1. Internet come mezzo del capitalismo
transnazionale high-tech
Mentre ha una trama orizzontale, è assoggettata alla verticalizzazione
delle imprese. La rete è anarchica e riproduce, tuttavia, dominio.
Accelera il nesso merce-denaro-profitto, ma nel caso dei beni digitalizzati
trascende la forma merce e la forma denaro. In quanto decentrata si
offre al centro come mezzo strategico. Si può utilizzare interattivamente
come il buon vecchio servizio postale, ma contiene anche criteri unilaterali
di distribuzione. È come se fosse stata creata per il capitalismo
transnazionale, ed è tuttavia - come direbbero i "regolazionisti"
- soltanto un oggetto trovato, che non è stato creato ma "rinvenuto"
in un certo momento e applicato nell’attività centrale delle transazioni
finanziarie. È come se il general intellect di cui parla Marx
nei Grundrissen - der allgemeine gesellschaftliche Verstand -
avesse ottenuto attraverso Internet il proprio sistema nervoso. Tuttavia,
questo mezzo è, nella sua generalità formale, materialmente esclusivo,
e come mezzo del capitalismo è il mezzo finora più razionale per mezzo
del quale viene comunicata e potenziata l’irrazionalità del sistema.
Se l’essenza umana ha la sua realizzazione nell’"insieme dei rapporti
sociali", la spinta a cambiare questi rapporti in una "aggregazione",
messo in atto dalla rete globale, significa di fatto una trasformazione
della realtà dell’uomo. Anche altre trasformazioni vanno ricondotte,
concettualmente, a questa trasformazione. Bill Gates è convinto che
l’economia "cambierà nei prossimi dieci anni molto più intensamente
di quanto sia accaduto negli ultimi cinquant’anni". Schirrmacher,
l’editore della "Frankfurter Allgemeine Zeitung", afferma di scienziati
e tecnici, i protagonisti della trasformazione capitalistica: "Produrranno
la più grande trasformazione sociale che sia mai stata attuata senza
guerra"[1]. Indipendentemente
dagli interessi speculativi e dalla rimozione dei processi sociali,
implicite in tali concezioni dove non è possibile distinguere tra
scienza e fiction, non c’è dubbio che il capitalismo stia mutando
e, con esso, l’esistenza umana in tutte le sue forme. Vale la pena
riflettere su questa metamorfosi e approfondire le nuove forme dell’agire
sociale e gli effetti che ne conseguono. Se qualsiasi teoria critica
deve iniziare con la critica dell’economia politica, ciò vale tanto
più nella misura in cui un vero e proprio "pensiero drogato" si è
impadronito della speculazione ideale, parallelamente alla speculazione
del "nuovo mercato". Questo pensiero viene nutrito per mezzo di un’accumulazione
niente affatto originaria: il capitalismo più moderno si espande in
modo cannibalico inghiottendo il capitalismo meno moderno, così come
è stato osservato da Rosa Luxemburg al riguardo dello stadio precapitalistico.
Le teorie hanno iniziato a capovolgersi con l’andamento del mercato
azionario dei titoli tecnologici. L’utopia sociale era quasi del tutto
rimossa, i mezzi di comunicazione di massa borghesi si cullavano in
una utopia della tecnica, priva di caratterizzazione sociale. C’era
chi annunciava lo smantellamento della realtà a favore del virtuale
e chi, invece, si avventurava in fantasie d’ogni genere sul dominio
della realtà. Mentre il consumo delle risorse abbatte tutti i record
precedenti [2], si parla di dematerializzazione dell’economia. Con la
digitalizzazione il vecchio mondo dello spirito sembra risuscitare
l’"immateriale" e l’"iperfisico". Gli strumenti teoretici dell’analisi
marxista del capitalismo sono stati tolti di mezzo, en passant.
Così la terza rivoluzione tecnico-scientifica è venuta a nozze con
la spacconeria intellettuale, una nuova fede nei miracoli, che si
entusiasma con "le storie di successo delle e-Companies che sanno
di fiabesco". È la disinformazione di quella che si ritiene la società
dell’informazione. Quella che si dà la arie di "società del sapere"
si consegna alla speculazione in cui denaro e spirito si inseguono
in completa promiscuità.
In questa tempesta di euforia da speculazione e crac finanziari, di
capitali fittizi e nuovi proletariati, è ormai tempo di mettere di
nuovo in movimento la gaia scienza della critica e ricordare l’ironia
di Gramsci quando descriveva con il termine "lorianesimo" l’idiozia
intellettuale e speculativa. Adagiarsi sulle corone d’alloro di un
marxismo d’epoca fordista non è migliore di quei discorsi alla moda
del lorianesimo [3]. Occorre "defordizzare" la teoria critica. Spiegare
il nuovo come semplice travestimento del vecchio, nei termini in cui
è stato analizzato da Marx - e come alcuni preferiscono fare per riposarsi
- toglierebbe valore al marxismo molto di più di quanto non facciano
le dichiarazioni di morte. Occorre perciò rivolgere la fatica del
concetto ai nuovi fenomeni e ai nuovi discorsi e tentare di distinguere
i miti dalla realtà, le manifestazioni congiunturali da quelle strutturali.
Ma soprattutto occorre pensare il nuovo a partire dal nuovo modo di
produzione. Il "capitalismo da casinò" è stato soltanto la sovrastruttura
finanziaria della nascita del nuovo modo di produzione. È ormai finita
l’epoca in cui si poteva parlare di "postfordismo"[4]o "superfordismo" con la parvenza di essere intellettuali
attuali. La nuova formazione è progredita nel tempo molto di più di
quanto non lo fosse quella fordista quando Antonio Gramsci la analizzò.
Il "modo industriale del lavoro sociale" (Marx/Engels) si configura
oggi come transnazionale nei settori dominanti della microelettronica
e riguardo alla sua portata geografica e politica. In generale, le
forze produttive sono diventate - e lo diventano sempre più - altamente
tecnologizzate per gli effetti della tecnologia che guida la produzione
di computer[5]. Perciò si può parlare di capitalismo transnazionale
ad alta tecnologia. Internet è il suo mezzo. Le sue forme di connessione
della prassi umana rinviano, tuttavia, a un superamento del capitalismo,
esattamente come quegli "elementi della nuova società presenti nel
grembo di quella vecchia"[6] di cui parlava Marx. Ma anche laddove quelle forme
producono rapporti sociali e pratiche che trascendono il capitalismo,
esse vengono trattenute a un livello immobile. Esse possono persino
raffigurare quel "verme culturale" - ad esempio, il modello del giovane
milionario della new economy - con cui il capitalismo getta
l’esca per quelle energie che tendono ad andare oltre di esso.
2. Forme e funzioni della comunicazione di rete
"La tecnica on-line non è molto di più di una tecnica di trasmissione"
(Wildemann 2000). A questa rigida determinazione bisogna aggiungere
che essa è limitata alle immagini digitalizzate. La tecnica on-line
segna una cesura epocale poiché ha prodotto il primo mezzo effettivo
di comunicazione di massa. "Dal punto di vista della possibilità
ogni posizione periferica è, nella rete, ugualmente centrale, oppure,
in altri termini, la centralità stessa - in quanto posizione - è sostituita
dalla rete" (Haug 1999, 32).
Grazie ad essa masse di persone possono comunicare l’una con l’altra
indipendentemente dalla distanza geografica, sia in modo lineare da
un io a un altro determinato, sia in modo dispersivo tra altri indeterminati.
Ciò accade di fatto a livelli sempre più allargati. La struttura caratteristica
di questa tecnica sposta il senso di concetti come "masse" e "dispersione",
poiché ogni ricevente è anche trasmittente, tendenzialmente in tutto
il mondo anche se ostacolato dalla barriere linguistiche.
Le pratiche d’uso e gli attori conferiscono a Internet molti aspetti.
Non solo la commercializzazione lotta con l’autorganizzazione, ma
anche le diverse forme di commercializzazione lottano fra loro per
l’egemonia in Internet. Internet si impone alle sue masse di neofiti
come un supermercato virtuale con estese zone a luci rosse, come il
mezzo ideale, erede di tutti i contenitori di pubblicità, come distributore
della droga dell’intrattenimento. Si deve comprare & consumare,
soprattutto pagare ed esporsi alla pubblicità, pagare per gli altri.
Accanto a tutto questo, però, Internet è anche un mezzo di autorganizzazione,
una sfera di formazione e movimento di una società civile virtuale,
anche se amputata poiché manca l’elemento dello Stato (cfr. su ciò
Haug 1999, 44-66).
Il dispositivo della comunicazione in Internet chiama in gioco nuovi
soggetti e nuovi tipi di merci, cambia processi e relazioni in tutte
le sfere dell’esistenza sociale. Gli effetti vengono riassunti in
espressioni some "economa dell’informazione" "società del sapere"
e stringhe varie che mettono in rapporto la società con altri concetti.[7]I cosiddetti "beni dell’informazione" hanno la funzione
di merci, di essere non soltanto vendibili su Internet, ma anche di
circolare. Nella definizione di Shapiro e Varian sono "tutti quei
prodotti che possono essere digitalizzati e, quindi, conservati in
forma di bit" (Schmidt 2000b). Il termine informazione, con un salto
rispetto all’originario ambito militare, è diventato un concetto generale
che in sé è vuoto e va definito contestualmente. "Beni dell’informazione"
possono essere tanto fotografie quanto programmi per computer, tanto
brani musicali quanto testi. Per precisare il concetto dei beni digitali
bisogna partire dal loro criterio di definizione. Detto per via di
negazione: "prodotti che consistono di materia, non si lasciano inviare
sotto forma di flussi di dati" (Hutter 2000). Più precisamente: la
loro materialità non può essere oggettuale, ma deve avere la forma
di un algoritmo energetico. In Internet non solo circolano beni digitali
di questo tipo, ma esiste una loro sottospecie — software industriale
della infrastruttura informatica — che rende possibile quella stessa
circolazione.
I produttori di beni digitali vengono chiamati "lavoratori dell’informazione"
o "del sapere", oppure — per dirla con Robert Reich - "lavoratori
simbolici". La loro concreta attività è spesso intesa come "lavoro
immateriale" (cfr. Argument 235/2000) e i loro prodotti sono
contrapposti come "prodotti digitali" a quelli "fisici" (Hunkel).[8]
Le occupazioni imprenditoriali — persone più o meno autonome che in
Internet conducono affari — comprendono un ampio spettro di forme
ibride (Reiss 2000). La figura di confine è quella forma assurda dell’"imprenditore
di sé", spiegata dai postoperaisti come Negri. Dietro simili "interessanti
definizioni si nasconderebbero i casi sociali delle imprese" con la
formula del "net-work o not-work" (Reiss).
Gli effetti sull’occupazione provocati dalla riorganizzazione dell’economia
attraverso Internet, sono circondati da miti, come quello della new
economy. Ulrich Klotz, dell’Ig Metall, alle politiche della ricerca
e della tecnologia, crede all’autovalorizzazione del "lavoro dell’informazione"
(2000a). Certo, egli vede, da un lato, la riduzione del lavoro retribuito:
il volume del lavoro industriale diminuisce drammaticamente (nonostante
la produzione cresca); dall’altro lato, ritiene che in ambito intellettuale
il lavoro si moltiplichi da solo:[9] "quante più persone
elaborano sapere, quanto più efficaci sono gli it-sistemi, quanto
più sorgono materia prima e compiti per altri lavoratori del sapere
— il lavoro genera sempre nuovo lavoro". Non è chiaro se egli intenda
qui posti di lavoro o l’abbattimento dei limiti degli orari di lavoro
dei nuovi lavoratori dell’informazione. Come un tempo l’introduzione
del lavoro meccanizzato portò al prolungamento dell’orario lavorativo,
così in un contesto di alta tecnologia "una crescente produttività"
è causa "per molti lavoratori dell’informazione non di tempi di lavoro
più brevi, ma al contrario di confini incerti tra lavoro e libertà,
e si è sempre più occupati, soprattutto con informazioni" (ibidem).
Il discorso riguarda gli straordinari non pagati.
È questo il miracolo dell’occupazione tanto lodato dal ministro dell’economia
Müller. "Il tipico lavoratore del nuovo mercato" che in caso di necessità
lavora anche cento ore alla settimana,[10]"ha tra i 30
e i 35 anni, buona istruzione e abita in una grande città. […] Uno
su due ha una formazione tecnica o nelle scienze naturali, l’altra
metà è composta da commercianti o specialisti nell’elaborazione elettronica
dei dati" (Hoffman 2000). Il ministro ritiene sicuri questi posti
di lavoro. "Nonostante la borsa viaggi spesso sulle montagne russe,
gli effetti sull’occupazione sono abbastanza indipendenti dalle oscillazioni
azionarie — a giudizio di Müller - alcune società possono forse sparire
dal listino dei titoli, inghiottite dalle imprese più grandi. Ma con
ciò non scompaiono i posti di lavoro".
In modo cinico e sobrio il consulente d’impresa Roland Berger completa
la concezione del ministro dell’economia Müller con un’altra ricetta
per l’accrescimento dei posti di lavoro: "i tecnici informatici hanno
poco tempo e molto denaro, quindidevono alimentare la domanda di servizi,
come le consegne — e anche questo crea lavoro" (ibidem).
I "nuovi economisti" promettono tanti altri "miracoli". Profetizzano
non solo una "occupazione crescente con scarsi tassi d’inflazione",
ma addirittura "la fine del ciclo congiunturale" e la "morte dell’inflazione"
(Beck 2000a). In altri, invece, si fa avanti un’ombra di dubbio per
cui l’inflazione potrebbe aver "cambiato soltanto modo di manifestarsi"
- "invece dell’inflazione dei prezzi al consumo constatiamo un’inflazione
dei fondi patrimoniali" (ibidem). Anime dense di presagi! Ritorneremo
su questo.
3. "La nuova invenzione dell’economia":il cambiamento
del capitale sociale
Internet non significa certo, come spesso si afferma, il dileguare
della società industriale, ma probabilmente un diverso strutturarsi
dei suoi dispositivi spazio-temporali. Per chiarire meglio è bene
fare un passo indietro: già prima dell’invasione capitalistica di
Internet, le nuove tecnologie della comunicazione hanno prodotto,
sulla base dell’automazione dell’industria, "una globalizzazione delle
operazioni, dalla borsa al management nella produzione e distribuzione,
preparando il cammino per l’emergere delle imprese transnazionali
come forma dominante del capitale industriale attuale" (Haug 1999,
24f). La capacità di comunicare e calcolare, combinate fra loro, non
funzionava però in modo lineare, intentione recta, come una
telefonata tra una centrale e le filiali. Le imprese transnazionali
potevano integrare i propri segmenti produttivi dislocati sul globo
per esigenze di mercato, grazie all’"annullamento dello spazio mediante
il tempo" (Marx, Grundrisse, 445) per ciò che riguardava la
trasmissione di dati. Si è trattato di una trasformazione epocale
dei rapporti del mercato mondiale, della divisione internazionale
del lavoro e del sistema politico mondiale.
Internet mette ora a disposizione una struttura senza centro, un mezzo
di diffusione di contenuti digitali, tendenzialmente privo di confini
e, al tempo stesso, in grado di collegare in ogni direzione e in maniera
reciproca. Così interviene un’ulteriore cambiamento della divisione
internazionale del lavoro, anche se è una esagerazione ideologica
parlare di "divisione globale del lavoro" (Klotz 2000a). Il livello
sociale di produzione non solo con Internet cresce quantitativamente,
ma si trasforma qualitativamente. La concentrazione in un luogo perde
di significato nell’organizzazione di quelle produzioni che poggiano
sulla divisione e la cooperazione del lavoro. "Mentre al telefono
è solo il parlare che si rende indipendente dal luogo, con la rete
informatica è una cifra incredibile di ulteriori attività umane a
perdere il legame con il luogo" (Klotz 2000a).[11] Il coordinamento
delle singole attività e funzioni permette di superare qualsiasi distanza
terrestre. — Per chiarire il significato delle trasformazioni strutturali
prodotte da Internet, basta ricordare quale rivoluzione un tempo ha
rappresentato l’elettricità. Laddove, prima, ogni fabbrica aveva una
propria produzione d’energia, con le macchine a vapore, in seguito
la produzione energetica si separa e diventa un branca autonoma, modificando
la divisione sociale del lavoro. Allora diventò decisiva la rete di
collegamento. Il generatore elettrico che trasformava l’energia meccanico-cinetica
in elettrica, trovò il suo opposto complementare nel motore elettrico,
che trasformava, all’inverso, l’energia elettrica in movimento.
Internet è un mezzo per connettere attraverso la diffusione. Siccome
l’industria "dipende sostanzialmente dalle tecniche di coordinamento,
di volta in volta disponibili" (Klotz 2000a), i meccanismi di potere
del capitale si dispongono diversamente grazie alle nuove tecnologie
della rete, sia all’interno della fabbrica, sia tra le fabbriche stesse.
Dopo la transnazionalizzazione dell’impresa, "questa tecnologia trasversale
ha rivoluzionato l’organizzazione delle imprese" ed ha "permesso,
grazie a una migliore elaborazione delle informationi, la frammentazione
della produzione, laddove le condizioni fiscali sono più vantaggiose,
e mantenendo piccoli centri direttivi" (Siebert).
Un elemento di razionalizzazione della new economy è la "riduzione
dei costi di transazione" come effetto della rete informatica (Beck
2000). "I costruttori di computer come Microsoft e Cisco hanno drasticamente
ridotto i loro costi di transazione e raggiunto profitti del 50% e
oltre" (Schmidt 2000). Nel 1937 l’analisi di R.H.Coase sottolineava
che
Le imprese sono trattenute essenzialmente dai costi di transazione.
Egli metteva in luce che non solo le spese di produzione, ma anche
i costi elevati per ricerche, trattative e collegamenti fanno parte
delle strategie di mercato di allocazione delle risorse. Ciò mette
in moto, all’interno delle imprese, processi per sviluppare una maggiore
efficienza. Secondo questa teoria, un’azienda crescerà finché i costi
per organizzare al proprio interno una transazione sono uguali alle
spese che si devono sostenere sul mercato per eseguire la medesima
transazione. (Tzermias 2000c)
L’esigenza di cambiare le condizioni delle transazioni è "una fonte
di idee commerciali; le tecnologie informatiche e i loro effetti sui
costi sono perciò la molla principale della new economy".[12]
Un consulente d’impresa americano decrive l’effetto di questo meccanismo
oltre i confini di Internet come "decostruzione e rottura delle catene
tradizionali di creazione di valore in tutte le industrie attraverso
la concorrenza online".[13] Se il commercio si è installato
in Internet, non solo perde di senso la differenza tra commercio all’ingrosso
e commercio al dettaglio, ma viene messa in discussione anche la classica
distinzione tra produzione e commercio. Si va verso una "integrazione
verticale" di produzione, distribuzione e accesso alla rete, mentre
la logistica dei processi materiali si differenzia in termini nuovi.
Così "i sistemi di distribuzione dispendiosi, completi di reti di
venditori specializzati, diventano rapidamente obsoleti", mentre "piccoli
mercati con clienti rastrellati in tutto il mondo diventano lucrativi"
(Hutter 2000). Per l’economia industriale, e per l’economia in generale,
questo significa "riscoprirsi nuovi" (Wildemann 2000). Se sia qualcosa
di più di una parvenza transitoria, l’aspettativa di "nuovi modelli
di impresa e di nuovi processi di creazione di valore" (Klotz 2000),
non è ancora possibile stabilire. Ma un elemento riguardo alle trasformazioni
della concorrenza e dello stato di aggregazione interno delle imprese,
si può stabilire.
Alcuni si aspettano da Internet un avvicinarsi allo "ideale classico
della concorrenza perfetta" (Beck 2000a) o il mercato compiuto, altri
il superamento del mercato. Bill Gates ritiene che "grazie ad Internet
il mercato ideale di Adam Smith possa realizzarsi in modo ancora migliore.
Il nuovo mezzo permetterebbe un capitalismo privo di attriti" (Tzermias
2000d). Jeremy Rifkin vede l’emergere di "reticolati al posto del
mercato" (12 agosto 2000). Entrambe le opinioni fra loro contrapposte
sono fuochi fatui sopra la palude di uno stesso vuoto concettuale.
Quella trasparenza di cui parla Bill Gates, non porta necessariamente
alla diminuzione dei costi, e procura "piuttosto prezzi più alti"
(Henkel 2000).[14] L’anima del mercato, la concorrenza,
si è radicalizzata: "la competizione non si trova più nel mercato,
ma intorno al mercato" (Schmidt 2000a). Soltanto se un’impresa conquista
il mercato, essa controlla anche il prezzo. — La prognosi di Rifkin,
a sua volta, come avrebbe predetto Adam Smith, è che in futuro al
posto del mercato nascerà la posta. Dalla prospettiva del rapporto
merce-denaro, il reticolato è "un nuovo canale di distribuzione" (Jahn
2000) e il "mercato" non è il vecchio mercato settimanale, ma la sfera
della circolazione. Questa esiste come l’insieme di tutti i mezzi
e i modi in cui si svolgono i processi di mercificazione e in cui
l’offerta incontra la domanda. "Il denaro ha ormai sempre più il dono
dell’onnipresenza" e rende il mondo un "megamercato" (Marcos). Mentre
l’informatica e i dispositivi integrati di calcolo e comunicazione
uniscono tendenzialmente il mondo, il potere finanziario dominante
attua una dislocazione: esso frantuma il mondo in un puzzle, di cui
ogni pezzo è, a sua volta, un altro puzzle.
I complessi industriali diventano un puzzle di diverso tipo. La concorrenza
si abbatte sulle singole aziende e i confini dei gruppi vengono bucherellati
dalla relazione merce-denaro, come accadeva una volta con le mura
dei castelli feudali. L’impresa deve concorrere con le altre imprese
non più come un aggregato, come un complesso, ma è come se il comparativo
profitto-razionalità la sciogliesse in tante imprese indipendenti.
I singoli comparti produttivi vengono esposti alla concorrenza con
offerte all’esterno dell’azienda. La linea divisoria tra profitti
maggiori e minori è l’unico confine che conta, mentre quello fra la
propria impresa e l’impresa estranea perde sempre più di significato.
Il rpofitto più grande uccide il profitto più piccolo. È un altro
modo di esprimere la frase di Marx: "ciascun capitalista ne uccide
molti altri" (MEW 23, 790). La competizione tra le imprese si è estesa
dal mercato dei beni al "mercato dei fattori". Si acuisce la concorrenza
"per i fattori variabili della produzione, per il capitale variabile,
il sapere tecnico e la forza lavoro altamente qualificata" (Siebert).
D’altra parte, Internet rende possibili nuovi canali di profittabilità.
Il chi uccide chi della concorrenza qui non vale più, perché il vincitore
non si vede. "Al posto dell’istinto omicida e della ipercompetitività
emergono strategie di cooperazione, di rete, di partecipazione e di
alleanze" (Wildemann 2000).
Cambia con ciò anche la categoria di transnazionalità. Dapprima, i
complessi industriali nazionali allargavano il loro campo d’azione
ovunque i mercati di sbocco, in virtù dell’integrazione tra informatica
e telecomunicazioni, diventavano, d’un salto, fonte di maggiori profitti.
Dal punto di vista delle operazioni, lo spazio significava tempo.
Quando la tecnologia ha ridotto le misure temporali delle distanze
terrestri alla dimensione di secondi, lo spazio ha acquistato una
nuova importanza per le operazioni. Beni e servizi possono essere,
da questo momento, comandati centralmente ed eseguiti sincronicamente
in più parti della crosta terrestre. Diversamente da quanto descritto
dalla teoria classica dell’imperialismo, i complessi industriali orientano
la loro azione verso una geopolitica del mercato mondiale.
Se la prima generazione di imprese transnazionali è stata definita
falsamente "multinazionale", nel tempo di Internet e delle fusioni
di imprese, questa espressione diventa più pertinente; lo dimostrano
le acquisizioni di Banker’s Trust da parte di Deutsche Bank o di Chrysler
da parte di Daimler-Benz. Il punto decisivo è la metamorfosi qualititativa
nel modo di aggregarsi del capitale. È come se il singolo capitale
si sforzasse, nonostante la guerra civile economica dei capitali,
di diventare un centro di profitto mobile dentro il processo del capitale
globale.
4. La "catena di creazione di valore" della new economy
La vera e propria creazione di valore si è trasferita nella
dimensione virtuale di Internet, crede l’ideologia dominante. Il soggetto
di questa creazione sarebbe il "sapere". "In una economia dell’informazione
il valore viene accresciuto attraverso l’applicazione del sapere"
(Klotz 2000a). La fede nel "sapere come leva del valore" (ibidem)
ha i tratti dell’autosuggestione. Per l’esperto d’impresa Horst Wildemann
l’elaborazione dell’informazione è "lo strumento di creazione di valore
in assoluto". E vede i processi produttivi materiali degradarsi a
"una ovvietà ai margini degli eventi che creano valore", e per sostenerne
i costi "la parte molla dell’economia pretenderà una quota sempre
più alta della creazione di valore" (Wildemann 2000). "Se nel futuro
le imprese si orienteranno verso il grado più alto di creazione di
valore, le industrie pesanti del passato cadranno sempre di più in
degrado di fronte al dominio dei nuovi media" (ibidem). Secondo
questo punto di vista, lo scambio materiale produttivo con la natura
scivola ai margini dell’irrilevanza. Questo ripete l’ideologia, mentre
le produzioni ad alto tasso di sfruttamento intensivo di natura e
forza lavoro vengono trasferite nei paesi a basso salario.
È come se gli ideologi borghesi dell’e-commercio si fossero convertiti
al postoperaismo.[15] Che nei settori più progrediti dell’economia,
come Marx aveva annunciato nei Grundrissen, "il sapere generale
è diventato forza produttiva immediata" (MEW 42, 602) è, al tempo
stesso, confermato e offuscato dal fatto che l’economia è chiamata
"economia dell’informazione". È un doppio paradosso. Non solo viene
dissolto lo scambio materiale con la natura che si riproduce sempre
più su scala allargata. E non solo lo sguardo, fissando il denaro,
diventa cieco per la ricchezza materiale, ma il senso stesso dell’economia
muta. L’economia dei beni digitali acquista il carattere di una manifestazione
protetta dalla polizia rispetto al mercato.
Ricordare un presupposto fondamentale dell’economia borghese è appropriato
a mostrare questo elemento. Da secoli essa coglie il proprio senso
nell’atto di "amministrare con scarsi mezzi". La scarsità "è il carattere
che distingue un bene libero da un bene economico" (Geigant 1979,
362). Ora, però, questa scarsità non dovrebbe più sussistere nelle
informazioni. Questo le distingue dai beni, mobili e immobili, di
natura materiale. Da ogni lato e scuola di pensiero si afferma che
"i costi marginali per la distribuzione del sapere digitalizzato sono
praticamente nulli" e si presentano soltanto costi di sviluppo (Klotz
2000a). Con i beni digitali accade la stessa cosa che al Dio di Spinoza:
diventava tanto più grande, quanti più uomini condividevano la fede
in lui. "Il sapere condiviso è sempre un doppio sapere" (Helmstädter
2000).[16] Il "collegamento tra consumatori" qui non è,
in sé, né una transazione né un trasferimento, bensì un "prendere
parte" (Helmstädter). Come per i monopoli di articoli di marca dal
valore d’uso estetico, la scarsità può essere ottenuta solo artificiosamente,
con i divieti e la polizia. Per l’intelletto giuridico, perciò, il
diritto d’autore appare come "la chiave della società dell’informazione"
(Ulmer-Eilfort 2000).[17] Di fatto, in un mercato abbandonato
a se stesso, il carattere di merce dei beni dell’informazione si volatilizzerebbe
rapidamente, e il loro utilizzo sarebbe altrettanto libero quanto
quello degli altri beni spirituali, a iniziare dalla moltiplicazione
"1 x 1" fino all’alta matematica. Citando liberamente Proudhon, Andy
Müller-Maguhn definisce la proprietà intellettuale un "furto allo
spazio pubblico".
La teoria capitalistica si distingue dalla teoria del capitalismo
perché imita la prassi del capitale così come è descritta dall’economia
aziendale. Per fare questo non è necessaria un’analisi teoretica,
così come non è necessaria alle strategie e ai calcoli d’impresa.
L’economia aziendale accumula, come ogni uomo d’affari, costi su costi
per poi aprire un margine di profitto. Essa applica le espressioni
valore e plusvalore come l’ufficio delle finanze quando aumenta l’imposta
sul valore aggiunto. Dal punto di vista del "quanto" il prelievo di
valore non si distingue dalla creazione di valore. Il valore vale
semplicemente il prezzo, il plusvalore è uguale al plusprezzo, cioè
alla differenza di prezzo tra semiprodotti e il prodotto venduto.Il
plusvalore appare semplicemente come la fetta di torta della ricchezza
astratta che qualcuno, lungo la catena merce-denaro o servizi-denaro-transazioni,
si è tagliata sul mercato rispetto al prezzo dei semiprodotti. Siccome
il denaro viene dalla sfera della circolazione, anche il valore e
il plusvalore, secondo l’economista volgare Adam Riese, devono saltar
fuori dalla circolazione. All’atto del prelevare andrebbe così la
corona della scienza dell’arricchimento. Qualunque maniera di incassare
potrebbe apparire come il vero accrescimento di valore. Anche l’aumento
di affitto può essere creazione di plusvalore.
Se nessuno è disposto a credere che le forme di "provento secondario"
(Marx) come la speculazione sugli affitti o sui prezzi, siano qualcosa
di diverso da un prelievo di valore, esistono però altre forme che
acquistano una parvenza di plausibilità nell’ottica dell’economia
aziendale. Sotto il concetto di "transazione" questa sussume la relazione
merce-denaro, la lotta della concorrenza per acquistare a prezzi vantaggiosi
e anche la relazione tra i diversi tipi di capitale — capitale industriale
e capitale finanziario — insieme ai costi per il coordinamento delle
attività necessarie in ogni circostanza (l’amministrazione dei magazzini
o la contabilità, ad esempio). Dalla prospettiva dell’impresa che
produce valore appare qui una sorta di estetica delle merci. La spesa
per realizzare il valore sembra la spesa per la sua creazione. Il
regime di concorrenza contribuisce a consolidare questa apparenza
ad uso delle singole imprese che hanno necessità di sopravvivere.
[18] Altre forme di prelievo di valore si guadagnano questa
apparenza e si mascherano come vera creazione di valore. Tutto questo
porta a credere che le punte della produzione di plusvalore siano
attività le cui retribuzioni altissime altro non sono, in realtà,
che detrazione di plusvalore. Sarebbero i "valori immateriali" e "sempre
meno i reali valori patrimoniali" a fare nella new economy la
parte del leone nel valore prodotto dalle imprese, a manovrare "collaboratori
qualificati e motivati, buone relazioni con clienti e fornitori, marchi,
know-how e soprattutto la capacità di sintonizzare e organizzare fra
loro questi "guardiani del valore"" (Stenz 2000). Così la new economy
lascia sopravvivere il vecchio mito dell’impresa, ma in una forma
che per le generazioni precedenti sarebbe stata insensata: il genio
nel fare soldi qui diventa esso stesso valore-denaro.
Al tempo stesso il linguaggio dominante cancella questa traccia. Quando
si fissa il denaro lo sguardo diventa cieco e non vede il lato del
valore d’uso, la ricchezza materiale. Allo sguardo si manifesta allora
il lato del valore di scambio come se esso fosse materiale. Questo
quidproquo sta a fondamento delle fantasie prese per teoria, nelle
quali lo spirito cova direttamente e immediatamente denaro. Già in
Adam Smith questa credenza dovrebbe essere confutata. È vero che la
ricchezza materiale "viene accresciuta soprattutto attraverso l’applicazione
di sapere" (Klotz 2000a), però nella misura in cui questo avviene
mediante l’aumento di produttività, scende il valore del singolo prodotto,
mentre resta invariato la somma del valore. Se un’azienda riesce,
grazie alle leggi dello Stato che garantiscono la proprietà intellettuale,
a mettere in azione "il classico arsenale della differenziazione dei
prezzi nella concorrenza fra monopoli", ciò porta a spingere i prezzi
sotto il valore. Marx ha esposto il meccanismo che sta a fondamento
della ridistribuzione nel terzo volume del Capitale, in connessione
al saggio medio di profitto.
5. Contraddizione tra i beni dell’informazione e la
loro forma di valore
Perché l’assorbimento di valore funzioni nei prodotti digitali in
Internet, occorre un presupposto che esso, però, nello stesso tempo,
danneggia poiché mette in discussione la forma di valore di questi
prodotti. È quanto avviene nella trasmissione della musica digitale.
Nel 1998 apparve sul mercato "Rio 300", un chip-recorder. "Si chiuse
così una catena completa, disponibile in ogni momento e in tutto il
globo, che portava dalle proposte musicali digitali alle cuffiette
per l’ascolto"; tuttavia, "in questa distribuzione di merci libera
da domini" le industrie non guadagnano neanche un centesimo (Tunze
2000). La forma economica e la forma d’uso delle merci digitali si
contraddicono l’un l’altra. Se un venditore trattenesse la merce venduta,
sarebbe assurdo. Un bene che non è scarso non può fungere da equivalente
di beni scarsi. "Ma, in generale, è poi la nuova economia ancora una
economia?" (Kaube 2000b). La forma dinamica di questa contraddizione
delle merci digitali è un’economia di abbonamenti e di tassazione
degli accessi a Internet.
Nella questione dell’"accesso", che secondo Rifkin eredita la questione
della proprietà, si nascondono due problemi: l’accesso alla rete in
generale e l’accesso a determinate banche dati. Nella "lotta per la
rete, consorzi, in continua trasformazione, di produttori di tecnologia
informatica, Provider e banche" tentano in concorrenza alle società
telefoniche privatizzate di "portare sotto il loro controllo determinate
reti di trasmissione"; "è in questa lotta che si definisce il prezzo
dell’accesso alla rete" (Hutter). Siccome i nuovi collegamenti non
causano costi aggiuntivi, il prezzo tende ad "azzerarsi o a diventare
una tariffa sommaria" (ibidem). Ma non appena si forma una "ressa"
a causa del sovraccarico, diventa fonte di affari vendere possibilità
di accesso privilegiate.
In relazione a tutto questo oppure separatamente si sviluppano i prezzi
per l’accesso alle banche dati. La scoperta, realizzata negli Usa
per la prima volta, che si può guadagnare più denaro con prezzi più
bassi e smercio più alto, è ora spinta alle estreme conseguenze. Dispositivi
di controllo dell’accesso con una capacità d’uso più alta, diventano,
nel caso nascondano un bene desiderato, fonte di denaro. Ogni milione
di centesimi sono, alla fin fine, diecimila marchi. Così la vecchia
forma dell’abbonamento acquista una nuova funzione. Fornisce a ciò
che in sé è senza valore di prendere la forma di prezzo e crea così
uno strumento per trasferire il valore da altre sfere, "il livello
più alto della creazione di valore" (Wildemann 2000) per gli economisti
borghesi.
Rifkin avrebbe perciò ragione, afferma Sandra Kegel: la vendita si
risolverebbe nella forma degli abbonamenti e con ciò il mercato si
toglierebbe nella rete. Ma occorre pensare fino in fondo. L’abbonamento
è una forma derivata della vendita. L’accesso ai beni digitali che
l’abbonato compra, non è tuttavia una merce. Si faccia un paragone
con i vecchi circoli di lettura. Qui, il valore della merce lettura
è realizzato in modo da lasciare all’organizzatore prendere parte
al ricavato, al posto del venditore finale (del singolo commerciante).
Di superamento del mercato non è proprio il caso. Al contrario: la
contraddizione dei mezzi a stampa, che prefigurano quella delle merci
digitali, cioè che molti lettori vanno da un unico compratore, trova
qui una forma dinamica. Giornali, riviste, libri funzionano, in una
forma o nell’altra, fin dall’inizio, come merci della comunità (sharewares).
In un circolo di lettura l’organizzazione di una comunità d’uso cattura
il fuggiasco di nuovo nella forma del valore e, in particolare, della
merce.
Un esempio corrispondente alla forma merce nella distribuzione su
Internet è il codice segreto applicato nella pay-tv. La contraddizione
tra il bene digitale e la sua forma di merce spinge le grandi imprese
a un lavoro febbricitante per trasformare "finalmente la rete estesa
in tutto il mondo in una catena di creazione di valore": una combinazione
di sistemi cifrati e di compressione dei dati, a questo servono le
tessere che memorizzano e gestiscono "il loro contenuto con il vantaggio
delle regole che difendono dalla riproduzione, rendendolo disponibile
alla fruizione mediante una cuffia, ad esempio, ma non alla copiatura
su altri supporti di dati" (Tunze). Dietro lo sviluppo di una tecnica
di mantenimento del carattere di merce sta la "iniziativa per la musica
digitale sicura".[19]
Poiché per le merci digitali non valgono i classici principi economici
della scarsità dei beni e dei costi marginali crescenti — le copie
sono disponibili in misura illimitata e i costi cadono con l’aumentare
della cifra delle copie — e al loro posto sono decisivi "aspetti come
masse critiche, effetti a reazione", si afferma la "tendenza a un
cosiddetto monopolio naturale": "il produttore con la quota più grande
di mercato ha i costi più bassi a copia e dominerà nel tempo il mercato"
(Schmidt 2000a).
Come per il circolo di lettura, il modello della merce della comunità
apre il passaggio al dominio del carattere di merce. È quanto si può
osservare, ad esempio, nel caso della "offerta di Internet cresciuta
così rapidamente come mai" (FAZ, 1 novembre 2000, 23), Napster. Se
non si può più difendere immediatamente la forma merce dei beni in
questione, si può farlo però in maniera mediata, vendendo il diritto
di accesso e di partecipazione. Questo calcolo ha spinto il gruppo
Bertelsmann a denunciare Napster per pirateria e pretendere milioni
di dollari, anche se per lungo tempo nessuno dei 37 milioni di utenti
ha mai pagato un solo dollaro. Questa comunità anarchica non poteva
che passare sotto il controllo del capitale.
La spiegazione a questo paradosso viene da uno dei fondatori di Napster,
il ventenne Sean Parker. Egli espone le ragioni per cui il settore
musicale, senza Napster, non potrebbe più cavarsela, e spiega come
abbia potuto abbassare i costi e allargare il mercato, alzando il
volume d’affari annuo da 40 miliardi di dollari a 100 miliardi: le
imprese sono semplici macchine da marketing; devono scoprire artisti
adatti al mercato, ma solo una parte di quelli che vengono lanciati
arrivano davvero sul mercato. Le imprese realizzano i loro profitti
con solo il 15 per cento delle nuove uscite; è però un fatto culturale
che "gli uomini ascoltano la musica che ascoltano i propri amici".
Il tentativo delle imprese di "imporre band musicali senza rispetto
del contesto culturale, equivale al tentativo di pensare senza l’amo.
Occorre un verme culturale affinché i potenziali fans scoprano l’amo
nascosto, emozionale". Egli intende dire: perché inghiottano il verme
culturale, senza scoprire l’amo capitalistico. Oltre la cultura "gli
utenti vogliono anche il godimento immediato, fruibilità leggera e
funzioni speciali di ogni tipo". La più importante di queste funzioni
consiste nel fatto che in ogni momento si può vedere ciò che gli amici
stanno ascoltando, in generale, ciò che al momento viene ascoltato
di più.
Il principio di Napster aderisce alla struttura della rete: la merce
della comunità non viene consegnata da una centrale, ma giace nel
disco rigido di milioni di Pc della clientela. Napster non fa altro
che comunicare fra loro. Bertelsmann ha potuto conquistare questa
tana di leoni comunisti,[20] una posizione di comunicazione
strategica, perché il verme capitalistico è stato lì a lungo. Infatti,
già molto tempo prima i "capitalisti da rischio" avevano preso il
controllo. "Ora è venuta la loro ora. Dal commercio di scambio tra
uguali si passa alla fornitura di un servizio, il capitalismo ha incassato
quella rete che per lungo tempo aveva rifiutato il concetto di profitto
come un’essenza estranea" (Kegel). Se unito al principio della tariffa
di accesso, Napster può diventare "la matrice per tutte le forme future
dell’economia digitale", nel senso di un monopolio paragonabile a
Microsoft (ibidem).[21]
Eppure la contraddizione che spinge a queste trasformazioni, non si
trova ancora in uno stato di quiete. Se l’editoria non ha più bisogno
di produrre beni materiali (libri, cd, videocassette e così via) per
trarre valore dalla proprietà intellettuale degli autori e passa al
commercio al dettaglio, l’editore si riduce a un semplice intermediario
che, per un verso, non dipende più dal commerciante al minuto (la
piccola distribuzione verrebbe tagliata fuori), e per un altro, però,
rischia di diventare, egli stesso, superfluo. Le industrie dei media
hanno l’abitudine di nascondere i loro interessi dietro quelli degli
artisti, ad esempio quando prendono con forza le difese della proprietà
intellettuale. Ma questa illusione potrebbe diventare molto più vera
di quanto essi non vogliano. "La vera preoccupazione del settore non
è la pirateria. Sarebbe molto più pericoloso se gli stessi musicisti
esercitassero il loro diritto di proprietà saltando l’intera rete
commerciale di distribuzione. La vera promessa di Internet non è la
musica e l’informazione gratis, ma l’acquisto alla fonte a costi più
convenienti e con conseguente estrazione di profitti" (Kaube 2000b).
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