene spontaneamente negli artisti, nell’ambito più prettamente terapeutico va seguita e indirizzata con attenzione, specie in quelle personalità la cui struttura dell’Io non è abbastanza forte da tenere insieme poli così lontani e inconciliabili. In quest’ottica la presa di contatto con gli oggetti, che si realizza attraverso la mediazione artistica, riveste un ruolo di enorme impor-tanza sul piano psicologico.

La psicologia genetica ha sottolineato l’importanza dello stabilirsi della relazione oggettuale (passaggio da fusione a separazione) nell’identificazione della struttura psichica del bambino. Cogliere e rappresentarsi la realtà, gli oggetti, il processo di separazione da questi non è un’operazione passiva, di "registrazione dei dati obiettivi", ma il frutto di un’integrazione attiva dei vari dati percettivi, di motricità e di relazione tonico-emotiva con la figura materna (che rende possibile la comunicazione, prima ancora che si instauri il linguaggio).

In arte terapia è importante tener presente questi elementi, poiché il lavoro sulla creatività ha sempre a che fare con fusione e separazione, con oggetti che acquistano esistenza nello spazio e nel tempo, diventando indipendenti dal loro autore.

Qui di seguito vengono presentati alcuni dei modelli psicologici e psicoanalitici che possono costituirsi come punto di riferimento per una migliore comprensione dei processi implicati nella creatività e nella relazione con il paziente.

Il modello psicodinamico pone l’accento sui seguenti elementi:

    • la catarsi,
    • i simboli,
    • la riparazione,
    • il delirio,
    • la restituzione,
    • lo spazio potenziale.

Il termine catarsi (dal greco kathairo = pulizia, purificazione), conosciuto sin dai tempi di Aristotele, è stato ripreso in epoca moderna da Freud e da altri psicanalisti, per connotare l’effetto di abreazione di un trauma ottenuto con il metodo ipnotico. La teoria si basava sul fatto che il sintomo isterico nascesse quando l’energia di un processo psichico non poteva arrivare all’elaborazione conscia e veniva allora diretta verso l’innovazione corporea (conversione). Si otteneva la guarigione con la liberazione dell’effetto e la sua scarica (abreazione).

Ciò che caratterizza il processo catartico è la partecipazione emozionale del soggetto, attraverso una ritualizzazione del passato o una realizzazione simbolica del fantasma. Nella terapia con l’arte non è raro assistere a questo fenomeno: l’uso delle parole diventa allora superfluo, poiché il soggetto attualizza direttamente sulla carta ricordi e sogni.

I simboli sono intimamente legati al concetto di lutto: ogni abbandono, ogni perdita che il processo di crescita necessariamente comporta, dà luogo alla nascita di simboli. Questi, creati dal Sé, possono essere liberamente impiegati come portatori di aggressività e messi in gioco, senza che la vita del soggetto o dell’oggetto siano in pericolo. La capacità di sperimentare la perdita dell’oggetto, potendolo ricreare dentro di sé, dà all’individuo un senso di libertà. Il simbolo è un rappresentante dell’oggetto che non nega, ma di cui permette di sopportare la perdita.

Ogni comunicazione avviene per mezzo di simboli. L’accesso alla simbolizzazione facilita la risoluzione dei conflitti interiori: angosce viste come intollerabili per il loro aspetto concreto e non mediabile possono essere gradualmente affrontate, simbolizzate e integrate.

In quest’ottica si inserisce il concetto di riparazione, grazie alla quale si possono eliminare le angosce: l’arte offre la possibilità di sublimare le pulsioni asociali, come per esempio il sadismo (scultore), il voyeurismo (fotografo), ecc..

Se si considera la malattia come prodotto di una somatizzazione psicosomatica, l’arte può essere intesa come superamento dell’espressione inconscia dei conflitti, per mezzo di un processo di "messa in forma". Questo esige una rinuncia alla realizzazione della pulsione, che sarà allora soddisfatta a un livello d’espressione superiore, cioè addirittura più piacevole. L’arte riunisce, restaura e conserva gli oggetti perduti: il suo fine ultimo è vincere la morte.

Il delirio è un fenomeno che si colloca a metà strada tra la patologia e la creazione. Si tratta di un momento di ricostruzione secondario rispetto a quello della dissociazione e della frantumazione, che secondo Freud obbedisce agli stessi meccanismi del sogno e dell’opera d’arte.

Ogni elemento del delirio è come un pezzo rimesso al posto, dove originariamente c’è stata una rottura nella relazione tra l’Io e il mondo esterno. Questa creazione risponde all’esigenza di ricreare gli oggetti che si pensano perduti, distrutti, ma è anche un modo di dominare, in un eccesso d’onnipotenza, il mondo esterno, pericoloso e caotico.

L’attività delirante richiama intensamente l’attività creatrice, artistica e letteraria, ed è per ciò lecito considerare il delirio una forma morbosa dell’esperienza estetica.

Se si paragona il delirio, che è un processo di restituzione, al processo di riparazione, è possibile vedere che si tratta in entrambi i casi di una creazione. La differenza è che, se la riparazione segue una via simbolica, la restituzione invece segue una via magica.

Lo psicotico, come l’uomo primitivo, vive in un mondo ostile che cerca di dominare con il suo pensiero e i suoi riti.

L’ultimo elemento della lista, lo spazio potenziale è stato sviluppato da Winnicott partendo dall’attività del gioco, il cui aspetto più originale è la tecnica dello squiggle (scarabocchio).

Il gioco e l’arte sono libere manifestazioni della pulsione vitale. Annota Winnicott: "… I primi squiggle della seduta hanno come unico scopo quello di insegnare a giocare. Il loro contenuto, molto oscuro e poco significativo, ha in effetti scarsa importanza: ciò che più conta è il contatto che permettono di stabilire. All’ottavo squiggle, questo obiettivo viene raggiunto …".

Questa tecnica presuppone il quadro teorico dello spazio poten-ziale: uno spazio intermedio (transizionale) tra interno ed esterno, una sorta di terreno psichico di gioco, luogo instabile dove si forma la creatività.

Il modello neurofisiologico

Con le nuove scoperte nel campo della neurofisiologia, è stata formulata l’ipotesi del "doppio cervello".

L’emisfero sinistro è quello dominante ed è anche detto maggiore. Ha la funzione di tradurre le percezioni in rappresentazioni logiche e di comunicare secondo una cifratura digitale, discorsiva e analitica. Esso corrisponde dunque al campo del linguaggio (grammatica, sintassi e semantica), della lettura, dell’aritmetica e del calcolo.

L’emisfero destro è altamente specializzato nella percezione solistica (globale) delle figure e delle strutture complesse, ciò che in psicologia si definisce Gestalt.

Seguendo il principio dell’ologramma (immagine che permette di ricostruire l’insieme dell’immagine, a partire da qualsiasi elemento), l’emisfero destro riposa sul principio della pars pro toto (una parte per tutto). A partire da un elemento minimo (parte del viso, ecc.) può identificare il tutto.

Il linguaggio dell’emisfero destro è arcaico e poco sviluppato: le parole si associano come per gioco.

Questa differenza tra i due emisferi si ritrova anche sul piano istologico, poiché ognuno di essi possiede un’architettura cellulare propria.

Il modello fenomenologico

La fenomenologia è, secondo Husserl, la scienza dei fenomeni, cioè lo studio diretto delle interazioni elementari tra il singolo soggetto ed il mondo circostante.

La fenomenologia è uno sguardo, un punto di vista sulla persona e sul senso dei vissuti del paziente, che taglia trasversalmente i vari approcci psicoterapeutici. Avere uno sguardo fenomenologico, significa essenzialmente considerare che il modo in cui una persona dipinge, suona, danza, non è in sé diverso dal modo in cui quella persona comunica con gli altri nel condurre gli atti quotidiani della sua vita.

Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dal divenire della malattia, è, scrive Jaspers, al di là dell’opposizione tra normale e anormale, e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce da un difetto della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita.

L’approccio fenomenologico è quindi uno sguardo particolare nella relazione col paziente, che non ha una specifica tecnica psicoterapica.

In questo senso non è legato al mondo della psicoterapia, con il suo setting e le sue regole, ma appartiene anche all’ambito della risocializzazione e della riabilitazione.

Il modello analitico immaginale

Tale modello possiede due specifici concetti: il concetto di metafora e quello di guarigione.

Il concetto di metafora consiste nel ritrovare ed esplorare un oggetto tramite il trasferimento all’immagine di un altro oggetto.

La metafora è sempre stata usata dai poeti e narratori per esprimere "l’inesprimibile" ed anche il mito, la religione, i riti e certamente i sogni fanno uso di metafore.

Il concetto di guarigione è legato all’opportunità d’individuare le proprie potenzialità, la propria strada maestra, il sé e, in questa accettazione, agli aspetti creativi intrinseci ad ogni essere umano.

Il processo di guarigione da un disturbo psichico è quindi un’arte, "un’arte empirica" e il prodotto finale si definisce esclusivamente rispetto al soggetto.

Il modello immaginale ispira tutte le tecniche artiterapeutiche, dove la conduzione non è asettica, distante, bensì partecipativa, e dove le immagini diventano un dialogo per la costituzione del setting.