Ricerca documentale "Contro il lavoro come servitù moderna"
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MANIFESTO CONTRO IL LAVORO
(I° Parte / 2° Parte) del Gruppo Krisis

11. LA CRISI DEL LAVORO

"Il principio morale fondamentale è il diritto dell'essere umano al suo lavoro. [...] A mio parere non esiste nulla di più rivoltante di una vita oziosa. Nessuno di noi ne ha diritto. Nella civiltà non c'è posto per gli oziosi.” Henry Ford "Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, [per il fatto] che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro a un minimo mentre d'altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. [...] Per un verso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale, allo scopo di rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza dal tempo di lavoro in essa impiegato. Per l'altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali così create e relegarle nei limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore già creato”. Karl Marx, Elementi per una critica dell'economia politica, 1857-58 Dopo la Seconda guerra mondiale, e per un breve periodo storico, potè sembrare che la società del lavoro si fosse consolidata nelle industrie fordiste in un sistema di "perenne prosperità”, nel quale l'insopportabile fine a se stesso potesse essere soddisfatto in maniera duratura, grazie al consumo di massa e allo Stato sociale. A prescindere dal fatto che questa è stata sempre un'idea da ilota democratico, e che si riferiva per di più soltanto a una piccola minoranza della popolazione mondiale, essa doveva rivelarsi sbagliata anche al centro del sistema. Con la terza rivoluzione industriale della microelettronica il lavoro si scontra con il suo limite storico assoluto. Che questo limite dovesse essere raggiunto prima o poi, era prevedibile da un punto di vista logico. Infatti, il sistema di produzione di beni soffre fin dalla nascita di un'irrisolvibile contraddizione interna. Da una parte vive dell'assorbimento in massa di energia umana, tramite l'impiego di forza-lavoro, nel suo apparato, e quanta più ne assorbe meglio è. D'altra parte però la legge della concorrenza fra le imprese costringe ad aumentare permanentemente la produttivtà, e la forza-lavoro umana viene sostituita con il capitale fisso ottenuto grazie al progresso scientifico. Questa contraddizione interna fu già la causa profonda di tutte le crisi precedenti, come quella devastante dell'economia mondiale del 1929-33. Tuttavia le crisi si sono sempre potute superare tramite un meccanismo di compensazione: a un livello di volta in volta più elevato di produttività, e dopo un periodo di incubazione, è sempre stato assorbito, in termini assoluti, più lavoro, grazie all'espansione dei mercati a nuove fasce di consumatori, di quanto ne fosse cancellato razionalizzando la produzione. L' impiego di forza-lavoro per unità di prodotto è diminuito, ma in termini assoluti si è prodotto di più, e in una misura tale che questa diminuzione potesse essere ipercompensata. Fin quando dunque le innovazioni nei prodotti sono state più importanti delle innovazioni nei processi di produzione, la contraddizione interna del sistema potè essere tradotta in un movimento espansivo. L'esempio storico per eccellenza è l'automobile: grazie alla catena di montaggio e ad altre tecniche della razionalizzazione basata sulla "scienza del lavoro” (dapprima nella fabbrica di automobili di Henry Ford a Detroit), la durata del lavoro per produrre un'automobile si ridusse a un minimo. Nello stesso tempo, però, il lavoro venne tremendamente intensificato, e dunque nello stesso periodo di tempo la materia umana fu spremuta in misura molto maggiore. Soprattutto grazie alla diminuzione di prezzo che ne derivò, l'automobile, che fino a quel momento era stato un prodotto di lusso per le classi superiori, potè entrare a far parte dei beni di consumo di massa. In questo modo, nonostante la produzione razionalizzata alla catena di montaggio nella seconda rivoluzione industriale del "fordismo”, fu soddisfatto l'appetito insaziabile di energia umana che ha l'idolo"lavoro” a un livello più alto. Nello stesso tempo, l'automobile è un esempio incisivo del carattere distruttivo del modo di produrre e di consumare nella società del lavoro altamente sviluppata. Nell'interesse del trasporto individuale di massa e della produzione di massa di automobili, i paesaggi vengono asfaltati e imbruttiti, l'ambiente viene inquinato, e si accetta cinicamente che sulle strade del mondo di anno in anno si combatta una terza guerra mondiale non dichiarata, con milioni di morti e di feriti. Nella terza rivoluzione industriale della microelettronica viene meno il meccanismo, valido fino ad allora, della compensazione tramite l'espansione. Certo, anche grazie alla microelettronica molti prodotti sono più a buon mercato, e ne vengono creati altri (soprattutto nel settore dei media). Ma per la prima volta la velocità dell'innovazione nei processi è superiore a quella dell'innovazione nei prodotti. Per la prima volta il lavoro che viene cancellato con la razionalizzazione è maggiore di quello che può essere riassorbito grazie all'espansione dei mercati. Nella continuazione logica del processo di razionalizzazione, la robotica elettronica sostituisce l' energia umana, oppure sono le nuove tecnologie della comunicazione a rendere il lavoro superfluo. Interi settori del montaggio, della produzione, del marketing, dello stoccaggio, della distribuzione e persino del management scompaiono. Per la prima volta, l'idolo "lavoro” si mette, involontariamente, ma durevolmente, a razioni da fame per molto tempo. Ma così provocherà la propria morte da solo. Essendo la società democratica del lavoro un sistema autoreferenziale d'impiego di forza-lavoro, all'interno delle sue forme non è possibile un passaggio alla riduzione generalizzata dell'orario di lavoro. La razionalità d'impresa esige che, da una parte, masse sempre più ampie restino "disoccupate” in maniera duratura e così siano tagliate fuori dalla riproduzione della loro vita in termini immanenti al sistema, mentre dall' altra un numero sempre più striminzito di "occupati” sia aizzato sempre più freneticamente a lavorare e a fornire prestazioni sempre più efficienti. Perfino nei centri capitalistici, al centro della ricchezza, fanno il loro ritorno la povertà e la fame, mezzi di produzione e campi coltivabili giacciono inutilizzati in grandi quantità, abitazioni e edifici pubblici restano vuoti ovunque, mentre cresce incessantemente il numero dei senzatetto. Il capitalismo diventa l'affare globale di una minoranza. L'idolo "lavoro” in agonia è ormai costretto dal bisogno a mangiare se stesso. Alla ricerca di quel che di lavoro-nutrimento è rimasto, il capitale fa saltare i confini delle economie nazionali e si globalizza in una concorrenza nomadica sulla localizzazione degli investimenti. Intere regioni del mondo vengono tagliate fuori dai flussi globali di merci e capitali. Con un'ondata storicamente senza pari di fusioni e "scalate ostili”, i conglomerati si armano per l' ultima battaglia dell'economia d'impresa. Nazioni e Stati disorganizzati implodono, le popolazioni spinte alla pazzia dalla concorrenza per sopravvivere si avventano l'una contro l'altra in guerre etniche per bande.

12. LA FINE DELLA POLITICA

La crisi del lavoro implica necessariamente la crisi dello Stato, e quindi della politica. In linea di principio, lo Stato moderno deve la sua carriera al fatto che il sistema produttore di merci ha bisogno di un'istanza sovraordinata che garantisca il quadro di riferimento della concorrenza, i princìpi giuridici e i presupposti generali della valorizzazione, inclusi anche gli apparati repressivi, nel caso che la materia umana dovesse mai diventare disobbediente e opporsi al sistema. Nella sua forma pienamente matura di una democrazia di massa, lo Stato dovette assumere nel ventesimo secolo, in misura crescente, anche compiti socioeconomici: ne fanno parte non soltanto il sistema di sicurezza sociale, ma anche l'istruzione, l' assistenza sanitaria, le reti di trasporto e comunicazione, infrastrutture di ogni tipo, che sono diventate indispensabili per il funzionamento della società del lavoro industrialmente sviluppata, ma che di per se non possono essere organizzate secondo un principio di valorizzazione imprenditoriale. Infatti, queste infrastrutture devono restare a disposizione della società intera in maniera duratura e completa, e dunque non possono seguire il gioco della domanda e dell'offerta. Ma poichè lo Stato non è un'unità autonoma di valorizzazione e perciò non può trasformare da solo lavoro in denaro, deve prelevare denaro dal reale processo di valorizzazione, per finanziare le sue attività. Se si esaurisce la valorizzazione, si esauriscono anche le finanze dello Stato. Il presunto sovrano della società si rivela come totalmente dipendente nei confronti della cieca e feticistica economia della società del lavoro. Può anche proclamare leggi a suo piacimento; se le forze produttive crescono oltre il sistema del lavoro, il diritto positivo dello Stato, che si può riferire sempre e soltanto a soggetti del lavoro, gira a vuoto. Con una sempre crescente disoccupazione di massa, si assottigliano le entrate dello Stato derivanti dalla tassazione dei redditi da lavoro. Le reti di sicurezza sociale si strappano non appena si raggiunge una massa critica di "esuberi”, che può essere nutrita capitalisticamente soltanto con una ridistribuzione di redditi monetari. Con il rapido processo di concentrazione del capitale nella crisi, processo che va oltre i confini delle economie nazionali, si volatilizzano anche le entrate dello Stato derivanti dalla tassazione dei profitti. I conglomerati transnazionali costringono gli Stati che sono in concorrenza per ricevere investimenti a un dumping fiscale, sociale ed ecologico. Ed è proprio questa evoluzione che trasforma lo Stato in un semplice amministratore delle crisi. Quanto più esso si avvicina a una situazione di emergenza finanziaria, tanto più si riduce al suo nocciolo repressivo. Le infrastrutture vengono adattate ai bisogni del capitale transnazionale. Come un tempo nei territori coloniali, la logistica sociale si limita sempre di più a pochi centri economici, mentre il resto va in rovina. Si privatizza tutto quello che si può privatizzare, anche se così si esclude un numero sempre crescente di persone dalle più elementari prestazioni di assistenza. Laddove la valorizzazione del capitale si concentra su sempre più ristrette isole di mercato mondiale, non è più importante un'assistenza estesa a tutta la popolazione. Finchè non si toccano settori direttamente rilevanti da un punto di vista economico, non ha nessuna importanza se i treni viaggino o se le lettere arrivino. L'istruzione diventa un privilegio dei vincitori della globalizzazione. La cultura spirituale, artistica e teoretica deve seguire il criterio di redditività e deperisce. L'assistenza sanitaria diventa non più finanziabile e si sbriciola in un sistema classistico. Dapprima furtivamente e a bassa voce, poi alla luce del sole, viene proclamata la legge dell'eutanasia sociale: poichè sei povero e "in esubero”, devi morire prima. Mentre tutte le conoscenze, le capacità e i mezzi della medicina, dell' istruzione, della cultura e delle infrastrutture generali abbondano, vengono tenute sotto chiave, smobilitate e demolite secondo l'irrazionale legge della società del lavoro, oggettivata nella "riserva di finanziabilità”, - proprio come i mezzi di produzione industriali e agrari che non sono più "redditizi”. Oltre alla simulazione repressiva del lavoro tramite forme di lavoro sottopagato, e alla riduzione di tutte le prestazioni, lo Stato democratico trasformato in sistema dell'apartheid non ha più nulla da offrire ai suoi ex-cittadini lavoratori. In uno stadio ulteriore, l' amministrazione dello Stato si sgretola completamente. Gli apparati dello Stato si imbarbariscono, diventando una cleptocrazia corrotta, l'esercito si trasforma in un insieme di bande mafiose da guerra, la polizia una combriccola di briganti di strada. Nessuna politica al mondo può fermare o addirittura invertire questa evoluzione. Infatti la politica è per sua natura riferita allo Stato, e quindi rimane senza fondamento se lo Stato viene a mancare. L'"intervento politico" sui rapporti sociali, questa parola d'ordine dalla sinistra democratica, si rende ogni giorno più ridicola. Oltre alla repressione senza fine, alla demolizione della civiltà e all'aiuto concesso al "terrore dell' economia”, non c'è più modo di "intervenire”. Poichè il fine a se stesso della società del lavoro è presupposto assiomaticamente, per la crisi del lavoro non può esserci alcuna regolazione politico-democratica. La fine del lavoro diventa anche la fine della politica.

13. LA SIMULAZIONE DELLA SOCIETA' DEL LAVORO NEL CAPITALISMO DA CASINO'.

"Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte di ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d'uso. [...] Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell'antagonismo”, Karl Marx, "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica”, 1857-58 La coscienza sociale dominante mente sistematicamente a se stessa sulla reale condizione della società del lavoro. Le regioni disastrate vengono scomunicate ideologicamente, le statistiche del mercato del lavoro spudoratamente falsificate, le forme della miseria spariscono nelle simulazioni dei mass media. Anzi, la simulazione è la caratteristica principale del capitalismo in crisi. Questo vale anche per l'economia. Se fino ad ora sembra, almeno nei Paesi-chiave occidentali, che il capitale possa accumularsi anche senza lavoro, e la pura forma del denaro privo di sostanza garantire, moltiplicandosi, l'ulteriore valorizzazione del valore, allora questa apparenza è dovuta a un processo simulativo dei mercati finanziari. Specularmente alla simulazione del lavoro tramite misure coercitive dell'amministrazione democratica del lavoro, si è formata una simulazione della valorizzazione del capitale, grazie allo sganciamento speculativo del sistema creditizio e dei mercati azionari dall'economia reale. L'utilizzo di lavoro presente viene sostituito con una scommessa sull' utilizzo di lavoro futuro, che però non si realizzerà mai. Si tratta, in una certa misura, di un'accumulazione di capitale in un "futuro anteriore” del tutto fittizio. Il capitale monetario, che non può più essere reinvestito con profitto nell'economia reale, e perciò non può più assorbire lavoro, deve maggiormente rifugiarsi nei mercati finanziari. Già la fase fordista di valorizzazione all'epoca del "miracolo economico”, dopo la Seconda guerra mondiale, non era più completamente autosufficiente. Lo Stato si indebitò in una misura fino ad allora sconosciuta, molto al di là di quel che gli permettevano le sue entrate fiscali, perchè le condizioni generali della società del lavoro non erano più finanziabili diversamente. Lo Stato ipotecò dunque le sue future entrate reali. In questo modo si creò da una parte per il capitale monetario "in eccedenza” una possibilità d'investimento finanziario - si prestò denaro allo Stato in cambio del pagamento d'interessi. Quest'ultimo pagò gli interessi con nuovi crediti, e reimmise immediatamente il denaro avuto in prestito nel ciclo economico. Così finanziò, da un lato, le spese sociali e gli investimenti per le infrastrutture, creando una domanda che in senso capitalistico era artificiale, perchè non coperta da alcun utilizzo produttivo di forza-lavoro. Così il boom fordista fu prolungato oltre la sua reale portata, attingendo la società del lavoro al proprio futuro. Questo elemento simulativo del processo di valorizzazione, apparentemente ancora intatto, trovò i suoi limiti insieme con l'indebitamento dello Stato. Le "crisi debitorie” degli Stati, non soltanto nel Terzo mondo, ma anche nel cuore del capitalismo, non permisero più un'ulteriore espansione su tale strada. Questa fu la base obiettiva per il trionfo della deregulation neo-liberista, che, secondo i proclami ideologici, sarebbe dovuta andare di pari passo con una drastica diminuzione della quota dello Stato nel prodotto interno. In realtà, la deregulation e l'abbattimento delle spese sociali vengono compensate dai costi della crisi, fosse anche nella forma dei costi della repressione e della simulazione. In molti Paesi, la quota dello Stato in questo modo addirittura aumenta. Ma non è più possibile simulare l'ulteriore accumulazione di capitale con l'indebitamento dello Stato. Perciò la creazione aggiuntiva di capitale fittizio si concentrò negli anni '80 sui mercati azionari, dove l'importante non sono più i dividendi, la quota di profitto ottenuta grazie alla produzione reale, ma sono l'utile di scambio e l'aumento speculativo del valore del titolo di proprietà, fino ad ordini di grandezza astronomici. Il rapporto fra economia reale e i movimenti speculativi dei mercati finanziari si è rovesciato. La crescita speculativa dei titoli non anticipa più l' espansione economica reale, ma al contrario, il rialzo dovuto alla creazione fittizia di valore simula un'accumulazione reale, che già da tempo non esiste più. L'idolo "lavoro” è clinicamente morto, ma viene tenuto in vita artificialmente grazie all'espansione, apparentemente autonoma, dei mercati finanziari. Molte aziende industriali fanno profitti che non derivano più dalla produzione e dalla vendita di beni reali, che sono da tempo diventate attività in perdita, ma dalla partecipazione di una "scaltra” divisione finanziaria alla speculazione sui titoli e sulle valute. Gli Stati mettono a bilancio entrate che non derivano più dalle tasse o dall'assunzione di crediti, ma dalla frenetica partecipazione dell'amministrazione finanziaria ai mercati speculativi. E i bilanci privati, le cui entrate reali, basate sui salari, diminuiscono drammaticamente, si permettono ancora un alto livello di consumi contando sui guadagni in borsa. Nasce dunque una nuova forma di domanda artificiale, che poi, da parte sua, comporta una reale produzione, e reali entrate fiscali dello Stato "senza terreno sotto i piedi”. In questo modo, la crisi economica mondiale viene differita grazie al processo speculativo. Ma poichè l'aumento fittizio di valore dei titoli di proprietà può essere soltanto l'anticipazione di una futura e reale utilizzazione di lavoro (in una misura altrettanto astronomica), che però non arriverà mai più, dopo un certo periodo di incubazione il bubbone truffaldino, quale è nei fatti, dovrà scoppiare. Il crollo dei "mercati emergenti” in Asia, America latina e Europa orientale è stato soltanto un primo assaggio. E' soltanto una questione di tempo, e anche i mercati finanziari dei centri capitalistici, negli Stati Uniti, nell'Unione europea e in Giappone collasseranno. Nella coscienza feticistica della società del lavoro questo nesso viene percepito in maniera totalmente distorta, anche e soprattutto dai tradizionali "critici del capitalismo” di destra e di sinistra. Fissati sul fantasma del lavoro, nobilitato fino a diventare una positiva, astorica condizione di esistenza, essi confondono sistematicamente causa ed effetto. Il provvisorio rinvio della crisi, dovuto all'espansione speculativa dei mercati finanziari appare allora, tutt'al contrario, come la presunta causa della crisi. I "cattivi speculatori”, come si dice più o meno nel panico, avrebbero distrutto tutta la bella società del lavoro, perchè, tanto per divertirsi e fare un po' di casino, avrebbero giocato d'azzardo con il "buon denaro”, di cui "ce n'è abbastanza”, invece di investirlo, come si deve e senza grilli per la testa, in meravigliosi "posti di lavoro”, in modo che un 'umanità di iloti pazzi per il lavoro potesse continuare ad essere "pienamente occupata”. Queste persone, semplicemente, non vogliono comprendere che non è affatto stata la speculazione a bloccare gli investimenti sull'economia reale, ma che questi non sono più redditizi a causa della terza rivoluzione industriale, e che il decollo speculativo è soltanto un sintomo di questa situazione. Il denaro, che sembra circolare in quantità apparentemente inesauribili, non è più da tempo, perfino in senso capitalistico, denaro "buono”, ma soltanto "aria calda”, con la quale è stata gonfiata la bolla speculativa. Ogni tentativo di pungere questa bolla con progetti di tassazione di vario tipo come la "tassa Tobin”, per dirottare nuovamente il capitale finanziario su presunte "reali” attività economiche, che creano lavoro, potrebbe finire soltanto per far scoppiare più rapidamente la bolla. Invece di capire che noi tutti siamo sempre meno redditizi, e che quindi lo stesso criterio della redditività, con tutti i suoi presupposti nella società del lavoro, deve essere considerato obsoleto, si preferisce demonizzare "gli speculatori” - non è un caso che questa immagine negativa e banale sia comune a radicali di destra e a autonomi, a bravi funzionari sindacali e a nostalgici keynesiani, a teologi sociali e a conduttori di talk-show, e soprattutto a tutti gli apostoli dell' "onesto lavoro”. Pochissimi si rendono conto che da questa posizione a una ripresa in grande stile del delirio antisemita il passo è breve. L'evocazione del capitale reale "produttivo”, di sangue nazionale, contro il "rapace” capitale internazionale-"ebraico”, minaccia di essere l'ultima parola della sinistra pro-lavoro, intellettualmente disorientata. Ma è già l'ultima parola della destra pro-lavoro, schiettamente razzista, antisemita e antiamericana.

14. IL LAVORO NON SI PUO' DEFINIRE DIVERSAMENTE

"Accanto al benessere materiale, possono far crescere anche il benessere immateriale semplici servizi che hanno un rapporto diretto con la persona. Così la sensazione di agio dei clienti può aumentare, se prestatori di servizi tolgono loro il peso dei lavori di casa. Nello stesso tempo aumenta la sensazione di agio dei prestatori di servizi, se cresce la loro autostima grazie all'attività. Prestare un servizio semplice, con un rapporto diretto con un'altra persona, ha sulla psiche un effetto migliore dell'essere disoccupato”. Rapporto della Commissione sulle prospettive per il futuro dei liberi Stati di Baviera e Sassonia, 1997 "Tieni ferma la conoscenza che si conferma nel lavoro, perchè la natura stessa la conferma e dice ad essa "si”. In effetti, tu non hai nessun'altra conoscenza, se non quella che hai acquisito con il lavoro, tutto il resto è soltanto un'ipotesi del sapere”. Thomas Carlyle, Lavorare e non disperare, 1843 Dopo secoli di ammaestramento, l'uomo moderno non è più in grado, puramente e semplicemente, d'immaginarsi una vita al di là del lavoro. In quanto principio assoluto, il lavoro domina non soltanto la sfera dell'economia in senso stretto, ma penetra nell'intera esistenza sociale, fino a toccare i minimi dettagli della vita quotidiana e dell'esistenza privata. Perfino il "tempo libero”, che è già dal significato letterale un concetto carcerario, serve da tempo a "smaltire” beni, e provvedere così al loro indispensabile smercio. Ma addirittura al di là del dovere interiorizzato del consumo come fine a se stesso, l'ombra del lavoro si stende sull'individuo moderno anche oltre l 'ufficio e la fabbrica. Non appena si alza dalla poltrona e smette di guardare la televisione diventando attivo, ogni suo agire si trasforma subito in una specie di lavoro. Il fanatico del jogging sostituisce il marcatempo con il cronometro, nella palestra da fitness in cromo lucido lo sgobbo vive la sua resurrezione postmoderna, e i vacanzieri si sciroppano chilometri e chilometri nella loro vettura come se dovessero farsi lo stesso percorso annuale di un camionista. Perfino le scopate si conformano ai canoni scientifici della sessuologia, e ai criteri concorrenziali delle panzane da talk-show. Se re Mida aveva ancora vissuto come una maledizione il fatto che tutto quello che toccava si trasformasse in oro, oggi il suo moderno compagno di sventura è già oltre questo stadio. L'uomo da lavoro non nota neppure più, che a causa dell'adeguamento al modello del lavoro ogni attività perde la sua particolare qualità sensibile e diventa indifferente. Al contrario: soltanto grazie a quest'adattamento all'indifferenza del mondo delle merci, egli conferisce un senso, una giustificazione e un'importanza sociale a un' attività. Per esempio, con un sentimento come il lutto il soggetto lavorante non sa farci gran che; la trasformazione del lutto in un "lavoro di elaborazione del lutto”, invece, riporta questo corpo emotivo estraneo a una dimensione nota, in modo da poter comunicare con le persone che hanno lo stesso problema. E perfino esperienze come il sognare, il discutere con un essere umano amato e il rapporto con i bambini, vengono privati di realtà e banalizzati diventando così un "lavoro sul sogno”, un "lavoro sulla relazione” e un "lavoro educativo”. Sempre, quando vuole insistere sulla serietà del suo agire, l'uomo moderno ha sulle labbra la parola "lavoro”. L'imperialismo del lavoro si riflette dunque nell'uso linguistico quotidiano. Non solo siamo abituati a usare la parola "lavoro” in maniera inflazionistica, ma anche su due livelli di significato completamente diversi. Da tempo ormai, il termine "lavoro” non designa più soltanto (come sarebbe giusto) la forma di attività capitalistica nella fatica tautologica, ma questo concetto è addirittura diventato un sinonimo per ogni sforzo diretto a realizzare un obiettivo, facendo così perdere le sue tracce. Questa imprecisione concettuale spiana la strada a una critica della società del lavoro tanto riguardosa quanto banale, che si realizza partendo da presupposti rovesciati, e cioè dall'imperialismo del lavoro, inteso in senso positivo. Alla società del lavoro viene rimproverato proprio di non dominare ancora a sufficienza la vita con la sua forma di attività, perchè comprenderebbe il concetto di "lavoro” "in maniera troppo limitata”, scomunicando cioè moralisticamente il "lavoro per se stessi” o l'”iniziativa personale non retribuita” (lavori di casa, aiuto ai vicini, ecc.), e farebbe valere come "vero” lavoro soltanto il lavoro retribuito con criteri di mercato. Una nuova valutazione e un allargamento del concetto di lavoro dovrebbe eliminare questa fissazione unilaterale, e le gerarchie che ne conseguono. Questo pensiero non vuole dunque l'emancipazione dai vincoli dominanti, ma piuttosto un'aggiustatina semantica. La crisi innegabile della società del lavoro deve essere risolta facendo sì che la coscienza sociale elevi "veramente” forme di attività finora considerate inferiori all'aristocrazia del lavoro accanto alla sfera di produzione capitalistica. Ma l'inferiorità di queste attività non è semplicemente il risultato di una determinata visione ideologica, bensì appartiene alla struttura di base del sistema produttore di merci, e non la si può superare con ben intenzionate ridefinizioni morali. In una società che è dominata dalla produzione di merci come fine in sè, può valere come ricchezza vera e propria soltanto ciò che è rappresentabile in forma monetarizzata. Il concetto di lavoro che ne deriva influenza certo sovranamente tutte le altre sfere, ma solo negativamente, nella misura in cui segnala quanto queste siano da esso dipendenti. Così, le sfere esterne alla produzione di merci restano nell'ombra della sfera di produzione capitalistica, perchè non rientrano nell'astratta logica imprenditoriale di risparmio di tempo - anche e proprio quando sono necessarie alla vita come il settore d'attività, separato e definito come "femminile”, dei lavori casalinghi, della dedizione personale, ecc. Un allargamento moralizzante del concetto di lavoro, invece della sua critica radicale, non soltanto nasconde il vero imperialismo sociale dell' economia produttrice di merci, ma si inserisce perfettamente nelle strategie autoritarie della gestione della crisi da parte dello Stato. La richiesta, avanzata dagli anni '70 in poi, di "riconoscere” anche il "lavoro casalingo” e le attività del "terzo settore” come lavoro a pieno titolo, puntava inizialmente a ottenere trasferimenti di risorse finanziarie provenienti dallo Stato. Ma lo Stato in crisi rovescia la frittata, e mobilizza l'impeto morale di questa richiesta nel senso del famigerato "principio di sussidiarietà” proprio contro le sue speranze materiali. Il panegirico dedicato al "volontariato” e all'"iniziativa civica” non consiste nell'autorizzazione a pescare nelle alquanto vuote casse statali, ma diventa un alibi per la ritirata sociale dello Stato, per i programmi di lavoro obbligato in via di realizzazione e per il meschino tentativo di scaricare il peso della crisi principalmente sulle donne. Le istituzioni sociali ufficiali vengono meno ai loro obblighi con l'appello a "noi tutti”, tanto gentile quanto a buon mercato, a voler cortesemente d'ora in poi combattere con autonome iniziative private contro la miseria, sia quella propria, sia quella altrui, e rinunciare a fare richieste materiali. Così i salti mortali nella definizione del concetto, comunque sempre santificato, di lavoro, che vengono intesi a torto come un programma di emancipazione, spalancano la porta al tentativo dello Stato di compiere il superamento del lavoro salariato, con l'abolizione del salario e il mantenimento del lavoro nella terra bruciata dell'economia di mercato. Involontariamente si dimostra così che l'emancipazione sociale oggi non può avere come contenuto la ridefinizione del lavoro, ma soltanto la consapevole svalorizzazione del lavoro.

15. LA CRISI DEL CONFLITTO FRA GLI INTERESSI

"Si è rivelato che in conseguenza delle inesorabili leggi della natura umana alcuni esseri umani saranno soggetti alla miseria. Queste sono le persone infelici, alle quali nella grande lotteria della vita non è toccato un biglietto vincente”. Thomas Robert Malthus Per quanto si tenti ancora di rimuoverla e tabuizzarla, la fondamentale crisi del lavoro contraddistingue oggi ogni conflitto sociale. Il passaggio da una società dell'integrazione di massa a un ordine basato sulla selezione e sull'apartheid, non ha portato a un nuovo round nella vecchia lotta di classe fra capitale e lavoro, ma a una crisi categoriale della stessa "lotta tra opposti interessi” immanente al sistema. Già all'epoca della prosperità, dopo la Seconda guerra mondiale, l'antica enfasi sulla lotta di classe si era attenuata. Ma non perchè il soggetto rivoluzionario "in se” era stato "integrato”, corrompendolo con un discutibile benessere, e grazie a manipolazioni e intrighi, ma perchè, all'inverso, nello stadio di sviluppo fordistico era venuta alla luce la logica identità di capitale e lavoro, come categorie sociali funzionali a una comune forma feticistica sociale. Il desiderio, immanente al sistema, di vendere il bene forza-lavoro alle migliori condizioni possibili perse ogni spinta trascendente. Se, fino agli anni '70, si era ancora trattato di strappare la partecipazione di una fascia, il più possibile estesa, della popolazione ai frutti velenosi della società del lavoro, ora questo stesso impulso si è esaurito per le nuove condizioni della crisi dovuta alla terza rivoluzione industriale. Soltanto finchè la società del lavoro si espanse, fu possibile combattere su larga scala la battaglia degli interessi fra le sue categorie sociali funzionali. Ma nella stessa misura in cui viene meno la base comune, gli interessi immanenti al sistema non possono più essere sintetizzati a un livello sociale complessivo. Si verifica invece una generale desolidarizzazione. I lavoratori salariati disertano i sindacati, i manager disertano le associazioni imprenditoriali. Ognuno per se e il dio "sistema capitalista” contro tutti: quell'individualizzazione che è sulla bocca di tutti, non è altro che un ulteriore sintomo della crisi della società del lavoro. Per quanto possano ancora essere aggregati interessi individuali, questo accade soltanto in un ordine di grandezza micro-economico. Infatti nella stessa misura in cui - vero scherno verso la liberazione sociale - è finito per diventare addirittura un privilegio farsi rovinare la vita in omaggio alle logiche aziendali, la rappresentanza degli interessi della merce forza-lavoro degenera nella spietata politica lobbystica di segmenti sociali sempre più ridotti. Chi accetta la logica del lavoro, deve accettare ora anche la logica dell'apartheid. Ormai, si tratta soltanto di assicurare alla propria limitata clientela la vendibilità della propria pelle a spese di tutte le altre. Le maestranze e i consigli di fabbrica, ormai da tempo, non trovano più il loro vero avversario nel management della loro impresa, bensì nei dipendenti delle imprese e dei "siti produttivi” concorrenti, non importa se nelle vicinanze o in Estremo Oriente. E quando si pone la domanda su chi, alla prossima ondata di razionalizzazione aziendale, sarà la vittima, anche il reparto vicino e il collega a fianco diventano nemici. La desolidarizzazione radicale non riguarda soltanto il confronto fra imprenditori e sindacati. Poichè proprio nella crisi della società del lavoro tutte le categorie funzionali si aggrappano ancora più fanaticamente alla logica che a questa è inerente, e cioè che ogni benessere umano non può essere altro che il sotto-prodotto di una valorizzazione redditizia, il principio dello scaricabarile domina tutti i conflitti di interesse. Tutte le lobbies conoscono le regole del gioco e agiscono di conseguenza. Ogni lira che guadagna l'altra clientela, è una lira persa per la propria. Ogni taglio all'altro lembo della rete sociale aumenta le possibilità di strappare un'ultima proroga per se. I pensionati diventano l'avversario naturale di tutti i contribuenti, il malato diventa il nemico di tutti gli assicurati e l'immigrato diventa il bersaglio dell'odio di tutti gli indigeni impazziti. Si esaurisce così irrversibilmente il progetto di voler usare il conflitto fra gli interessi, immanente al sistema, come leva per l'emancipazione sociale. E così la sinistra classica è arrivata al capolinea. Una rinascita della critica radicale al capitalismo presuppone la rottura con la categoria del lavoro. Soltanto quando si stabilirà un nuovo fine dell'emancipazione sociale al di là del lavoro e delle categorie feticistiche che ne derivano (valore, merce, denaro, Stato, forma giuridica, nazione, democrazia, ecc.), sarà possibile una ri-solidarizzazione ad alto livello e su scala sociale complessiva. E soltanto in questa prospettiva possono essere ri-aggregate anche delle battaglie di difesa, immanenti al sistema, contro la logica della lobbizzazione e dell'individualizzazione; comunque in un rapporto non più positivo, ma soltanto di negazione strategica, con le categorie dominanti. Fino ad ora, la sinistra esita a rompere con la categoria del lavoro. Essa minimizza i vincoli del sistema, riducendoli a semplice ideologia, e la logica della crisi, riducendola al semplice progetto politico delle classi "dominanti”. Invece di una rottura categoriale, si fa strada una nostalgia socialdemocratica e keynesiana. La sinistra non tende a creare una nuova, concreta universalità, per una società che vada oltre il lavoro astratto e la forma monetaria, ma tenta di aggrapparsi spasmodicamente alla vecchia, astratta universalità dell'interesse immanente al sistema. Tuttavia questi tentativi restano di per sè astratti, e non possono più integrare alcun movimento di massa, perchè chiudono gli occhi davanti alle reali circostanze della crisi. Tutto ciò vale in particolar modo per la richiesta di un salario di cittadinanza o di un reddito minimo garantito. Invece di collegare concrete battaglie sociali, di resistenza contro determinate misure del regime dell' apartheid, con un programma generale contro il lavoro, questa richiesta punta a mettere in piedi una falsa universalità della critica sociale, che da ogni punto di vista resta astratta, immanente al sistema e impotente. Non si può superare con questi palliativi la concorrenza sociale dovuta alla crisi. Si presuppone, ignari, che la società del lavoro globale continui a funzionare in eterno, perchè da dove arriverebbe il denaro necessario per finanziare questo reddito di base garantito dallo Stato, se non da processi riusciti di valorizzazione? Chi vuole costruire su tali "dividendi sociali” (e già l'espressione dice tutto), deve, nello stesso tempo ma tacitamente, presupporre una posizione privilegiata del "proprio” Paese nella concorrenza globale. Infatti, soltanto la vittoria nella guerra mondiale dei mercati permetterebbe transitoriamente di mantenere alcuni milioni di commensali "superflui” a casa propria, naturalmente escludendo tutti gli uomini senza il passaporto giusti. I riformatori fai-da-te, che propongono il reddito di cittadinanza, ignorano da ogni punto di vista la struttura capitalistica della forma monetaria. In fin dei conti, a loro importa soltanto di salvare, tra il soggetto capitalistico del lavoro e quello del consumo di merci, almeno quest'ultimo. Invece di mettere in discussione il modo di vivere capitalistico, il mondo deve continuare a essere seppellito, nonostante la crisi del lavoro, sotto valanghe di catorci puzzolenti, odiosi blocchi di cemento e carcasse di paccottiglia, e tutto purchè gli uomini conservino l' unica, miserevole libertà che essi possono ancora immaginarsi: la libertà di scelta davanti ai banconi del supermercato. Ma perfino questa prospettiva triste e limitata non è altro che un' illusione. I suoi sostenitori di sinistra, e i suoi teorici analfabeti, hanno dimenticato che il consumo capitalistico di merci non serve mai semplicemente alla soddisfazione di bisogni, ma non può essere altro che una funzione del movimento di valorizzazione. Se non si può più vendere la forza-lavoro, perfino bisogni elementari vengono considerati come pretese sfacciate e esagerate, che devono essere ridotte al minimo. E il reddito di cittadinanza sarà un mezzo per arrivare proprio a questo risultato, in quanto strumento di riduzione dei costi per lo Stato, e in quanto versione miserevole dei sussidi sociali, che prende il posto del sistema di protezione sociale ormai al collasso. In questo senso Milton Friedman, figura di punta del neo-liberismo, ha originariamente sviluppato il progetto del reddito minimo, prima che una sinistra in disarmo lo scoprisse come presunta àncora di salvezza. E con questo contenuto tale progetto diventerà realtà - o non lo diventerà mai.

16. IL SUPERAMENTO DEL LAVORO

"Il 'lavoro' è per sua essenza l'attività non-libera, inumana, asociale; esso è condizionato dalla proprietà privata e la crea a sua volta. L' abolizione della proprietà privata diventa dunque realtà solo quando è concepita come abolizione del 'lavoro' ". Karl Marx, Sul saggio di Friedrich List "Il sistema nazionale dell'economia politica”, 1845 La rottura con la categoria del "lavoro” non troverà delle parti sociali pronte e obiettivemente determinate come ne trovava il conflitto fra gli interessi immanenti al sistema. Si tratta di una rottura con la legalità falsamente oggettiva di una "seconda natura”, dunque non di un'altra realizzazione quasi automatica, ma di una coscienza che nega - un rifiuto e una ribellione che non hanno dietro di se una qualsiasi "legge della storia” . Il punto di partenza non può essere un nuovo principio astratto generale, ma soltanto il disgusto di fronte alla propria esistenza come soggetto del lavoro e della concorrenza, e il rifiuto di continuare a funzionare così a un livello sempre più misero. Nonostante la sua predominanza assoluta, al lavoro non è mai riuscito di cancellare completamente l'opposizione ai vincoli da esso stabiliti. Accanto a tutti i fondamentalismi repressivi e alla mania di concorrenza della selezione sociale, esiste anche un potenziale di protesta e di resistenza. Il disagio nel capitalismo è massicciamente presente, ma relegato nei bassifondi sociopsichici. Non viene chiamato alla luce. Perciò c'è bisogno di un nuovo spazio di libertà mentale, affinchè l'impensabile possa diventare pensabile. Bisogna spezzare il monopolio tenuto dal "campo del lavoro” sull'interpretazione del mondo. Alla critica teorica del lavoro spetta in quest'azione il ruolo di catalizzatrice. Essa ha il dovere di attaccare frontalmente i divieti di pensiero dominanti, e di esprimere tanto chiaramente quanto apertamente quel che nessuno ha il coraggio di sapere, e che tuttavia molti percepiscono confusamente: la società del lavoro è giunta alla sua fine. E non esiste la sia pur minima ragione di prendere il lutto per la sua dipartita. Soltanto la critica del lavoro, espressamente formulata, e un dibattito teoretico adeguato, possono creare quella nuova contro-opinione pubblica, la quale rappresenta il presupposto irrinunciabile per la costituzione di un concreto movimento sociale contro il lavoro. Le controversie interne al "campo del lavoro” si sono esaurite e diventano sempre più assurde. Tanto più urgente è allora ridefinire i contorni del conflitto sociale, lungo i quali si può formare un'Alleanza contro il lavoro. E' opportuno perciò chiarire a grandi linee quali obiettivi siano possibili per un mondo al di là del lavoro. Il programma contro il lavoro non si alimenta da un canone di principi positivi, ma dalla forza della negazione. Se l'affermazione del lavoro è andata di pari passo con l'espropriazione totale dell'uomo delle sue condizioni di vita, la negazione della società del lavoro può consistere soltanto nella riappropriazione, da parte dell' uomo, a un livello storico più elevato, del suo nesso sociale con gli altri. Perciò gli avversari del lavoro punteranno alla formazione di alleanze, di portata mondiale, fra individui associati liberamente, che strapperanno i mezzi di produzione e di esistenza alla macchina del lavoro e della valorizzazione, che gira ormai a vuoto, e ne prenderanno il controllo. Soltanto nella battaglia contro la monopolizzazione di tutte le risorse sociali, e di ogni potenziale di ricchezza, da parte dei poteri alienati, cioè mercato e Stato, si potranno conquistare spazi sociali di emancipazione. In questo contesto bisogna attaccare la proprietà privata in maniera nuova e diversa. Fino ad ora, per la sinistra la proprietà privata non è stata la forma giuridica del sistema produttore di merci, bensì una misteriosa "facoltà di disporre” soggettivamente delle risorse da parte dei capitalisti. Così si è potuta far strada l'assurda idea di voler superare la proprietà privata sul terreno della produzione di merci. Sicchè, di regola, alla proprietà privata fece da contraltare la proprietà di Stato ("nazionalizzazione”). Ma lo Stato non è altro che la comunità coatta ed esteriore, o l'astratta universalità, dei produttori di merci socialmente atomizzati, e dunque la proprietà statale è soltanto una forma derivata della proprietà privata - e non importa se vi venga aggiunto l'aggettivo "socialista”. Nella crisi della società del lavoro, diventano obsolete tanto la proprietà privata quanto quella dello Stato, perchè ambedue queste forme di proprietà presuppongono il processo di valorizzazione. Proprio per questo, i mezzi concreti restano in misura crescente inutilizzati e inaccessibili. E i funzionari statali, aziendali e giuridici vegliano gelosamente affinchè tutto rimanga così, e i mezzi di produzione vadano in malora piuttosto che essere impiegati per un fine diverso. La conquista dei mezzi di produzione, grazie a libere associazioni, contro la gestione coercitiva dello Stato e dell'apparato giudiziario, può dunque significare soltanto che questi mezzi di produzione non vengono più mobilitati nella forma della produzione di merci per anonimi mercati. Al posto della produzione di merci ci sarà la discussione diretta, l'intesa e la decisione comune dei membri della società sull'uso sensato delle risorse. Verrà stabilita l'identità sociale e istituzionale di produttore e consumatore, impensabile con il dominio del fine in sè capitalistico. Le istituzioni alienate, come Stato e mercato, verranno sostituite con un sistema, a diversi livelli, di Consigli, nei quali, dal quartiere fino alla scala planetaria, le libere associazioni decidono dell'allocazione delle risorse secondo una ragione sensibile, sociale ed ecologica. Non sarà più il fine tautologico del lavoro e dell' "occupazione” a determinare la vita, ma l'organizzazione dell'uso sensato delle possibilità comuni, che non vengono dirette da una "mano invisibile” automatica, ma dall 'agire sociale cosciente. Ci si approprierà direttamente della ricchezza prodotta secondo i bisogni, non secondo la "solvibilità”. Insieme con il lavoro, scompariranno l'astratta universalità del denaro e quella dello Stato. Al posto delle nazioni divise, ci sarà una società mondiale, che non avrà più bisogno di confini, nella quale tutti gli uomini si muoveranno liberamente, e potranno esigere il diritto universale di ospitalità in qualsiasi regione del globo. La critica del lavoro è una dichiarazione di guerra all'ordine dominante, non una pacifica coesistenza, in una nicchia, con i suoi vincoli. La parola d'ordine dell'emancipazione sociale può essere soltanto: "Prendiamoci quello che ci serve!” Non strisciamo più ginocchioni sotto il giogo dei mercati del lavoro e della gestione democratica della crisi! Il presupposto per tutto ciò è che nuove forme di organizzazione sociale (libere associazioni, Consigli) controllino le condizioni di riproduzione a livello sociale complessivo. Questa esigenza fa sì che gli avversari del lavoro siano sostanzialmente diversi da tutti i politicanti e dalle mezze calzette di un socialismo piccolo piccolo. Il dominio del lavoro scinde la persona umana. Esso divide il soggetto economico dal cittadino dello Stato, l'animale da lavoro dall'uomo del tempo libero, la sfera astrattamente pubblica da quella astrattamente privata, la virilità prodotta dalla femminilità prodotta, e contrappone i singoli isolati al loro nesso sociale come a una potenza estranea, che li domina. Gli avversari del lavoro lottano per superare questa schizofrenia nell' appropriazione concreta del nesso sociale da parte di uomini coscienti e autoriflessivi.

17. UN PROGRAMMA DI ABOLIZIONI CONTRO GLI AMANTI DEL LAVORO

"Ma che il lavoro stesso sia non solo nelle attuali condizioni, ma in quanto il suo scopo in generale è il puro e semplice accrescimento della ricchezza, voglio dire che il lavoro stesso sia dannoso e disastroso, risulta, senza che l'economista (Adam Smith) lo sappia, dalle sue analisi”. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844 Agli avversari del lavoro si rimprovererà di non essere altro che sognatori. "La storia ha dimostrato - si argomenterà - che una società che non si basa sui principi del lavoro, della prestazione obbligata, della concorrenza di mercato e dell'interesse del singolo non può funzionare”. Si risponderà: "Allora voi, apologeti dello status quo, volete affermare che la produzione capitalistica di merci ha donato effettivamente alla maggioranza degli uomini una vita anche solo lontanamente accettabile? Chiamate tutto ciò 'funzionare', quando proprio la crescita vertiginosa delle forze produttive esclude dall'umanità miliardi di uomini, che possono ritenersi soddisfatti se sopravvivono di rifiuti? Quando altri miliardi di persone riescono a sopportare ancora una vita vissuta sotto la sferza del lavoro soltanto isolandosi, stordendosi e ammalandosi fisicamente e psichicamente? Quando il mondo viene trasformato in un deserto, soltanto per trarre dal denaro altro denaro? Bene: questo è effettivamente il modo in cui il vostro grandioso sistema del lavoro 'funziona'. Ma noi non vogliamo fornire questo tipo di prestazioni!”. "Il vostro autocompiacimento riposa sulla vostra ignoranza e sulla vostra debole memoria. L'unica giustificazione che riuscite a trovare per i vostri crimini presenti e futuri, è lo stato del mondo, che si basa sui vostri crimini passati. Avete dimenticato e rimosso, di quali massacri di Stato si ebbe bisogno, finchè agli uomini fu bene impressa nel cervello, con le torture, la vostra menzognera "legge naturale”, secondo cui è addirittura una gioia essere "occupati” eteronomamente, e farsi succhiare l'energia vitale per l'astratto fine a se stesso del vostro idolo-sistema”. "Prima si dovettero annientare tutte le istituzioni dell'autorganizzazione e della cooperazione autodeterminata nelle antiche società agrarie, finchè l 'umanità interiorizzò il dominio del lavoro e dell'egoismo. Forse il lavoro fu compiuto fino in fondo. Non siamo ottimisti a tutti i costi. Non possiamo sapere se la liberazione da quest'esistenza condizionata sarà possibile. Resta una questione aperta, se il tramonto del lavoro porterà al superamento della follia del lavoro, oppure alla fine della civiltà. "Voi obietterete che con il superamento della proprietà privata, e dell' obbligo a guadagnare denaro, ogni attività cesserà e si instaurerà una pigrizia generalizzata. Ammettete dunque che il vostro intero sistema 'naturale' riposa sulla pura e semplice costrizione? E che per questo temete la pigrizia come un peccato mortale contro l'idolo 'lavoro'? Eppure gli avversari del lavoro non hanno niente contro la pigrizia. Uno dei loro obiettivi principali è anzi quello di far rinascere la cultura dell'ozio, che una volta tutte le società conoscevano, e che fu annientata per imporre un produrre indiavolato e assurdo. Per questo gli avversari del lavoro fermeranno prima di tutto, senza sostituirli, tutti quei numerosi settori produttivi che servono soltanto a conservare - senza tenere conto delle perdite - il folle fine tautologico del sistema produttore di merci?” "Noi non parliamo soltanto di quei settori lavorativi che sono chiaramente pericolosi per tutti, come l'industria automobilistica, quella degli armamenti e quella atomica, ma anche della produzione di quelle numerose protesi di senso e di quegli stupidi oggetti da divertimento, che dovrebbero rappresentare per l'uomo da lavoro un surrogato della sua vita sprecata. Scomparirà anche quella enorme quantità di attività che esistono soltanto perchè i prodotti di massa devono essere fatti passare attraverso la cruna d 'ago della forma monetaria e della mediazione del mercato. Oppure pensate che saranno ancora necessari ragionieri e revisori dei conti, specialisti di marketing e venditori, legali rappresentanti e creativi pubblicitari, non appena le cose saranno prodotte secondo il bisogno, e tutti si prenderanno semplicemente quel che a loro serve? E a che scopo dovrebbero ancora esistere funzionari delle finanze e poliziotti, assistenti sociali e amministratori della povertà, quando non ci sarà più una proprietà privata da difendere, non si dovrà più gestire la miseria sociale e nessuno dovrà essere addestrato per le necessità alienate del sistema?” "Ci sembra di sentire già il grido di dolore: 'Quanti posti di lavoro persi!' Giusto. Ma provate a calcolare quanto tempo di vita l'umanità si ruba ogni giorno, soltanto per accumulare 'lavoro morto', per amministrare esseri umani e per lubrificare il sistema dominante. Quanto tempo potremmo passare stesi tutti al sole, invece di tormentarci per cose, sul cui carattere grottesco, repressivo e distruttivo sono già state scritte intere biblioteche! Ma non temete. Non cesserà ogni attività quando scompariranno gli obblighi del lavoro. Però, ogni attività avrà un carattere diverso, quando non sarà più incanalata in una sfera, tautologica e desensualizzata, di tempi continui astratti, ma potrà seguire la propria misura del tempo, variabile a seconda degli individui, e sarà integrata in rapporti di vita personali, quando, anche in grandi forme organizzative della produzione, gli uomini stessi ne determineranno il corso, invece di essere determinati dal diktat della valorizzazione aziendale. Perchè lasciarsi pungolare dalle sfacciate pretese di una concorrenza imposta? Occorre riscoprire il valore della lentezza. "Naturalmente non scompariranno quelle attività legate alla gestione della casa e alla cura degli uomini, che nella società del lavoro vengono rese invisibili, scisse e definite come 'femminili'. Nè cucinare nè cambiare i bambini dev'essere automatizzato. Se, insieme con il lavoro, verrà superata anche la divisione delle sfere sociali, queste attività necessarie potranno diventare oggetto di una cosciente organizzazione sociale, al di là delle attribuzioni sulla base del sesso. Perderanno il loro carattere repressivo, non appena non governeranno più gli esseri umani, ma saranno eseguite nella stessa misura da uomini e donne, a seconda dei bisogni e delle situazioni.” "Noi non vogliamo dire che così ogni attività diventerà un piacere. Alcune lo saranno di più, altre di meno. Naturalmente ci sarà sempre qualcosa di necessario, che deve essere fatto. Ma chi dovrebbe spaventarsene, se la vita non ne sarà più completamente divorata? Prevarrà comunque tutto ciò che si potrà fare per libera scelta. Infatti, essere attivi è un bisogno tanto quanto oziare. Nemmeno il lavoro è riuscito a cancellare interamente questo bisogno, ma lo ha strumentalizzato a suo favore e se lo è succhiato da vero vampiro”. "Gli avversari del lavoro non sono fanatici di un attivismo cieco nè di un cieco farniente. Ozio, attività necessarie e attività liberamente scelte dovranno essere conciliate in un rapporto sensato, che si realizzerà a seconda dei bisogni e dei contesti vitali. Una volta sottratte ai vincoli concreti del lavoro, le moderne forze produttive potranno estendere enormemente il tempo libero disponibile per tutti. Perchè passare tante ore, giorno dopo giorno, nei capannoni delle fabbriche e negli uffici, se robot di ogni tipo possono risparmiarci la maggior parte di queste attività? Perchè far sudare centinaia di corpi umani, se bastano alcune trebbiatrici? Perchè sprecare energie in compiti di routine, che un computer può tranquillamente eseguire?” "Tuttavia, si può utilizzare a questi fini soltanto una minima parte della tecnica nella sua forma capitalistica. Il grosso degli apparati tecnici dovrà essere completamente ristrutturato, perchè è stato costruito secondo il criterio limitato della redditività astratta. D'altra parte, molte possibilità tecniche, per la stessa ragione, non sono state per nulla sviluppate. Sebbene si possa ottenere energia solare ad ogni angolo di strada, la società del lavoro mette al mondo centrali atomiche centralizzate e pericolose. E sebbene siano da tempo noti metodi di produzione agricola rispettosi della natura, il calcolo finanziario astratto rovescia nell'acqua veleni di ogni tipo, distrugge il terreno e appesta l'aria. Per ragioni di pura redditività, materiali da costruzione e alimenti fanno tre volte il giro del mondo, sebbene la maggior parte delle cose possa essere prodotta facilmente sul posto senza troppi trasporti. Una parte consistente della tecnica capitalistica è tanto insensata e superflua quanto l'impiego corrispondente di energia umana”. "Con tutto ciò non vi diciamo niente di nuovo. E tuttavia non trarrete mai le conseguenze di ciò che voi sapete benissimo da soli. Infatti vi rifiutate di decidere coscientemente quali mezzi di produzione, trasporto e comunicazione si possano utilizzare in maniera sensata, e quali siano dannosi o semplicemente inutili. Tanto più freneticamente reciterete il vostro mantra della libertà democratica, tanto più ostinatamente respingerete la più elementare libertà sociale di scelta, perchè volete continuare a servire il cadavere dominante del lavoro e le sue pseudo-leggi 'naturali'.”

18. LA BATTAGLIA CONTRO IL LAVORO E' ANTI-POLITICA

La nostra vita è un assassinio attraverso il lavoro, ci fanno penzolare appesi alla corda per 60 anni e ci dimeniamo, ma noi ci libereremo”. Georg Bhchner, La morte di Danton, 1835 Il superamento del lavoro è tutt'altro che una vaga utopia. Nelle forme attuali, la società mondiale non può andare avanti per altri 50 o 100 anni. Il fatto che gli avversari del lavoro debbano vedersela con un idolo del "lavoro” già clinicamente morto, non rende necessariamente più facile il loro compito. Infatti, tanto più la crisi della società del lavoro si acuisce, e tutti i tentativi di aggiustamento falliscono il bersaglio, tanto più si allarga il divario tra l'isolamento delle monadi sociali impotenti e le esigenze di un movimento di appropriazione della società nel suo complesso. Il crescente imbarbarimento dei rapporti sociali, in ampie regioni del mondo, dimostra che la vecchia coscienza del lavoro e della concorrenza si perpetua a un livello sempre più basso. La decadenza progressiva della civiltà sembra essere, nonostante tutti i sintomi di un disagio nel capitalismo, la forma spontanea in cui si sviluppa la crisi. Proprio con prospettive talmente negative, sarebbe fatale mettere da parte la critica pratica del lavoro in quanto programma sociale, e limitarsi a costruire una precaria economia di sopravvivenza fra le rovine della società del lavoro. La critica del lavoro ha una chance soltanto se combatte contro il processo di desocializzazione, invece di lasciarsi trascinare da questa corrente. Gli standard di civiltà non si possono più difendere con la politica democratica, bensì soltanto contro di essa. Chi punta sull'appropriazione emancipatrice e sulla trasformazione dell' intero edificio dei rapporti sociali, non può permettersi di ignorare l' istanza che fino ad ora ne ha organizzato le condizioni generali di esistenza. E' impossibile ribellarsi contro l'espropriazione delle proprie potenzialità sociali senza confrontarsi con lo Stato. Infatti lo Stato amministra non soltanto circa la metà della ricchezza sociale, ma assicura anche la sottomissione obbligatoria di ogni potenzialità sociale ai comandamenti della valorizzazione. Nè gli avversari del lavoro possono ignorare lo Stato e la politica, nè vi possono partecipare. Se la fine del lavoro è anche la fine della politica, allora un movimento politico a favore del superamento del lavoro sarebbe una contraddizione in termini. Gli avversari del lavoro rivolgono richieste allo Stato, ma non costituiscono un partito politico, nè mai ne creeranno uno. Il fine della politica può essere soltanto quello di conquistare l'apparato dello Stato per andare avanti con la società del lavoro. Dunque gli avversari del lavoro non vogliono occupare i centri nevralgici del potere, bensì metterli fuori uso. La loro battaglia non è politica ma anti-politica. Lo Stato e la politica dell'era moderna sono uniti inseparabilmente al sistema coercitivo del lavoro, e perciò devono scomparire insieme con esso. Le chiacchiere su una rinascita della politica sono soltanto il tentativo di riportare la critica del terrore economico a un rapporto positivo con lo Stato. L'auto-organizzazione e l'autodeterminazione sono però l'esatto contrario dello Stato e della politica. La conquista di spazi di libertà socio-economica e culturale non si realizza seguendo i labirinti della politica, ma costituendo una contro-società. Libertà significa non farsi accoppare dal mercato nè farsi amministrare dallo Stato, ma organizzare le relazioni sociali secondo la propria regia, senza l'intromissione di apparati alienati. In questo senso, per gli avversari del lavoro si tratta di trovare nuove forme per i movimenti sociali e di conquistare teste di ponte per una riproduzione della vita al di là del lavoro. Occorre legare le forme di una contro-società con il rifiuto aperto del lavoro. Che le potenze dominanti ci dichiarino pure pazzi, perchè vogliamo provare a rompere con il loro irrazionale sistema coercitivo. Noi non abbiamo nient' altro da perdere se non la prospettiva della catastrofe verso la quale ci stanno guidando. Abbiamo invece da guadagnare un mondo al di là del lavoro. Proletari di tutto il mondo, dite basta!