L’ESPERIENZA DI UN ATELIER
DI ARTE TERAPIA IN UN SPDC

Vai a Cap.4

"Solo con il cuore si può vedere in modo corretto; l’essenziale resta invisibile all’occhio"
(A. De Saint-Exupery)

3.1. PRESENTAZIONE DELLA STRUTTURA

Il fondatore dell’Ordine Ospedaliero Fatebenefratelli si chiama Giovanni Cidade. Era nato a Montemor-o-Novo, piccolo centro nella diocesi di Evora in Portogallo, nel 1495.

All’età di otto anni capitò a casa di Giovanni, un giramondo che, come altri particolarmente a quel tempo, vagava per l’Europa alla perpetua ricerca di un lavoro, o semplicemente di avventure, o anche come pellegrino per visitare i più celebri luoghi di culto.

Il piccolo Giovanni fu subito attratto dai racconti di questo sconosciuto e una notte, dopo le ripetute richieste del Cidade, i due scomparvero. Inizia un periodo di grandi vicissitudini: Cidade diventa mandriano, soldato, viene condannato a morte, girovaga per l’Europa, ecc..

All’età di 38 anni intraprende la via del ritorno a casa. I suoi genitori sono morti e la sua casa è occupata da un’altra famiglia. Disperato e solo decide di partire per andare a combattere in Africa (Tunisia, Marocco, ecc.).

Rientrato in Spagna all’età di 43 anni, riesce a far fortuna con l’acquisto e la vendita di libri. L’anno successivo al suo rientro incontra padre Giovanni d’Avila (un dotto e pio oratore di quei tempi, che diventerà il suo padre spirituale) e in breve si converte. Preso da questo "raptus" religioso, Giovanni Cidade si reca nel suo negozio e in poche ore si libera dei libri, dei soldi e delle suppellettili. Inizia il suo peregrinare di piazza in piazza scalzo, imbrattato, urlante la sua fede in Dio, offrendosi agli insulti e ai lazzi della gente.

Viene ricoverato nel manicomio della città, dove subisce il trattamento che si riservava a quei tempi ai malati di mente: legato mani e piedi, riceve una buona dose di frustate.

È in questo luogo che Giovanni inizia a maturare l’idea di dare cura e assistenza ai poveri e agli ammalati.

Ritornato libero, inizia a raccogliere offerte per costruire un luogo dove poter ospitare i poveri e gli emarginati.

Gira fino a tarda notte per i quartieri della città a chiedere l’elemosina e raccoglie in una grande gerla posta sulla schiena denaro e ogni genere di aiuti. Passa gridando: "Fate bene fratelli, a voi stessi, per amor di Dio; aiutate i poveri e aiuterete voi stessi". Tale grido darà il nome di "Fatebenefratelli" a quanti seguiranno l’esempio di Giovanni nell’ordine ospedaliero.

Il vescovo di Tuy, mons. Ramirèz de Fuenleal, gli impone un nome nuovo: Giovanni di Dio, e lo obbliga a lasciare i suoi abiti laceri e cenciosi per una tunica con un mantello color cenere, simboli del nuovo ordine.

La statua che si vede nel cortile interno dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli di Milano richiama la posizione, rigidamente inginocchiato in atto di fede e penitenza, in cui spirò nel 1550, all’età di 55 anni.

Giovanni di Dio morì senza aver avuto l’intenzione di fondare un ordine religioso, ma il suo esempio aveva spinto molti a seguirlo, nel servizio ai malati e agli emarginati. Quando lui era ancora in vita furono aperti diversi ospedali in Spagna, che continuarono a svilupparsi anche dopo la sua scomparsa.

I suoi collaboratori decisero allora di unirsi con vincoli ancora più forti e stabili, come veri e propri religiosi legati dai tre classici voti di povertà, castità e obbedienza, ai quali si aggiunse un quarto voto tipico dell’ordine, quello dell’ospitalità.

Lo sviluppo dell’ordine fu rapido e capillare: dall’Italia i seguaci di Giovanni di Dio si diffusero rapidamente in Francia, Austria, Polonia, Sudamerica.

Nell’’800, nonostante le leggi di soppressione che colpirono diverse congregazioni religiose, l’ordine Fatebenefratelli rimase in piedi e, anzi, conobbe una fase di nuovo proselitismo. È in quegli anni che il beato Benedetto Menni fonda l’ordine femminile, tuttora fiorente, delle Fatebenesorelle.

Tra gli ambiti sanitari in cui l’ordine eccelse sono da menzionare le malattie mentali e la pediatria.

FINALITÀ E OBIETTIVI

Sono passati oltre vent’anni dalla legge 180 del 1978, che istituiva l’apertura dei SPDC all’interno degli Ospedali generali.

Il loro ruolo si è progressivamente arricchito di funzioni complesse, che hanno dimostrato come gli operatori avessero un’adeguata adattabilità e flessibilità nel rispondere a mandati differenziati e a tollerare frustrazioni e difficoltà.

Gli SPDC sono diventati strutture polivalenti, con le seguenti caratteristiche:

    • luoghi contenitivi della crisi;
    • strumenti per la promozione e lo sviluppo dell’informazione e del consenso, sia per gli utenti che per le famiglie;
    • ambienti atti a creare le condizioni favorevoli per la presa in carico di utenti che devono proseguire le cure;
    • centri per effettuare valutazioni cliniche;
    • aree di impostazione farmacologica, sia in acuto che a medio e lungo termine;
    • ambiti per il recupero funzionale cognitivo, per la riabilitazione e per la reintegrazione sociale.

Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura si colloca nell’ambito dell’ospedale, in una peculiare situazione all’incrocio tra area psichiatrica e area sociologica.

Per questa connotazione esso rappresenta qualcosa di innovativo rispetto alla tradizionale bidimensionalità degli ambienti di ricovero, in cui il paziente perde in buona misura la sua identità sociale. È un "letto", un numero o al massimo un corpo da riparare, se possibile.

Il collegamento stretto con le strutture territoriali, di cui il tempo della degenza rappresenta solo un breve momento di una più articolata presa in carico, garantisce il soggetto nella sua realtà psicosociale, senza interrompere il suo collegamento con la famiglia e con il territorio.

Da queste considerazioni scaturiscono due possibilità:

    • l’ambiguità tra aspetti psichici e somatici si configura come un rischio di essere fagocitati dalla logica obiettivante della tradizione ospedaliera, inflazionando gli aspetti passivizzanti della degenza;
    • il discorso alternativo volto a configurare la specificità del discorso psichiatrico e al limite ad "iniettare" nel corpo ospedaliero un "virus", rappresentato dalla necessità di una visione integrata della sofferenza, e non solo dello stretto ambito psichiatrico.

Tenterò di definire gli obiettivi di base su tre parametri: accoglimento, contenimento, approfondimento diagnostico.

Il primo risulta di particolare importanza, soprattutto in occasione del ricovero di persone che non hanno avuto in passato esperienza di contatti con l’ambito psichiatrico.

Il contenimento richiede una particolare attenzione da parte degli operatori socio-sanitari; va pensato essenzialmente come funzione di integrazione, utilizzando prevalentemente la presenza ed il contatto adeguato, più che gli strumenti farmacologici e la restrizione fisica.

Nella maggior parte dei casi acuti il paziente "non sta insieme", è scisso o disgregato; la funzione dell’équipe è quella di garantire un "holding" molto attento e flessibile, ossia un tentativo di ricomposizione.

L’approfondimento diagnostico può essere svolto in vario modo, senza limitarsi ad una mera etichettatura nosografica. Quest’ultimo compito istituzionale pone i seguenti problemi:

    • gestione dell’aggressività: si tratta di un’area che la pratica manicomiale aveva drammatizzato e inflazionato. L’esperienza ha dimostrato che l’addestramento adeguato e continuo del personale riesce a creare un "clima" in cui l’eventuale violenza, il più delle volte legata al panico del paziente, può essere stemperata e sdrammatizzata;
    • ascolto partecipe: non si tratta solo di consentire alle persone di esprimere, magari attraverso la distorsione delirante, i propri vissuti, ma di valorizzare adeguatamente il polo dialettico, garantendo al parlante quell’attenzione e quel rispetto che in molte circostanze non ha ricevuto nel suo ambiente di vita;
    • alternativa tra necessità di sedazione e sblocco espressivo: è ovvio che in alcune evenienze si richiede la sedazione di una persona agitata, ma anche qui si tratta, a mio parere, di trovare la forma più adeguata che contemperi la necessaria "fermezza" con il rispetto e lo stile "soft". Questo aspetto diventa ancora più importante, perché accanto alla sedazione appare utile valorizzare la polarità opposta: lo sblocco espressivo, tenuto conto della frequente tendenza dei pazienti al ripiegamento narcisistico.

Esistono altresì dei rischi di ripiegamento nella banalità routinaria che appiattiscono ogni prassi, trasformandola in atti tediosa-mente ripetitivi, che si possono così elencare:

    • la situazione caotica, in relazione al rapido afflusso di pazienti e una casistica così etero-genea, da impedire un progetto di lavoro sistematico, può condurre ad una subdola manicomializzazione del reparto;
    • la brevità della degenza, pur essendo utilissima in molte evenienze, si rivela controproducente in quelle situazioni che richiederebbero un periodo prolungato di terapia;
    • la mancanza di tempo, ossia lo scarto che spesso esiste tra le condizioni di lavoro ottimale e le esigenze contraddittorie del servizio, che ostacolano l’instaurazione di una vera continuità terapeutica;
    • l’iperdosaggio farmacologico, che potrebbe trasformare l’ambiente in una sorta di dormitorio in cui nulla si muove.

TIPOLOGIA DI UTENZA

La definizione tout court della tipologia di utenza che accede al SPDC non è un’operazione semplice.

Ho provato a individuare e raggruppare in categorie i pazienti e ne è risultata una sorta di classificazione empirica, che raggruppa elementi psicopatologici, istanze del contesto sociale e necessità degli operatori psichiatrici:

    1. Ricoveri improvvisi, imprevisti e imprevedibili, di pazienti nuovi per il servizio o di pazienti che il servizio territoriale non ha potuto agganciare in modo significativo. Essi spaziano tra le più varie patologie, dal tentato suicidio (T.S.), alla reazione psicogena, alla psicosi acuta, all’al-colismo acuto, alle anomalie del comportamento. Non sempre presentano una specificità psichia-trica e talvolta possono essere trasferiti ad altri reparti o rapidamente dimessi o passati in carico ad altre agenzie operanti sul territorio (Alcolisti Anonimi, servizi sociali, comunità di acco-glienza, ecc.). Altre volte richiedono un inter-vento psichiatrico e psicologico specifico, che può essere più o meno lungo anche nella fase di degenza.
    2. Alcuni casi presi in carico recentemente e indirizzati al SPDC dai servizi per necessità di cura intensive, per rischi notevoli se non si procede al ricovero o perché gli interventi operati all’esterno non danno esiti soddisfacenti, e, anzi, la situazione sembra peggiorare (agli operatori o ai familiari o allo stesso paziente). Talvolta capita, benché molto di rado, che l’invio al SPDC di situazioni gravi, ma di difficile comprensione, abbia anche una componente diagnostica.
    3. Ricoveri decisi dall’équipe del territorio che non sa più che fare ed è assillata da una presenza continua del paziente, sempre più incontenibile o provocatorio o minaccioso, ovvero da reiterati allarmi e proteste da parte dei familiari, vicini di casa, autorità, ecc..
    4. Ricoveri richiesti "una tantum" direttamente dal paziente psicotico, che si rivolge ai familiari o anche direttamente al SPDC (talvolta con modalità difficili da decifrare), esprimendo uno stato di malessere, una sensazione o un rischio di morte o di disgregazione, un vissuto di persecuzione, una stranezza angosciosa, ecc..
    5. Ricoveri di psicotici cronici da parte di famiglie che "non ce la fanno più" e "non ne vogliono più sapere", ed hanno ormai elaborato al proprio interno la necessità di collocare il paziente in un altro luogo. Al di là delle resistenze degli operatori del SPDC a questi fenomeni di espulsione (che rischiano di trasformarsi in degenze permanenti nel SPDC), si tratta di un problema estremamente serio cui si stanno trovando soluzioni nuove, realistiche e non di ripiego (predisposizione di progetti terapeutici/riabilitativi ad hoc da effettuare in strutture preventivamente contattate e verificate dal SPDC, ecc.).
    6. Degenze, "come in neurologia", di pazienti nevrotici o classificabili come depressi a vario titolo (escluse le depressioni maggiori) o affetti da disturbo del carattere. Tali degenze sono formate da una composita coorte di pazienti molto passivi, molto bisognosi e avidi di cure, magicamente dipendenti dai farmaci, tesi a ricavare benefici secondari di diverso genere, ed infine quelli con problemi sociali (niente soldi, niente casa, ecc.), risolti momentaneamente con un ricovero.
    7. Degenze di pazienti già noti, i quali presentano ricadute più o meno gravi e ricorrono al SPDC dopo essere ricorsi ai servizi territoriali anche direttamente. Il fenomeno del revolving door (della porta girevole) rappresenta la versione estrema di questi rientri, che in una certa misura sono necessari e fisiologici.

Nel SPDC possono essere ospitati fino a 19 pazienti, con la possibilità di aggiungere due letti "volanti" nei casi di ricoveri d’urgenza/emergenza.

I pazienti ricoverati sono disomogenei per situazioni psicopatologiche, per estrazione socio-culturale, per età e per sesso.

L’età dei pazienti, pur essendo molto variabile (da 18 a 80 anni), vede una maggiore percentuale di ricoveri tra i 30 e i 50 anni.

Qui di seguito fornirò un elenco delle principali categorie diagnostiche presenti in SPDC:

    • schizofrenia;
    • disturbo schizoaffettivo;
    • disturbo delirante acuto;
    • psicosi reattiva breve;
    • demenza;
    • disturbi dell’umore;
    • depressione maggiore.

Per una comprensione più approfondita di tali categorie, si rimanda al glossario.

Al momento della dimissione i pazienti saranno accolti dai familiari o da strutture specifiche quali CPS, CRT, ecc., a seconda delle condizioni.

I VOLONTARI

Nel campo della salute mentale, la presenza del volontariato è ormai diventata una questione centrale. Dalle associazioni degli utenti e dei familiari si è passati, nell’ultimo decennio, alla nascita di gruppi di cittadini che liberamente hanno deciso di dedicare una parte del proprio tempo libero al campo della riabilitazione, a quello del counselling, a quello della battaglia contro lo stigma.

Le ultime direttive dell’OMS invitano gli operatori della salute mentale a cooperare con il mondo del volontariato, con quella parte della società civile che si colloca in mezzo all’intervento pubblico e privato, ma senza sovrapporsi ad essi.

Attualmente in SPDC sono attive collaborazioni con i seguenti gruppi di volontariato:

    • Associazione pro-ammalati "F. Vozza";
    • Associazione Psiche Lombardia;
    • Progetto Itaca.

Dal 1996 è stata attivata una collaborazione con l’Associazione "F. Vozza", che consente di usufruire dei seguenti servizi:

    1. presenza di volontari: si è protratta per un anno e alla fine, per impegni straordinari degli stessi, questo tipo di collaborazione è stata interrotta;
    2. pubblicazione, sul loro notiziario interno, di qualche articolo in relazione al SPDC e ad alcuni percorsi riabilitativi;
    3. fornitura di materiali e indumenti per il reparto, per la riabilitazione e per i pazienti meno abbienti.

La collaborazione con l’Associazione Psiche Lombardia risale al 2003 e si caratterizza per il counselling per i familiari.

L’Associazione Progetto Itaca opera per la costruzione di un "ponte" tra i familiari, i pazienti, il SPDC e il territorio.

Tutti i volontari impegnati in SPDC sono stati formati attraverso corsi interni alle loro organizzazioni, di breve/media durata, e da colloqui per alcune informazioni teorico/pratiche circa la realtà del SPDC, a cura del responsabile del SPDC.

Con tutti loro esiste una collaborazione fattiva che si attua in incontri periodici e nella partecipazione ai momenti corali del SPDC (feste di compleanno, Natale, Pasqua, ecc.), oltre che per la presa in carico dei singoli pazienti.

Il loro "stare" in SPDC si definiva di volta in volta, secondo i tempi e le modalità che le persone si davano.

Attualmente il numero dei volontari coinvolti è di 3 donne (fra Psiche Lombardia e Progetto Itaca), in età compresa tra i 26 e i 55 anni. Le loro professioni variano e il loro livello culturale è medio.

I volontari coinvolti dedicano alle attività svolte in SPDC 4 ore pro-capite.

Tutti i volontari impegnati hanno già maturato precedenti esperienze di volontariato.

La risorsa dei volontari si è rivelata un’opportunità per pro-muovere una cultura dell’accoglienza, della solidarietà concreta e del superamento della paura e dello stigma. "…Il volontario incarna un concetto profondamente importante, ovvero che un buon cittadino di una società davvero civile (decent) ha una responsabilità personale nel servire i bisogni altrui. Il concetto è semplice, universale e senza tempo, e in questo sta la distinzione tra una società brutale e una società responsabile e che si sa prendere cura (caring society)…".

GLI SPAZI, I TEMPI, LE MODALITÀ DI ACCESSO

La partecipazione all’atelier di arte terapia è spontanea e volontaria.

Lo spazio utilizzato è il soggiorno/sala da pranzo, ubicato in fondo al corridoio dopo le stanze dei pazienti e in prossimità di uno degli ingressi d’accesso al SPDC. La porta è sempre aperta, in modo tale che chiunque possa entrare, anche solo per un breve saluto.

Si tratta di uno spazio grande (6m x 7m), dotato di:

    • un televisore con un video-registratore;
    • tre divani a tre posti;
    • sei tavoli + diciannove sedie;
    • due armadi biblioteca/videoteca, contenenti anche i materiali usati per le attività dell’atelier.

Va segnalato che questo spazio è anche il luogo dove i pazienti possono fumare (secondo le norme vigenti), sostare e incontrare i loro familiari o creare momenti di conversazione con operatori e volontari.

L’utilizzo della sala non è scandito da orari precisi, mentre la partecipazione all’atelier di arte terapia è fissato nei giorni di giovedì e venerdì, dalle 14 alle 16.

Sicuramente un elemento positivo è la possibilità per chiunque di entrare con facilità.

La sala offre un’ospitalità, un luogo per vivere e per viversi "lontani" dalla corsia del reparto: un luogo dove il tempo è in larga parte attivato dal soggetto stesso.

Nel campo della salute mentale lo spazio (e con esso il tempo e l’accesso) viene definito setting. Esso rappresenta l’ambiente al cui interno il processo comunicazionale può definirsi e fluire. Pur essendo l’atelier in un luogo "aperto", in realtà è inscritto in un setting ben definito (il SPDC), governato da regole scritte e non scritte che definiscono i ruoli e compiti dei vari attori, stabilendo inoltre le cose che possono essere fatte e quelle vietate, le cose che possono essere dette e quelle da non dire.

La possibilità di "inscrivere" un setting, qual è l’atelier di arte terapia all’interno di una sala soggiorno di un SPDC, rappresenta una grande sfida sul piano riabilitativo, poiché offre la possibilità di costruire una relazione umana diversa da ogni altra esistente all’interno del reparto.

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

L’atelier di arte terapia rientra nel progetto delle attività riabilitative/terapeutiche attivato sin dal 1996.

Sul piano organizzativo esso afferisce al Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura.

Lo stesso SPDC e il Day-Hospital afferiscono al Dipartimento di Salute Mentale, con responsabile il dr. Claudio Mencacci e, attualmente, come vice, il dr. Federico Durbano. L’elemento che caratterizza l’atelier di arte terapia è rappresentato dalla possibilità di fruizione, anche da parte dei pazienti che usufruiscono di trattamenti in Day-Hospital.

3.2. RETI DI SERVIZI

Di seguito verrà presentato uno schema che illustra il lavoro di rete esistente tra i diversi servizi e reparti, all’interno e all’esterno del Dipartimento Salute Mentale.

Rete interna

Le realtà con cui il SPDC è collegato sono: Centro Idea per la cura della depressione e dell’ansia, Day-Hospital, Centro Litio, reparto di medicina e di cardiologia, pronto soccorso, laboratorio analisi medicina nucleare, guardaroba, mensa, centro di psico-oncologia, ufficio personale, servizi generali, CPS Zona 3, 4, 6, 19, territoriali.

Gli utenti accedono al Centro Idea dal lunedì al venerdì dalle 9,30 alle 12,30 e dalle 13,30 alle 16,30, previo appuntamento. All’interno operano una psicologa, due psichiatri, un neurologo e una segretaria.

Il Centro Idea svolge attività di prevenzione e cura dei disturbi dell’ansia e della depressione ed è situato al piano sottostante il SPDC.

Il Day-Hospital funziona dal lunedì al venerdì dalle 9,00 alle 12,30 e dalle 13,30 alle 16,00, previo appuntamento, ed è situato sullo stesso piano del SPDC, nell’area dove si trovano anche gli studi medici. All’interno operano tre psichiatri, una psicologa e un educatore professionale, che forniscono prestazioni diagnostiche e terapeutico/riabilitative a breve termine e in un ambito di assistenza semiresidenziale.

Il Centro Litio svolge, da oltre 15 anni, un’attività di cura e monitoraggio dei disturbi dell’umore e della somministrazione dei sali di litio e dei relativi prelievi ematici, a scansione settimanale. Le prestazioni vengono effettuate dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 11, all’interno dei locali del Day-Hospital.

I reparti di medicina e cardiologia, che si trovano al primo piano e al pianterreno, sono quelli con i quali il SPDC è maggiormente in contatto, soprattutto per il trattamento di pazienti che presentano condizioni non di pertinenza specificatamente psichiatrica (nella maggior parte dei casi si tratta di pazienti anziani, che presentano gravi condizioni di deterioramento fisico/internistico).

Il laboratorio analisi di medicina nucleare viene utilizzato per i prelievi cosiddetti di routine (valori ematici) e alcune volte per esami specifici; è situato al pianterreno.

Generalmente per tutti i pazienti che accedono al SPDC vengono prescritti gli esami di routine, anche in relazione all’impostazione di una terapia farmacologica adeguata.

La mensa e il guardaroba sono servizi cosiddetti generali (o periferici dal punto di vista della sociologia dell’organizzazione), ai quali il SPDC accede anche in situazioni di emergenza (diete particolari, biancheria ad hoc, ecc.). Entrambi i locali sono collocati all’esterno dello stabile che ospita il SPDC.

Il Pronto Soccorso Psichiatrico, situato negli stessi locali del Pronto Soccorso generale, è costituito da una stanza dotata di un PC, un tavolo e due sedie per le visite psichiatriche, sia in regime volontario che in trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

Il Centro di Psico-Oncologia si trova negli spazi che ospitano gli studi medici. Gli psicologi ricevono previo appuntamento dal lunedì al venerdì dalle 9,00 alle 12,00 e dalle 13,30 alle 16,00.

Per servizi generali si intendono gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria degli elettricisti, ecc. che vengono contattati per le riparazioni da effettuare nel SPDC.

L’Ufficio Economato è interessato per quanto riguarda l’erogazione del fondo economico per la riabilitazione.

Rete esterna

Nel corso del mio tirocinio ho potuto constatare che il SPDC ha adeguate connessioni in rete con gli altri servizi del DSM e al di fuori del territorio cittadino.

Di seguito vengono evidenziate alcune ragioni che ne hanno contraddistinto lo sviluppo:

    • consolidata "storia" di progettualità comuni e condivisioni culturali;
    • monitoraggio e follow up;
    • gestione coordinata dei casi di pazienti presi in carico dai servizi territoriali.

Lo schema disegna le connessioni fin qui effettuate:

    • I quattro CPS che afferiscono al SPDC. Una volta ogni 15 giorni due psichiatri del reparto incontrano le équipes del territorio, per il monitorag-gio sui casi dei pazienti già noti al CPS e sui quali esiste (o si intende avviare) un progetto ad hoc.

    • Strutture residenziali socio assistenziali in Lombardia ed extra-regionali, comunità terapeutiche protette. In presenza di pazienti senza figure familiari significative e in condizioni psicopatologiche, tali per cui non sono in grado di vivere in completa autonomia, si dispone un trasferimento programmato, in collaborazione con i servizi territoriali.

    • "Il Laboratorio". Si tratta di una struttura riabilitativa protetta, cui accedono pazienti che mantengono un buon livello di funzionamento sociale. I pazienti che partecipano a tale programma riabilitativo vengono avviati ad un tirocinio protetto di servizio di catering e di preparazione dei pasti.

    • Progetto Itaca. Si tratta di un’Associazione di volontariato attiva nel campo della prevenzione e dell’assistenza della salute mentale. Svolge programmi di sensibilizzazione e partecipa a campagne contro lo stigma. Da quasi un anno è anche presente in reparto, con alcuni volontari. L’Associazione partecipa inoltre ad alcuni percorsi riabilitativi ad hoc per alcuni pazienti, e in collaborazione con i servizi territoriali.

    • Psiche Lombardia. È un’Associazione che si occupa di counselling per le famiglie e per i pazienti. Promuove incontri di informazione e di sensibilizzazione sulla salute mentale e contro lo stigma. L’Associazione è attiva nel sostenere le famiglie dei pazienti sia durante la fase acuta (ricovero in SPDC) che dopo la dimissione, oltre che nell’orientare sui servizi territoriali.

    • Medicina generale. Il riferimento è ai medici di base che inviano i pazienti all’esordio della malattia, previo contatto con il SPDC. Da molti anni alcuni medici di base effettuano tirocini formativi all’interno del SPDC, in collaborazione con i servizi territoriali.


3.3. L’EDUCATORE E IL LAVORO DI RETE

L’educatore professionale è un operatore che, in base ad una specifica formazione professionale di carattere teorico e tecnico-pratico e nell’ambito di servizi socio-assistenziali e riabilitativi, residenziali o no, svolge la propria attività con persone che presentano diverse patologie psichiatriche, mediante la formulazione e l’attua-zione di progetti riabilitativi caratterizzati da intenzionalità e continuità, volti a promuovere e contribuire al pieno sviluppo delle potenzialità di crescita personale, inserimento e partecipazione sociale dell’utente; a tal fine l’educatore agisce sulle dinamiche di gruppo, sulle relazioni interpersonali, sul sistema familiare, sul contesto ambientale e sull’organizzazione dei servizi.

Il rapporto educatore-utente è l’evento da privilegiare nei progetti sul disagio, instaurando una relazione frequente e duratura nel tempo.

L’educatore, avendo come obiettivo principale la realizzazione di interventi personalizzati, deve sempre considerare la famiglia d’origine, gli eventuali colleghi di lavoro, gli amici, ecc.: in altre parole la rete all’interno della quale queste relazioni si estrinsecano.

Il termine "rete" si è diffuso da una quarantina d’anni nel campo degli studi sulle relazioni umane e la struttura sociale, nella ricerca sociologica e antropologica, nelle terapie di intervento psico-sociale che si rifanno alla corrente eco-sistemica.

Il termine "rete" afferisce sia all’esperienza del singolo soggetto che alla totalità dei membri della rete e viene usato sia come chiave di lettura di una specifica realtà, che come modo di organizzarla.

Per networking si intende un processo finalizzato, tendente a legare fra loro tre o più persone, tramite connessioni e catene di significative relazioni interpersonali; è qualcosa che ci appartiene fin dall’inizio della storia dell’umanità, anche se solo recentemente si è iniziato a considerarlo come specifico oggetto di indagine, nonché utile ad individuare strategie operative (nell’ambito dei servizi sociali e sanitari, del lavoro di comunità, ecc.), in cui l’azione sui network è prevista.

Realizzare un lavoro di rete non è, comunque, semplice. Tra le difficoltà del lavoro di rete vanno segnalate:

    • riluttanza degli utenti a coinvolgere parenti e amici nel risolvere i problemi;
    • visione settoriale dei servizi e interventi sociali;
    • alcune rigidità normative e istituzionali;
    • varietà dei servizi a fronte di problemi complessi;
    • mancanza di un follow-up;
    • diffidenza e carenza di fiducia tra operatori e utenti;
    • rischio di idealizzazione del lavoro di rete.

La rete non ha effetti magici, ma è un’opzione possibile che sorregge l’operatività.

Essa non è il semplice aggregarsi di varie agenzie sociali e terapeutiche distinte (come la famiglia, la scuola, il lavoro, gli amici, il gruppo di appartenenza, l’équipe curante, ecc.), ma è un campo complessivo in cui tutti, pazienti e operatori, istituzione e individuo, si trovano immersi.

Generalmente si distingue un sistema di sostegno informale, che comprende i gruppi primari di appartenenza come la famiglia e le aggregazioni spontanee di varia natura (gli amici, i compagni di lavoro, ecc.), dal sistema di sostegno formale, che è invece rappresentato dalla struttura istituzionale, dai professionisti che operano in contesti di cura e di riabilitazione, cioè da persone deputate a svolgere un ruolo.

È dall’interazione di questi tipi di sistemi (anche se non sempre sono integrati tra loro) che si origina il sostegno sociale, necessario a diminuire la vulnerabilità, rafforzando le capacità di reazione allo stress.

La rete sociale si articola su differenti tipi di scambio (sia materiale che emotivo), che concorrono a estenderla e ad arricchirla, aprendo ogni volta nuove vie di comunicazione.

Una rete sociale ricca di scambi, ampia e chiaramente articolata nella comunicazione, aiuta a muoversi in maniera sufficientemente elastica nel gioco del coinvolgimento emotivo e aiuta a modulare la distanza dalle cose e dalle persone.

Usando una metafora artistica, è come se la rete sociale fornisse il profilo di un disegno stilizzato, che poi ognuno di noi riempie di colori diversi, secondo il proprio stile e le proprie inclinazioni.

Il lavoro di rete interessa una molteplicità di dimensioni (il singolo individuo, i gruppi, l’intervento sociale, ecc.). Ciò che ho riscontrato all’interno del SPDC è stata la costruzione di ancoraggi alle reti di aiuto (auto e mutuo).

Le relazioni e il sistema dei rapporti (volontari, pazienti, infermieri, psichiatri) hanno contribuito alla messa a punto di strategie di comunicazione e di condivisione, che hanno richiesto un continuo monitoraggio e riposizionamento.

Credo, inoltre, che l’atelier di arte terapia abbia fornito, e fornirà, utili contributi ad una maggiore comprensione delle possibili con-nessioni tra interno ed esterno, tra il paziente, l’educatore, i familiari e il SPDC, tra un mondo "altro" (troppo spesso demonizzato sia dagli operatori sociali che da alcuni familiari), il contesto sociale del pa-ziente e i servizi territoriali.

La finalità dell’atelier di arte terapia era quella di andare oltre la tradizionale presa in carico. Le azioni effettuate sono state orientate per e con l’utente.

Le relazioni interpersonali che si sono sviluppate tra i volontari e i pazienti sono state declinate all’interno di un processo mirato alla crescita personale.

Il lavoro sociale di rete non presuppone una mera fornitura di un servizio, ma si finalizza ad aiutare una persona dotata di una sua unicità e inserita in modo unico in un flusso di relazioni. È necessario che i problemi non siano più visti, interpretati o letti come problemi del singolo o come singoli casi da analizzare e curare: l’analisi deve necessariamente spostarsi su una comprensione più ampia e diver-sificata.

Il mio percorso ha rappresentato la riprova che i servizi sono fatti da persone, da visi, da scambi relazionali che vanno al di là dei formalismi burocratici (cartelle cliniche, diagnosi, ecc.).

Senza voler considerare i servizi come unità ad personam, sono gli operatori che in un servizio lavorano che contribuiscono a tessere le trame necessarie per la costruzione di una rete adeguata e ottimale.

3.4. OSSERVAZIONI PERSONALI

L’esperienza all’interno del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, è stata nel suo complesso positiva.

Considerarsi in una continua situazione di "formazione permanente" ha fatto sì che il mio approccio e il mio sentire siano stati sempre attivi e partecipanti.

Ho dovuto anche fare i conti con la mia storia professionale, con le mie resistenze e con i miei dubbi.

Dovevo esserci e giocarmi in un ruolo di nuovo. Non potevo nascondermi solo dietro il mio senso di responsabilità (rispetto delle consegne, delle regole del reparto, degli orari, ecc.), ma ho dovuto investire in termini più ampi, per rendere reale e concreta l’esperienza.

Questo ha significato ridiscutere il mio ruolo e i miei con-vincimenti.

Gli altri, io, l’altro da me, il "diverso": tante immagini di me in relazione a molteplici aspetti di vite vissute.

Nonostante il sostegno di colleghi e amici sentivo il bisogno di esperienziare tutto ciò che si muoveva nell’animo e nel cuore, con la consapevolezza che le "cose" sarebbero comunque accadute ed io avevo l’opportunità di mettere in campo competenze, attitudini, capacità ed eventuali difficoltà.

Ho avuto la possibilità di vedere e leggere la dimensione della follia da diversi punti di vista: metodologico, educativo, relazionale, artistico e organizzativo.

Ho sempre bisogno di trasformare in pratica quotidiana ciò che sviluppo teoricamente: ho bisogno di toccare con mano le idee e i ragionamenti.

 

LA RELAZIONE CON GLI UTENTI

La possibilità di cercare e inventare canali di comunicazione si è sviluppata senza che io ne avessi immaginato in precedenza uno schema.

Sapevo per esperienza che lavorare con il disagio psichico significava fare i conti con la propria onnipotenza e devo riconoscere che molti input mi sono arrivati dalla relazione stessa.

Ho avuto la possibilità di instaurare alcune relazioni "prefe-renziali" (ho scelto io, sono stato prescelto, ci siamo scelti), dove la follia era passata decisamente in secondo piano e dove la ricerca dell’altro e del contatto rappresentavano gli aspetti più importanti: due persone che si incontrano e che provano a parlarsi, a divertirsi, a stare insieme in silenzio e ad avere (anche) opinioni diverse.

Qui di seguito fornirò alcune immagini su alcuni pazienti, che in qualche modo sono stati significativi.

Durante il primo incontro F. si dimostrava ostile a qualsiasi tentativo di approccio. Rimase a lungo inattiva, osservando i compagni in un atteggiamento distaccato. Gradualmente si mise a giocare con i materiali, poi si decise a disegnare. Il segno era sicuro e preciso e il tempo dell’incontro non fu sufficiente per completare il disegno. Chiese gentilmente che il suo disegno fosse conservato con riguardo per l’incontro successivo.

Al secondo incontro, non appena ebbi predisposto i tavoli di lavoro, la paziente osservò la sua produzione con attenzione, senza toccarla, e poi mi chiamò vicino a sé.

Dopo avermi chiesto dei suggerimenti su come proseguire (aveva iniziato a disegnare il mare e il sole), si lasciò andare a tracciare movimenti molto liberi e sciolti.

La scelta dei colori era immediata e, mentre la mano evolveva sul foglio, l’espressione della paziente era serena e concentrata.

Al termine del lavoro, dopo aver osservato quello che aveva fatto, ci fu un momento di perplessità divertita. Era soddisfatta per il senso di piacere provato mentre disegnava.

Qualche giorno dopo la paziente fu dimessa e mi lasciò il suo disegno come ricordo di un’esperienza di trasformazione. Si era fermata in SPDC 9 giorni.

M., al primo impatto, era proprio una maschera grandiosa, almeno all’apparenza. Alto circa 1,80 cm., spalle ampie, capelli corti e scarsamente lavati, collo taurino … non ispirava sicurezza, a prima vista.

Io l’avevo già approcciato qualche giorno prima e stavo tentando di entrare nel suo isolamento simil autistico nel quale si era rifugiato nei tempi, in preda ai sui deliri e alle sue allucinazioni.

Sul delirio G. Benedetti si esprime così "…il delirio è un’esperienza particolare della realtà che si discosta da quella generalmente umana, che difficilmente se ne lascia influenzare e nella quale le possibilità esistenziali si atrofizzano, sia che il malato soffra atrocemente nel delirio, sia che in esso si limiti a recitare come una maschera grandiosa…".

Ero riuscito a stabilire con lui un contatto e con il passar del tempo ebbi l’opportunità di rimettere in discussione la mia apprensione per lui.

Questo paziente era solito stazionare seduto su una sedia in bagno, oppure sdraiato su una poltrona in soggiorno, con l’aria cupa e misteriosa. Il suo delirio non aveva nulla di pericoloso.

Il suo psichiatra mi aveva sollecitato a stimolarlo cautamente a partecipare all’attività di disegno.

Qualcosa cambiò allorché, una volta ancora, lo stavo osservando mentre se ne stava sdraiato, offrendogli la possibilità di disegnare. Si mise a dipingere senza parlare per almeno 15 minuti.

Quel giorno, dopo aver riordinato lo spazio, mi avvicinai a M. e tentai di comunicargli ciò che pensavo.

Era tranquillo e non sembrava attento a ciò che dicevo, ma perlomeno mi concedeva spazio. Così parlai della mia difficoltà a capire che cosa potesse effettivamente essere giusto fare, che non l’avrei escluso dall’attività ma che non mi era possibile non occuparmi anche degli altri. Dissi che lui stesso mi facesse, in qualche modo, capire di cosa potesse avere bisogno quando era nell’atelier.

Non intendevo dirgli che facesse a meno del suo delirio e delle sue allucinazioni, ma che mi sarebbe piaciuto comprendere da dove provenivano le "voci" che sentiva. Non avevo timore accanto a lui, si stava manifestando il desiderio di fare accadere qualcosa: non c’è niente di meglio di un paziente delirante per innescare il senso di onnipotenza. M. sembrava talmente malmesso che qualsiasi cosa sarebbe accaduta mi sentivo al di sopra. Chi sragiona ti fa, a volte, venir meno l’applicazione del ragionamento. Mi accorsi di parlare molto lentamente, pensandomi intrappolato in una storia senza agganci.

Dopo 20 giorni M. era stato dimesso: ero dispiaciuto e alleggerito.

A. non stava mai fermo e non smetteva mai di parlare. La sua voce era sgraziata e i suoi modi piuttosto bruschi. Era fisicamente un bell’uomo e aveva un viso piacente.

I suoi argomenti erano prevalentemente appartenenti alla sfera affettiva. Sembrava trascinare il tormento del suo fallimento esistenziale/emotivo.

Paziente borderline dotato di capacità espressive, oltre che con le parole, con ogni tipo di materiale creativo; quando era nell’atelier travolgeva tutti con la sua immediatezza relazionale e con la sua irrequietezza.

Iniziava diversi lavori contemporaneamente, non concludendone nessuno. Dimostrava un gran bisogno di fare senza mai provare soddisfazione perché, se a volte si dichiarava soddisfatto, trasformava, distruggeva pressoché immedia-tamente tutto.

Una volta fu così pesantemente redarguito da un’altra paziente che lasciò il gruppo, andandosi a sedere su una poltrona non molto distante dal tavolo di lavoro.

Mentre cercavo di "contenere" A. facendolo sfogare, cercavo di mantenere l’equilibrio sia del gruppo che di A. Non dissi nulla di particolare, accoglievo l’imprevisto insieme agli altri. La situazione aveva creato una coesione di gruppo intensa … A. fu dimesso meno irrequieto e più pronto ad affrontare il mondo fuori dal SPDC.

Irrequieto, depresso, F. voleva seguirmi nell’atelier. Si era subito difeso dicendo che non era capace di fare niente.

Appena giunti nel nostro luogo mi disse che non sapeva perché si trovava in SPDC; nonostante fossi abituato a sentire risposte di questo tipo, impiegai un po’ di tempo a superare l’ostacolo dell’assenza di coscienza di malattia e il rifiuto del ricovero.

Gli suggerii di disegnare la sua casa: il tratto era geometrico e simmetrico e l’uso del colore molto scarso.

Nell’incontro successivo F. chiese di poter costruire dei fiori di carta crespa e mi chiese di diventare amici raccontandomi di sé, delle sue solitudini, dei suoi desideri.

Fu trasferito in una comunità fuori Milano e credo (o forse mi illudo) che si sia portato con sé una maggior fiducia.

F. era di temperamento allegro e quasi sempre sorridente; quando non era così, bastava poco per fare ritornare sul suo viso un’espressione teneramente comunicativa.

Appena arrivavo mi raggiungeva pronta per dipingere, colorare e disegnare.

Nell’atelier disegnava con piacere comunicativo; era spesso di ottimo stimolo per i nuovi arrivati. I suoi elaborati erano fantasiosi e carichi di colori vivaci. La maggior parte dei pazienti dimostrava simpatia nei suoi confronti e con la sua presenza il clima era festoso e allegro.

Ogni tanto diventava improvvisamente silenziosa e non rispondeva più alle comunicazioni dei compagni; era concentrata sul suo lavoro e dimostrava chiaramente di non volere essere disturbata. Con rispetto la lasciavamo tranquilla; mentre con discrezione la osservavo lavorare, notavo nei suoi movimenti, nei suoi tratti segnici, una maggiore sensualità, come un abbandono ad una sensazione piacevole.

Tutto il suo corpo sembrava morbido e così anche il suo modo di disegnare. Potevamo far parte di ciò che lei ci dava, ma non ci era concesso andare oltre. Come diceva lei, disegnare le piaceva molto e l’aiutava …

M., gravemente depressa, è sdraiata nel suo letto. Durante il consueto briefing mattutino lo psichiatra aveva parlato di lei, chiedendomi di invogliarla a partecipare. Nel pomeriggio M. acconsentì a seguirmi nell’atelier e, senza dire una parola, si installò al tavolo scegliendo foglio e matite colorate.

Non guardava nessuno, guardava il foglio senza reazione.

I suoi movimenti erano lenti e precisi e i colori prediletti erano il nero e il grigio scuro. Il suo stare in atelier era quasi immobile e apparentemente distaccato, quasi fosse trascinata verso altri luoghi e altri pensieri.

Io ero lì con il mio disagio sul da farsi e forse non dovevo far nulla, ma solo esserci.

V. era una giovane paziente, vivace, di bell’aspetto e fatua. Si era aggrappata agli incontri bisettimanali di arte terapia, quasi fossero l’unica ancora di salvezza. Mi cercava sempre: sia in atelier che in SPDC. La sua ricerca proseguiva anche nei giorni in cui non ero presente in reparto.

V. rimase ricoverata per quasi un mese e, quando fu dimessa, fu pronta per riaffrontare la vita. Era la prima volta che la vedevo in reparto e mi sentivo molto responsabilizzato dal ruolo che V. mi aveva attribuito, stabilendo con me una relazione privilegiata e significativa.

Usava tutti i colori e le tecniche, muovendosi con piacere tra segni e disegni. Alcuni incontri V. li ha trascorsi a costruire un grande puzzle affollato di personaggi famosi, scritte, preghiere, dediche, pensieri. Socializzava solo con alcuni pazienti, scegliendoli con cura.

La presenza in atelier le alleggeriva il peso dello stare in reparto, all’interno di un contesto con regole precise e determinate. Spesso chiedeva che le lasciassi i colori, anche quando l’attività era terminata.

Mi illudo sempre che questi incontri possano lasciare segni, nelle esistenze difficili e complesse di chi si trova a "passare" in reparto.

 

LA RELAZIONE CON GLI OPERATORI

Nell’analisi della relazione con gli operatori del SPDC inizierò dal dr. Marco Riva (Responsabile delle attività terapeutico/ria-bilitative). Oltre ad avere stabilito una relazione professionale ricca di stimoli, feedback e riflessioni comuni, c’è stata anche la possibilità di costruire una relazione umana dove poter "depositare" dubbi, ragionamenti e perplessità.

Il mio primo periodo è stato caratterizzato da una dimensione oscillante tra l’osservazione e una cauta e prudente operatività.

La seconda fase ha visto un mio coinvolgimento più diretto (relazione con i volontari, con gli infermieri, ecc.).

Gli altri operatori con i quali ho avuto la possibilità di lavorare e confrontarmi sono stati gli infermieri professionali, generici e psichiatrici.

Alcuni hanno dimostrato di avere competenze relazionali così significative, che a volte mi sentivo inadeguato. Alcuni hanno lavorato nel grande manicomio e hanno vissuto tutti i complessi cambiamenti e le difficili trasformazioni che hanno attraversato quest’ultimo ventennio.

Durante gli incontri di arte terapia, almeno un infermiere per squadra ha partecipato all’atelier, rimanendo accanto ai pazienti con sollecitudine e coerenza.

Gli psichiatri presenti in SPDC si sono fatti portavoce con i pazienti e stimolo per gli infermieri.

Credo che non si possa prescindere dal cercare di stabilire relazioni professionali sinergiche con tutti gli operatori presenti in reparto, in special modo con gli infermieri che hanno la possibilità di stare con i pazienti per molte ore.

Gli infermieri, proprio per il ruolo che ricoprono, possono offrire un altro punto di vista sull’evoluzione psicopatologica del paziente e su eventuali bisogni o desideri.

Una nuova cultura della presa in carico del paziente in SPDC dovrà tener conto anche di una dimensione riabilitativa, terapeu-tica ed educativa di cui l’educatore (o l’arte terapeuta) è portatore.

Tutti gli incontri sono stati caratterizzati da buone capacità di accoglienza, di ascolto e da scambi relazionali adeguati sul piano affettivo. Lo stare insieme si definiva di volta in volta secondo le modalità che il gruppo (e le persone individualmente all’interno di esso) si dava.

I processi che hanno caratterizzato le relazioni hanno tenuto in considerazione la tendenza ad imparare circa l’incertezza, il disagio e l’ansia connessi sia con il luogo, sia con i pazienti, sia con la follia. Ho cercato di pormi l’obiettivo di capire chi fosse l’altro, piuttosto che valutare le capacità possedute o quelle di cui mancava.

In psichiatria, ancor più che altrove, credo sia importante "dimettere" la propria visione del mondo per lasciar spazio, dentro di noi, alla visione dell’altro: il silenzio, il linguaggio del corpo, il linguaggio delle parole, dei gesti, dei volti e degli sguardi.

3.5. LA MIA ESPERIENZA NELL’ATELIER DI ARTE TERAPIA

Al mio arrivo la stanza prevista per l’atelier di arte terapia è "occupata" da alcuni pazienti: alcuni leggono una rivista, alcuni sono sdraiati su un divano, altri fumano. Lo spazio adibito ad atelier è un luogo multiuso: sala da pranzo, sala lettura, sala ricevimento familiari, sala per fumatori.

Due giovani pazienti mi stanno aspettando: indosso il mio camice arancione, che tanto scalpore ha suscitato tra gli infermieri, e apro l’armadio, iniziando a poggiare sul tavolo il materiale necessario per l’attività.

Apro i finestroni in alto per far cambiare aria, accendo lo stereo e le note di alcuni Notturni di Chopin si diffondono nell’aria. Recupero un po’ di ordine di base per concedere maggior tempo possibile ai pazienti, altrimenti ne rimane pochissimo per il riordino.

Solitamente riesco a delegare il riordino dello spazio alla signora delle pulizie, che fa in modo che l’ambiente sia accogliente e pulito.

Questo setting, pur non rispettando i criteri che la letteratura assegna ad un atelier di arte terapia, è sufficientemente riconoscibile come luogo altro. La transitorietà del luogo e dei soggetti ivi presenti sono l’elemento che connotano questo setting come dinamico e flessibile.

Dalle 14 alle ore 16 il soggiorno del SPDC si trasforma in un atelier di arte terapia, con tutto il suo carico di colori e suoni.

Il grande e colorato cartello appeso in soggiorno comunica a tutti i pazienti che il giovedì e il venerdì c’è la possibilità di avvicinarsi al mondo dell’arte.

Alcuni disegni appesi alle pareti testimoniano l’esistenza di una storia artistico-pittorica all’interno del SPDC.

L’INVITO

Quando mi avvio nell’atelier, i pazienti sono già lì impegnati a leggere una rivista, a fumare, a guardare fuori dalle finestre chiuse o assorti nei loro pensieri. Non avverto tensione e mi avvicino ai pazienti e allo spazio con la necessaria prudenza, facendo attenzione a non essere intrusivo, ma propositivo.

Gli infermieri si "affacciano" nell’atelier e alcuni sostano, tentando di relazionarsi con i pazienti. Non credo che il personale sanitario sia ostile a questo tipo di intervento riabilitativo o ad altri, ma credo che non ci sia ancora una cultura della riabilitazione all’interno del SPDC.

"…Nessuna organizzazione del lavoro, e tanto meno quella che abbia finalità terapeutiche, può prescindere dalla soggettività del personale impiegato. Dovrebbe pertanto garantire spazio e tempo (non virtuali) necessari per consentire l’affiorare del dubbio, dell’incertezza, della contraddizione, dell’interrogativo perturbante, e favorire una loro comunicazione, cioè una socializzazione, una ricomposizione e una trasformazione attraverso una lettura consapevole della realtà "sperimentata". Il gruppo di lavoro può e deve assumere una funzione formativa di base, costituendosi come contenitore che dà forma ad un continuo processo di formazione, attraverso l’apprendere ad apprendere dall’esperienza…".

Non è mio compito approfondire l’argomento della formazione del personale, ma è mio compito contenere le comunicazioni che vengono riferite dai pazienti, quando scoprono un canale rassicurante per poterlo fare. Quando le rivelazioni

sono verificate di persona, diventa doveroso deplorare quella carenza di sicurezza.

"…Il senso, la misura della sofferenza che c’è in noi e la sua modificabilità terapeutica non dipendono solo da farmacoterapie e da psicoterapie rigorose e dialettiche, ma anche dai modi e dai luoghi in cui si è assistiti e curati… C’è la violenza dell’indifferenza e quella del rifiuto dialogico: non si ascoltano i pazienti, non si analizzano i modi di essere dell’angoscia … non si tiene conto del senso e del valore delle parole che possono attenuare una sofferenza … Non si rispetta la dignità del paziente, che è così facilmente frantumabile dalla fretta e dall’impazienza…".

Questo accade prevalentemente per mancanza di strumenti e di preparazione. Il personale impreparato non sa e non può gestire un clima così diverso da altri contesti ospedalieri.

Per far valere il mio ruolo di educatore/arte terapeuta e non essere considerato come qualcuno che "fa fare i disegnini" ai pazienti, è stato necessario un po’ di tempo.

Credo che i pazienti stessi siano stati degli ottimi referenti nei confronti di un’attività per la quale permangono, purtroppo, dei fraintendimenti.

Non viene fatta una selezione dei pazienti da invitare a partecipare, ma le stesse persone ricoverate si avvicinano spontaneamente al tavolo da lavoro.

Invogliare i pazienti a vivere un’esperienza nuova è già di per sé un’azione che richiede arte. Non è difficile immaginare quanto possa essere disagevole far credere in qualcosa di piacevole e colorato, quando l’arte terapeuta (o l’educatore), pur con il suo singolare e incuriosente camice arancione, deve suscitare creatività in pazienti costretti a stare in un reparto chiuso a chiave e "guardati a vista" (sarebbe interessante affrontare il senso della vista sul piano epistemologico. Questo tema attraversa tutta la psichiatria e l’arte terapia, nonché la riabilitazione).

Bisogna saper comprendere se è il caso di insistere (giusto quel tanto) o di evitare. Per ogni espressione è necessario adeguare la modalità che possa essere la meno invasiva ma, contemporaneamente, stimolante.

Lo sforzo maggiore sta nel trovare l’equilibrio tra la sincerità propositiva, senza mettere in atto la seduttività, offrire un diversivo senza illudere, che possa essere un’ulteriore fuga dalla realtà.

È un allenamento complesso quello di imparare a cogliere il contenuto, evidente o mascherato, di tante espressioni o assenza di espressioni. Senza contare le proiezioni del paziente su quella figura in più, che propone un’attività alquanto soggetta a resistenza.

Benedetti afferma che "…nelle psicosi la resistenza s’ingenera in primo luogo per la mancanza di prospettive che è propria della malattia, ciò che sin dall’inizio esclude ogni possibilità di relazione, di costruttiva dualità.

Perciò ogni offerta di una simile dualità, che tra l’altro è il punto di partenza di ogni psicoterapia, viene percepita dal paziente come un raggiro, un’iniziativa assurda, una promessa ingannevole, anzi come un parlare a vuoto delle sue esperienze interiori.

Per "psicotica mancanza di prospettive" non intendo semplicemente la disperazione per il proprio futuro, non intendo una prognosi negativa su se stessi, bensì qualcosa di gran Lunga peggiore, nessuna prospettiva circa il presente come momento della comunicazione e della speranza…".

Borgna, con la sua consueta attenzione allo sguardo del paziente, aggiunge "...al fine di aprire o di chiudere una reciprocità dialogica, sono decisive le scansioni iniziali di un incontro o di un colloquio: il volto, lo sguardo, prima ancora della parola, fanno nascere una comunicazione o la spengono.

Si comunica, cioè, con le infinite espressioni del volto e dello sguardo; la cosa vale, in particolare, quando il senso (il motivo) dell’incontro fra medico e paziente è legato alla presenza di una condizione ansiosa o depressiva: di una condizione plasmabile e sensibile a ogni gesto e a ogni atmosfera ambientale (interpersonale), a ogni increspatura dell’anima e a ogni cifra del silenzio...".

Il numero dei pazienti che accettano la proposta di partecipare all’attività di arte terapia è imprevedibile: a volte eravamo in quattro e a volte ci siamo ritrovati in undici. Il non sapere in anticipo quanti saremo, rende la preparazione e l’accoglienza più complessa e non permette di anticipare progetti o temi di lavoro. Bisogna, inoltre, essere pronti a convogliare gli interessi e non lasciare nessuno in disparte.

Certamente trovare pronto un gruppo di pazienti già formato sarebbe più facile, ma questo, oltre che essere impossibile, non darebbe la possibilità di osservare i processi relazionali, utili e congruenti per i pazienti che sostano (e non restano permanentemente) all’interno dell’istituzione, che nascono e si sviluppano in un non-luogo, qual è l’atelier di arte terapia.

 

IL CLIMA

Nel caos dell’imprevedibilità che accompagna il vissuto di gruppo nella condizione di emergenza, l’omogeneità non è pensabile. La complessità degli stati d’animo, delle esperienze, dei sentimenti, non concede metodo d’intervento uniforme.

All’arte terapeuta/educatore appartiene solo la possibilità e il compito di isolare e distinguere alcune cose. Il vissuto è pregnante di ansia: un’ansia che nasce dall’inconsuetudine per i pazienti che non hanno familiarità con i materiali artistici, oltre all’ansia che caratterizza la loro condizione.

L’educatore deve saper riconoscere e incorporare, improvvisare ed impostare un’unione di sensazioni svariate e disarmoniche in un coro che possa essere ascoltato, sentito in ogni sua tonalità. Si tratta di gestire la contemporaneità dell’onnipotenza e dell’impotenza del ruolo, di essere sicuro, determinato e presente a se stesso, confrontandosi con i propri limiti.

Il luogo, il setting, deve rappresentare quel contenitore utile e proficuo a ridurre la confusione e l’angoscia.

Il paziente psichiatrico presenta spesso un’incapacità ad intra-prendere e mantenere relazioni interpersonali. Il gruppo di arte terapia rappresenta e si propone come uno spa-zio sociale protetto, nel quale il soggetto può sperimentare e vivere l’incontro con l’altro in modo meno conflittuale e ansiogeno.

Attraverso il lavoro terapeutico egli impara a sviluppare e ad intraprendere delle relazioni più armoniche e soddisfacenti. Ciò avviene grazie alla graduale scomparsa sia della sensazione di alterità ed estraneità, che spesso il paziente vive nei confronti di ciò che è diverso da sé, sia riducendo la sensazione di incapacità ed il timore di mostrarsi ed essere se stesso nella relazione con l’altro.

Mentre si crea il clima empatico, l’arte terapeuta/educatore deve anche essere capace di riconoscere e decodificare le varie situazioni patologiche che gli si presentano. Alcuni pazienti hanno un comportamento iperattivo, oppure possono presentare un pensiero caotico incoerente, delirante, come negli stati psicotici acuti, che può compromettere la capacità di essere ricettivi. Altri pazienti, invece, depressi e coartati sul piano emotivo, non sono in grado di assumere atteggiamenti attivi.

Al fine di intervenire nel modo più corretto possibile, è fon-damentale distinguere la situazione comportamentale da ciò che può essere legato a problemi di tecnica e di mezzo espressivo.

Importante è saper coesistere con la variabilità delle patologie e i loro molteplici sintomi e, inoltre, coesistere con le frustrazioni, trasformando la predisposizione alla diffidenza in un clima di distinzione che si protrarrà possibilmente oltre il tempo di intervento.

L’investimento prioritario, in una relazione così fortuita, non può convergere su un’idea di legame e di seguito, anzi si deve mettere l’accento sulla condizione di sosta.

Anche se il tempo a disposizione è molto breve e non permette investimento relazionale e terapeutico duraturo, l’arte terapeta/educatore può intervenire in modo che la breccia relazionale garantisca un rapporto centrato sull’accettazione e sulla disponibilità, che permetta al paziente di evolvere nelle capacità espressive, al fine di provare la soddisfazione personale per il proprio lavoro e un conseguente rinforzo dell’autostima, nonché un aumento di fiducia in se stesso.

L’immagine è il simbolo che permette di esporsi ma, anche, di nascondersi per essere protetti da valutazioni e giudizi.

Di fronte al materiale artistico il primo impatto è frequentemente di imbarazzo e di esitazione.

"…Il periodo di esitazione è in realtà matrice da cui si sviluppa l’area dell’illusione. Il concetto di resistenza nella psicoanalisi classica dà per scontata la capacità di operare nell’area dell’illusione e suppone soltanto che vi possa essere un’interferenza conflittuale nella possibilità dell’individuo di usarla. Il concetto del periodo di esitazione presume, per contro, l’emergere di una capacità che è ancora ben lungi dal costituirsi come funzione dell’io. I materiali esposti possono a volte risvegliare la dissociazione. Il senso di spaesamento, del non sapere cosa fare, ripropone prepoten-temente il disagio dovuto alla carenza d’assistenza…".

Grazie al clima reso accogliente, all’atteggiamento stimolante ma non intrusivo dell’educatore, ognuno trova un’indicazione verso ciò che potrà permettere l’espressione di un momento di sollievo, di gioco, di libera espressione o di complicità con l’arte terapeuta/educatore.

Il disegno fatto per o con il paziente diventa il mezzo per creare un’alleanza, dare sicurezza e farsi sentire accettato dall’educatore, anche se le predisposizioni all’espressione creativa sono scarse. Ciò garantisce inoltre la possibilità di confronto e di comunicazione con gli altri elementi del gruppo.

Per il paziente il lavoro realizzato con l’arte terapeuta assume il significato di oggetto-dono, con il quale si può giocare in una situazione di non rischio.

Il disegno diviene un luogo neutrale al limite tra realtà e fantasia, tra sé e non sé, in cui è possibile esprimersi liberamente, abbandonando in parte gli atteggiamenti difensivi.

L’atmosfera dello spazio ambiente rassicurante rende la con-vivenza gradualmente sempre più gradita e rilassante. Disegnare, incollare o creare forme tridimensionali, anche se solo in modo elementare e spesso regressivo, acquisisce il significato di una dichia-razione di esistenza delle potenzialità comunicative.

È fondamentale rendere adeguato e valorizzare lo spazio di ognuno all’interno del gruppo, per far sì che la spontanea espressività possa risvegliare il desiderio di partecipazione grazie ai mezzi creativi. "…L’esperienza creativa trasfigura, ovviamente, i modi di essere e i contenuti di questa emozione radicale e ineliminabile della condizione umana; ma in essa continua a lampeggiare, immersa in abissi di inaudita profondità e di diafana trasparenza, la sua ragione d’essere esistenziale, comune a ciascuna forma di ansia che, al di là delle sue diverse connotazioni cliniche e non cliniche, testimonia della fragilità e della sensibilità, della sofferenza e del dolore, della nostalgia e del desiderio di solitudine, della debolezza e dell’esigenza di solidarietà a cui ogni nostra forma di vita non può sfuggire. … Nell’essenzialità di un disegno si deposita l’angoscia senza limiti e senza nome che può sconvolgere e stravolgere una realtà riconoscibile e irriconoscibile nelle sue linee e nei suoi significati…".

Ed è forse questa condizione di confine che permette e, a volte, costringe, di vedere e sentire in tutta la sua spudoratezza, la realtà umana senza veli, senza falsità.

La mia esperienza in psichiatria è finora quella che, più di ogni altra, mi ha fatto provare la sensazione di confronto con un drastico effetto di verità. Credo che anche la brevità, così come l’imprevedibilità, degli incontri sia causa, e contemporaneamente conseguenza, dell’intensità del vissuto.

In fondo, anche quando un paziente non può dare più di un solo disegno, bisogna che quel disegno sia riconosciuto e vissuto come una dichiarazione sostanziale e non mancare, nella misura del possibile, di adoperare tale comunicazione come perno di base per un’indicazione che possa invogliare il paziente verso l’autoconsapevolezza.

 

LA CREATIVITÀ

Lo stile eterogeneo di un atelier, che accoglie pazienti psichiatrici in condizione così critica, non può che adeguarsi agli accadimenti. Una volta che i limiti dovuti al rispetto dello spazio e della convivenza sono definiti, è bene concedere libera espressione a ogni possibilità creativa.

Capita, a volte, nel giro di un incontro, di vedere nascere con-temporaneamente collage, dipinti, poesie, ecc.. Tutto ciò deve convivere in crescendo e in armonia, grazie ad una gestione che sia in grado di equilibrare le parti.

Ci sono anche pazienti che non si decidono ad agire ma, tra indecisione e osservazione, offrono una partecipazione passiva.

Si assiste anche ad un’anarchia dei significati e di modalità segnica e di interpretazioni dei lavori da parte degli autori. Più che di elementi storici eventuali, si tratta di brevi episodi, più o meno afferrabili; questo nella maggior parte dei casi.

Il tempo e lo spazio non sono solo figure filosofiche e psi-cologiche, sono anche figure metaforiche. L’arte terapia ha a che fare con metafore, quando rende visibili le esperienze che sono contenute nelle sue immagini. Spesso la metafora è come una piccola favola: dice più di molte frasi cariche di elementi dottrinali.

Il gioco tra arte terapeuta/educatore e paziente, anche se saltuario e fugace, deve conciliare intensità e delicatezza d’intervento.

Per rimanere nel pensiero di Winnicott, tenere conto non solo della scelta delle parole, delle inflessioni della voce, dell’adeguatezza dei materiali a seconda della tipologia espressiva di ogni membro del gruppo, ma soprattutto dell’umorismo, intrattenendo uno spirito divertente, allegro. Per umorismo intendo, come dice K. Lorenz, "…quella dote umana spontanea che è tutto tranne che arida, quella facoltà così spiccatamente umana quanto il linguaggio o la responsabilità morale. Il ridere produce un forte sentimento di fratellanza fra i partecipanti. Ridere insieme, cordialmente della stessa cosa crea un legame im-mediato e contemporaneamente una linea di demarcazione. Diversamente dall’entusiasmo, il riso, anche quando è molto intenso, non corre il rischio di regredire, facendo riemergere il primitivo comportamento aggressivo. Io credo che l’umorismo eserciti un’influenza sul comportamento sociale dell’uomo che, per un aspetto, è strettamente analoga a quella della responsabilità morale: tende a fare del mondo un posto più onesto e quindi migliore…".

Invogliare a fare con distensione e clima gioioso è forse il fulcro dell’intento terapeutico di questa specifica condizione dell’emergenza psichiatrica.

È adeguato ricordare qui ciò che Winnicott precisa riguardo al gioco: "…È il gioco che è l’universale e che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e pertanto la sanità e, infine, la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri…".

Quindi, una volta dato avvio al gioco per ognuno, l’arte terapeuta/educatore transita nella stanza visitando, esplorando, sostenendo, stimolando, contenendo a seconda dei bisogni e delle istanze.

Si vede nascere e trasformarsi la situazione del vissuto individuale, la comunicazione si scioglie, l’espressione del viso si rilassa o si dinamizza a seconda dei casi e, di conseguenza, la situazione gruppale ne risente favorevolmente.

Non sempre si riesce a creare un clima di equilibrio, perché ci sono anche elementi ribelli alla coesione del gruppo o del tutto inca-paci di controllare la loro agitazione patologica.

Mi riferisco a quelle personalità schizo-borderline e schizo-paranoidi e a quelle in condizione delirante.

Non ci sono motivi perché i pazienti in quelle condizioni, che hanno espresso il desiderio di partecipare e per i quali c’è il consenso medico, non siano accettati all’interno del "gioco".

Tutto sta nella capacità di gestire la situazione all’interno dell’atelier. Quando la situazione si dimostra veramente insostenibile riaccompagno il paziente nella sua camera, chiedendo supporto all’infermiere se questo è necessario. In questi quattro mesi di tirocinio ciò è accaduto molto raramente.

RITUALE DI UNIONE/SEPARAZIONE

Mentre non è pensabile impostare un rituale per iniziare l’attività, vista l’imprevedibilità delle patologie e delle momentanee condizioni di chi avrà accettato l’invito, è di grande importanza la conclusione, con un rituale che chiamerò unione/separazione.

Unione perché, sempre per la condizione di transitorietà, è il momento in cui ci si sente maggiormente collegati.

Ci siamo incontrati meno di due ore prima; da quell’incontro abbiamo avuto giusto il tempo necessario per trattare con le resistenze, per familiarizzare con i materiali e per acquisire quel minimo di fiducia che consente all’espressione creativa di manifestarsi.

È quindi al momento del raduno, quando i lavori vengono presentati a tutti, che si rivela un senso di unione.

Separazione perché sappiamo che è giunto il momento conclu-sivo della nostra esperienza e che non ci rivedremo forse mai più. Visto il clima favorevole creatosi in precedenza, di solito questo momento è ben accetto da tutti.

Per i pazienti che hanno già avuto l’occasione di viverlo, è aspettato con evidente piacere. Accogliere i lavori realizzati, guardarli insieme e raccontare ciò che le nostre emozioni fanno emergere è molto appagante per tutti. In quel momento si crea un’atmosfera emotiva ottimale, che porta a quella gratificazione narcisistica, sia per l’arte terapeuta/educatore che per i pazienti.

Si tratta di cogliere la sostanza di una modalità di pensiero (o non pensiero), di rimanere connesso, di essere pertinente con chi parla diversamente (accumulazioni, spostamento dei concetti, deliri, stereo-tipie, ecc.) e permettere che ogni tentativo di comunicazione abbia un suo adeguato spazio-luogo, dove depositare segreti, segni e simboli.

Recepire ogni espressione simbolica permette la raccolta di frantumi dolorosi e permette la lettura, anche se parziale, degli stati d’ansia, di depressione, di rabbia, ecc..

È forse all’interno di questo cerchio che ci si vede così vicini e strettamente a confronto, con i nostri lavori esposti al centro, che si vive il processo più delicato dell’esperienza.

I pazienti si aspettano di ricevere qualcosa, è un momento di particolare intensità emotiva.

La figura dell’arte terapeuta/educatore assume un potere partico-lare, che si rifà all’archetipo "guaritore-paziente". L’archetipo è un fattore primario, una realtà fondamentale e, in quanto tale, non può essere di natura mediocre; è quindi in gioco l’uso del potere, il potere che il paziente concede all’educatore e l’uso che egli ne fa.

Si tratta di svolgere il rituale secondo il rispetto della regola e di non trasformarlo in un culto fuorviante.

Ognuno deve trovare il proprio momento per esprimere ciò che desidera; ad ognuno va concesso un sostegno facilitante, per esporsi e raccontare il suo disegno.

Non si può cedere alla tentazione di dare delle interpretazioni individuali, che potrebbero riacutizzare l’espressione dell’ansia, ma possono essere interpretate quelle parti degli interventi individuali che mostrano che l’individuo, cercando di ottenere aiuto per i suoi problemi, sta dirigendo il gruppo verso un consolidamento che possa essere d’aiuto a tutti.

Mettere in relazione arte e malattia conduce a una verifica che stravolge i soliti modelli del pensiero.

Osservando e ascoltando i pazienti esprimersi, all’interno dell’atelier, ci si confronta di frequente con un dominio di facoltà superiori.

La cautela è d’obbligo, ma ciò non toglie che qualunque sia il "contenuto" e la "causa" della malattia mentale, tramite l’uso della creatività artistica ne deriva una garanzia espressiva e comunicativa di grande autenticità. Il materiale artistico concede maggiormente l’ap-proccio alla verifica e, come sostiene Bleuler, in nessun caso l’affettività è del tutto spenta.

Non vi è alcun dubbio che molte immagini sono stimolate da bisogni e desideri che, costituendo il fondamento della realtà interiore, cercano di riprodurre l’aspetto dell’oggetto dal quale prendono il posto, dando ai meccanismi di difesa la possibilità di essere agiti, rimuovendo, sublimando, proiettando, trasformando nel contrario, ecc..

La funzione immaginativa è la prima che permette all’essere umano di non adattarsi passivamente alla realtà, di non essere costretto ad accettarne passivamente le limitazioni e, nel contempo, di essere in grado di affrontarla, rielaborandola a livello interno.

I meccanismi di difesa funzionano anche costruttivamente, rendendo più efficienti l’azione e il pensiero. La creatività e la fantasia permettono al paziente di vivere un’esperienza mancata in una sorta di comunicazione intrapsichica che lo trova ora legato, ora separato dall’arte terapeuta/educatore, trasformando in accettabile ciò che non lo è.

Attraverso segni, colori e gesti si vivono i momenti cruciali dello sviluppo intrapsichico dell’individuo. Nasce un incontro creativo tra paziente e terapeuta che ripropone i valori transizionali, sia dell’oggetto che dello spazio, e cioè un livello di esperienza nel quale il paziente può esprimere il proprio vissuto affettivo.

Insomma, in quel cerchio conclusivo ci si sente protetti e piacevolmente legati da un comune desiderio di alleanza.

Quasi sempre e quasi tutti riusciamo a guardarci negli occhi e a sorriderci. Frequentemente c’è anche spazio per espressioni gioiose, che ci fanno ridere insieme cordialmente della stessa cosa e ciò forma un legame im-mediato, un po’ come l’entusiasmo per lo stesso ideale.

Poi arriva il momento di lasciarci: i pazienti si staccano a fatica dai loro lavori e questo testimonia un ritorno di attaccamento riconosciuto.

Alcuni vogliono sapere dove andranno a finire le loro immagini e i loro oggetti; altri li trattengono come "ricordo" o come regalo per il medico, per l’infermiere o per il/la compagno/a di stanza.

Quando i pazienti hanno lasciato l’atelier, a me resta la speranza che l’esperienza vissuta insieme non sbiadisca del tutto.

Non mi sarà pressoché mai possibile verificare qual è stato il valore e l’intensità dei nostri incontri: le uniche testimonianze del nostro breve vissuto sono i disegni, gli oggetti creati e depositati, le poesie e qualche dedica.