Pino Blasone 1 | 2 | 3 | 4 | 5 |

3. Percorsi della geo-filosofia

 

Roma, o forse Babilonia

La concezione teocratica della "Terza Roma" adottata dalla Chiesa ortodossa di Mosca, e in parte poi dallo Stato imperiale russo, presupponeva che fossero esistite una Roma originaria e una "Seconda Roma" identificata con Costantinopoli/Bisanzio. Le tappe di questo cammino di umana redenzione giustificavano un ordine storico-politico, a esse via via ritenuto congeniale. Più generico e drastico in merito, nel saggio Anima mundi James Hillman ha affermato che tanto si verificò a causa di una cesura introdotta dal cristianesimo nella storia europea: "da quando Cristo disse che il suo Regno non è di questo mondo, abbandonandolo così alle legioni di Cesare".

Già nello schema provvidenziale del De civitate Dei del nord-africano Agostino, a sua volta Roma avrebbe dovuto essere erede di Gerusalemme nell'adempimento della sua missione. Se Roma rimane "terrena", abbracciando ormai l'intera cristianità, la culla del cristianesimo diviene "celeste". Compito della prima sarebbe stato adeguarsi al modello della seconda. Nella tensione di un tempo messianico che partecipi del contingente e dell'eterno -- etimologicamente, cristianesimo sta per "messianismo" --, alla polarità Occidente-Oriente si sovrappone quella fra immanenza e trascendenza. In ogni caso, da allora in poi tempo della politica e tempo messianico resteranno fra loro congiunti, al punto da costituire la cifra distintiva della civiltà occidentale. Più ancora che storia di eventi, essa lo è di un avvento sempre più dilazionato e indeterminato.

Nella tradizione di pensiero europea ricorre in effetti un modello dominante, che è quello imperiale o religioso della città di Roma, ostacolo aggirato ma non rimosso dalla Riforma protestane. Ancora il romantico Novalis potrà fantasticare della Germania a lui contemporanea quale legittima erede dell'antica Roma. Nostalgico della "possibilità di una repubblica universale che i Romani avevano incominciato a realizzare fino agli imperatori", egli infonderà nei suoi eterogenei Frammenti un'ambigua dose di neoclassico e fichtiano orgoglio nazionale: "La politica e la tendenza istintivamente universale dei Romani c'è anche nel sangue del popolo tedesco".

Sulle tracce dell'Anticristo e della Genealogia della morale nicciani, sarà poi David H. Lawrence nel suo saggio Apocalypse a tornare sul tema, questa volta nella biblica versione e avversione per il binomio Roma/Babilonia. Tale accezione apocalittica viene proiettata dal narratore inglese proprio sulle Potenze Centrali europee, ritenute responsabili del Primo Conflitto Mondiale allora in corso. Si tratta, intuibilmente, di una proiezione tutta al negativo. Nella prefazione a una traduzione francese, Gilles Deleuze ne ha approfittato per attualizzare ulteriormente e per generalizzare il discorso, giungendo a conclusioni estreme ma per noi coinvolgenti:

Ogni volta che si programma una città radiosa, sappiamo che è un modo di distruggere il mondo, di renderlo "inabitabile" e di aprire la caccia al nemico qualsiasi. Forse non ci sono molte somiglianze fra Hitler e l'Anticristo, ma molta somiglianza c'è, in compenso, fra la Nuova Gerusalemme e l'avvenire che ci viene promesso, non solo nella fantascienza, quanto piuttosto nella pianificazione militare-industriale dello Stato mondiale assoluto. L'Apocalisse non è il campo di concentramento, è la grande sicurezza militare, poliziesca e civile del nuovo Stato. La modernità dell'Apocalisse non sta nelle catastrofi annunciate, ma nell'autoglorificazione programmata, l'istituzione di gloria della nuova Gerusalemme, l'instaurazione folle di un potere ultimo, giudiziario e morale.

Sta di fatto che è esistita una variante, per cui quell'Occidente e quell'Oriente interni erano identificati con i modelli più o meno idealizzati di Atene e di Gerusalemme. Del resto Roma, nel suo graduale farsi idea oltre che città, non aveva assimilato se non conciliato le lezioni di entrambe le antecedenti? Lentamente, fu superata l'antinomia presente fin dal De praescriptione hareticorum di Tertulliano, in cui Atene coincideva con la filosofia pagana e Gerusalemme con la fede cristiana:

Cosa ha a che vedere Atene con Gerusalemme? Che cosa, l'Accademia con la Chiesa? Cosa hanno a che fare gli eretici con i cristiani? La nostra educazione proviene dal "Portico di Salomone". Egli ci ha insegnato che il Signore va cercato nella semplicità del cuore. Ci si guardi dal tirar fuori un cristianesimo stoico e platonico o dialettico. Non abbiamo bisogno dello spirito di curiosità dopo Gesù Cristo, né della ricerca dopo il Vangelo. […] Se poi ti trovi dalle parti dell'Italia, hai vicina Roma, da cui pure a noi proviene l'autorità. Felice quella Chiesa, su cui gli apostoli profusero tutta la loro dottrina insieme al loro sangue!

Per giunta, quindi, la filosofia sarebbe stata madre delle eresie. Nello stesso tempo, l'enfasi è spostata dalla mente al "cuore", dalla "curiosità" raziocinante all'intuizione profetica o alla fede apostolica. E si gettano le basi, perché Roma possa legittimarsi erede di Gerusalemme. Se ci poniamo dal punto di vista della tradizione di pensiero ebraica, la contraddizione permane anche più radicale. Comprensibilmente, cambiano gli elementi in gioco. Il contrasto fra Gerusalemme e Roma/Atene è subentrato e si è sovrapposto a quello biblico tra Gerusalemme e Babilonia. Ciò rispecchia il rifiuto reciproco del cristianesimo ma pure, con rilevanti eccezioni, della filosofia.

Nei prossimi capitoli, si terranno presenti alcune di queste eccezioni. Per la verità, Filone ebreo aveva preceduto l'affermazione del cristianesimo e influenzato il neoplatonismo. Né ebbero a che fare con un contesto cristiano bensì islamico Avicebron e Maimonide, quest'ultimo rivisitato in maniera diversa da Spinoza e da Strauss. Conciliare fede e ragione era stato il problema tanto dei filosofi ebrei, quanto di quelli arabi ed europei medioevali. E, ancora, la scomunica di Spinoza non ebbe a che vedere con la sua adesione alla filosofia? La vittoria sulle resistenze religiose in seno all'ebraismo, circa l'esercizio della filosofia, si ha con Moses Mendelssohn. Non a caso, una sua opera di filosofia politica si intitola Gerusalemme, o sul potere religioso e il giudaismo.

 

Atene e Gerusalemme

Se il nome di Roma evoca sia il concetto di repubblica sia quello di impero, Atene è associata all'idea di democrazia e Gerusalemme a quella di "regno di Dio". Sarebbe stato compatibile un Stato democratico con la proiezione, o addirittura con la realizzazione morale, di quel regno? Mendelssohn era fautore di una "filosofia popolare". In particolare la prima parte del suo libro, pubblicato in Prussia nel 1783, è dedicata all'edificazione di uno Stato, che assicurasse il massimo possibile di autonoma espressione alle minoranze. In senso lato, libertà di culto e di pensiero. In tal senso, Atene e Gerusalemme -- ripresa da Leo Strausso o da Lévinas, la doppia simbologia era diffusa in ambito sapienziale ebraico -- non solo avrebbero potuto convivere, ma lo Stato liberale concepito dall'illuminismo sarebbe stato luogo di "elezione" per un tale connubio.

Il fatto che nella storia della Germania e dell'Europa le cose siano andate altrimenti non è certo addebitabile a sprovvedutezza di Mendelssohn, bensì ad altrui abiezione imprevedibile per chiunque, tranne forse in seguito per un poeta romantico e intuitivo come Heinrich Heine. L'amico di Kant, di Lessing e di Jacobi, resta uno dei maestri della filosofia "classica" tedesca e del pensiero ebraico moderno. Pur nella loro varietà, i contributi di un Elia Benamozegh in Italia, di un Hermann Cohen e di un Franz Rosenzweig in Germania, si svilupperanno sulla sua scia.

In una lettera del 1963 dagli U.S.A., Hannah Arendt replicava a Gershom G. Scholem in Israele: "Se posso dire di "provenire da qualche parte", è dalla tradizione della filosofia tedesca". Da che parte mai proveniva l'esule Arendt? Se la filosofia classica tedesca è la sedicente erede di quella greca, né è questa la sede per dubitarne, ella proveniva per così dire da Atene. Con la sua condotta, il nazismo aveva rischiato di trascinare nel discredito la filosofia tedesca del '900, cui pensatori ebrei -- da Husserl fino a Wittgenstein -- avevano contribuito in modo insostituibile. Contesa fra un'Atene virtualmente compromessa e una Gerusalemme tornata terrena, il cammino verso quest'ultima della Arendt subì a un certo punto una battuta d'arresto. Gerosolimitana mancata, la biografa di Rahel L. Varnhagen e di Rosa Luxemburg resta una "signora della diaspora".

C'è poi chi è giunto a identificare lo stesso archetipo di Gerusalemme con l'"eros esistenziale", lasciando a un'Atene divenuta anch'essa simbolica il monopolio del "logos filosofico", e aggiornando una scissione culturale in qualche modo traumatica. Altrettanto suggestiva è la contrapposizione analoga, che identifica Atene con la "mente" e Gerusalemme con l'"anima", col nous e con la psuchê della terminologia greca. Essa rammenta un po' il contrasto fra "inferno della storia" e "cielo dell'anima", suscitato dalla visita a Gerusalemme nell'esoterico Édouard Schuré. Introducendo un elemento di discrimine tra speculazione filosofica e pensiero psicoanalitico, la questione assume comunque una valenza che tende a rimettere in discussione la visione della civiltà occidentale, nel suo sviluppo complesso e non di rado stridente.

Si tratta peraltro di intendersi, vexata quaestio mai del tutto risolta, sulla portata del termine "filosofia". Spesso, essa è stata e viene recepita in modo prevenuto o restrittivo, anche da parte degli "addetti ai lavori" gelosi di un fondamento nella logica convenzionale del pensiero occidentale dominante. In proposito, alla ricerca di un "immaginario archetipico" con lo junghiano Hillman in Il pensiero del cuore, si può ben indulgere a obiettare quanto segue:

Perfino quando si concedono al cuore le sue ragioni, si tratta delle ragioni della fede o del sentimento, giacché abbiamo dimenticato come la filosofia (la più complessa e più profonda manifestazione del pensiero) non sia "saggezza" o "verità", in qualche astratta accezione "sofica". Piuttosto, la filosofia ha inizio in un philos che nasce nel cuore. […] Se vogliamo recuperare l'immaginale, dobbiamo prima recuperare il suo organo, il cuore, e la filosofia del cuore. La filosofia enuncia il mondo con le immagini delle parole.

Nel saggio di Hillman, fra gli esempi di un atteggiamento affine si fa anche quello della Arendt, dalle sue analisi di tenore storico-politico ("Senza questa forma di immaginazione, che è in realtà la comprensione, non saremmo in grado di sopportare il mondo. E' l'unica bussola che abbiamo") a La banalità del male. Nella citata lettera a Scholem, motivata dalle di lui obiezioni all'uscita di tale libro, non è fortuito che l'"ateniese" Arendt si soffermi sull'argomento. Ma ella mette in guardia dall'applicare il principio, senza le dovute cautele, alle alterne vicende della politica. In tale ambito, pare anzi opportuno che la "filosofia del cuore" venga affiancata dalla "filosofia pratica", munita delle armi della critica oltre che dell'immaginazione creativa:

Generalmente parlando, il ruolo del "cuore" in politica mi sembra assolutamente discutibile. Tu ed io sappiamo quanto spesso coloro che si limitano a riportare certi fatti sgradevoli siano accusati di mancanza di sentimento, mancanza di cuore o mancanza di quello che tu chiami Herzenstakt. Entrambi sappiamo, in altre parole, quanto spesso questi sentimenti siano usati per nascondere la verità dei fatti. Non posso parlare qui di ciò che accade quando i sentimenti vengono messi in mostra e intervengono nelle questioni politiche; si tratta comunque di un argomento importante, ed io ho già cercato di descrivere questi effetti disastrosi.

E' ora pur vero che fin troppe culture, religioni o ideologie -- in concorrenza, anziché in concorso tra loro --, hanno ambito a essere una "nuova Ellade" o un "nuovo Israele". Per fondare l'idea di progresso storico, non era infatti sufficiente sovrapporre un tempo lineare a uno ciclico. Occorreva la spinta di un tempo messianico, parzialmente compiuto o incompiuto che lo si figurasse. Quest'ultimo è un tempo religioso ma anche politico, in quanto apre uno spazio di immanenza all'interno di un orizzonte trascendente. E continua a lavorarvi dentro con tanto più accanimento, quanto più quell'orizzonte si fa sfuggente e irraggiungibile, mentre il campo immanente seguita ad ampliarsi fino a raggiungere le dimensioni-limite della modernità. Almeno sotto quest'aspetto, Atene e Gerusalemme sono indissolubilmente collegate.

 

Universo e cosmo

A fianco di una Gerusalemme ideale, ne sussiste infine "di nuovo" una reale Le ragioni dell'anima, del cuore o della fede, congiunte con quelle della politica e all'irrazionalità della Storia, non sono riuscite prevedibilmente a farne la città felice o virtuosa promessa da più utopie, religiose o laiche che fossero. Soltanto, un soggetto temporale separato, padrone e responsabile delle proprie scelte storico-politiche. Ma la Gerusalemme di Mendelssohn era un topos mentale e sentimentale, un'utopia universale praticabile. Non era un posto preciso: fosse pure l'originaria patria mitizzata e rimpianta, di cui aveva ereditato il nome. Questa intanto era ridotta da tempo a "luogo santo" conteso dalle religioni universalistiche in nome dello stesso Dio unico, caro prezzo per una condizione morale di eccezionalità, scacco per la fede e scandalo per la ragione.

L'interferenza fra trascendente e immanente -- Mendelssohn fu tra i primi a rivendicare l'autonomia delle due sfere, così come l'incidenza del messianismo ebraico nella civiltà occidentale è stata colta da Rosenzweig o da Benjamin -- è stata una costante della storia europea, prestandosi però a opportunismi e soprusi. E' quanto non manca di ammonire una Arendt sempre più "scomoda", nella lettera a Scholem e già altrove, riferendosi alla frattura venutasi ad approfondire nel Vicino Oriente dopo la proclamazione unilaterale dello Stato di Israele. Circa la "creazione di una nuova categoria di persone senza patria, i profughi arabi", la Arendt citava Judah L. Magnes:

E' una disgrazia che le stesse persone, che potrebbero addurre la tragedia dei profughi ebrei come principale argomento a favore dell'immigrazione di massa in Palestina, siano ora disposte, per quanto si sa, a favorire la creazione di un'ulteriore categoria di profughi in Terra Santa.

Da un punto di vista "illuminato", la paradossalità della situazione veniva così emblematizzata da Martin Buber: "Israele perde se stesso, se sostituisce la Palestina con un'altra terra; e perde se stesso, anche se sostituisce Sion con la Palestina". D'altro canto, nei suoi scritti sull'ebraismo più volte la Arendt ha rammentato che i sionisti avevano motivato l'esigenza della fondazione di una patria nazionale ebraica in Palestina, come unica risposta possibile a un supposto "antisemitismo eterno". Applicando un principio caro a Hermann Cohen, in pochi casi come questo -- proprio perché estremo -- non giova confondere l'eterno col secolare o il naturale con lo storico. Sempre che non si voglia attribuire all'eterno e al naturale una fatalistica negatività; o, peggio, "banalizzarli" in una sorta di darwinistica necessità.

Il prenderne atto per le parti in causa ancor oggi potrebbe aprire la via a soluzioni pacifiche nel Vicino Oriente, concordate a livello internazionale. Risulta certo preveggente l'amara apprensione della Arendt, rispetto ai profughi palestinesi: "Questi non costituiscono soltanto un pericoloso potenziale irredentistico disperso in tutti i paesi arabi. […] Ciò che aveva costituito l'orgoglio della patria ebraica, il fatto di non essersi fondata sullo sfruttamento, si trasformò in una maledizione quando giunse la prova finale". Suona ormai retorico se non ingannevole l'appello di Magnes presidente dell'Università Ebraica di Gerusalemme, a trasformare la Terra Santa, più ancora che in una nuova Gerusalemme, in uno Stato confederato, ovvero "in una Svizzera prosperosa e pacifica, nel cuore di questa antica via tra Oriente e Occidente, […] faro di pace per il mondo".

Eppure è vero, la crisi di Gerusalemme non è tanto e solo del Vicino Oriente, quanto parte essenziale della crisi dell'Occidente, nel suo vitale rapporto con l'Oriente. Se c'è qualche sapienza riposta nell'etimologia delle parole, è una questione di "orientamento" della visione del mondo. Né l'Europa può esimersi dal farsi carico di una corresponsabilità etico-politica, pena il rischio non irreale di "perdersi" anch'essa in un'impasse cui la sua storia e cultura ha concorso in maniera determinante. Perfino a costo di rinunciare a qualcosa di se stessi per poi riscoprirsi mutati -- è la palingenesi di tutti i labirinti --, sarebbe forse ora di concentrarsi meno sui nomi e più sui significati che essi sottendono, per non essere trascinati da una deriva di segni deprivati di senso.

Più radicale in proposito, da "psicologo del profondo" Hillman ha invitato in generale a dare maggior valore alle cose e meno ai loro significati, a rinunciare "ai giochi di soggetto-oggetto, destra-sinistra, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo; rinunciare, insomma al gioco degli opposti". Qui aggiungendo alla serie la falsa antinomia Occidente-Oriente, ancora una volta con la Arendt e nonostante qualche sua forzatura o fraintendimento che si analizzerà qui più avanti, si ritiene che, in una realistica filosofia politica, la dialettica storica e sociale mantenga a oltranza un ruolo utile di transizione e di mediazione. Ciò valga sia nell'interpretazione dei fatti, sia per la risoluzione dei problemi.

La dialettica, ossia il "gioco degli opposti", è ben più antica di Marx e di Hegel. Essa mira a evitare l'omologazione, stabilendo altresì un minimo indispensabile di omogeneità dei termini di una contraddizione. Ad esempio, la Arendt individua questo minimo comune denominatore nella condizione di profughi condivisa da ebrei e palestinesi, e tuttavia in tempi, per fattori e agenti diversi. Quando ella d'altronde afferma che per la "patria ebraica" fu una maledizione il non essersi basata sullo sfruttamento, intende che "l'esodo degli arabi non sarebbe stato possibile, e non sarebbe stato gradito agli ebrei, se essi fossero vissuti in un'economia comune". Veniva così a mancare un terreno di incontro, che non fosse quello di un antagonismo sterile. Solo il pieno riconoscimento dello stato giuridico di profughi avrebbe potuto, al limite, compensare questa carenza.

Col debito rispetto per la mistica della "coincidenza degli opposti" di Cusano, l'eccesso contrario a una produzione di dualismi a tutti i costi è la semplicistica riduzione all'unità dei termini in discussione. O anche una forzosa chiusura antitetica, per cui non viene ammessa un'ulteriore possibilità, fra quelle più o meno negatrici e sintetiche delle precedenti condizioni poste. Rifacendoci al primo caso qui in questione, se utopia e giustizia non sono sinonimi, a voler sottilizzare su un altro livello non lo sono nemmeno i termini di universo e di cosmo. In Il pensiero del cuore, in parte smentendosi, lo stesso Hillman introduce una tale opposizione concettuale:

Kosmos non significava una totalità astratta, generale, collettiva. Non significava "universo", nel senso di volgere attorno a un punto (unus-verto) o essere volti, trasformati, in uno. La traduzione del cosmo in universo è un tipico gesto dell'imperialismo romano unificatore che cancella il senso particolareggiato del mondo che avevano i greci.

Tale, in politica, la differenza tra cosmopolitismo e universalismo. Pur apprezzando la "fede giudaico-cristiana nell'origine comune della razza umana", la seconda accezione viene respinta dalla Arendt. Neppure i greci sfuggirono a simili tentazioni. Tanto più, le religioni monoteistiche rivelate, o alcune moderne ideologie. Fatto sta che l'"ombelico" o il "polo" del mondo non è Delfi, né Roma, né Gerusalemme, né altra pretendente a una posizione non sempre invidiabile. Al limite meno importa se questa centralità corrisponde a un potere effettivo o a una priorità morale, o a entrambe. Quasi sempre, ciò implica un'ipostasi della soggettività in un oggetto che ha del profano se non dell'"idolatrico", processo di assoggettamento anziché di soggettivazione delle coscienze.

Una volta edificato un tempio, è difficile rassegnarsi alla sua distruzione, perfino in vista della provvidenziale finalità che quanto esso rappresentava possa proprio perciò sussistere e compiersi. Questo è quello che la Arendt chiama in positivo "mito dell'esilio", riferendosi alla conseguente diaspora, sulla scorta del qabbalista Isaac Luria e del suo moderno interprete Scholem. Ma, non c'è dubbio, un trauma storico del genere ha segnato a fondo la coscienza ebraica. Con un processo analogico, solo in maniera settaria e stravolta esso è stato recepito nell'escatologia delle religioni "sorelle-nemiche". Sulle rovine di quel tempio, ciascuna ambiva a ricostruirne uno di sua pertinenza, nonostante le proteste di segno contrario del visionario autore giudaico-cristiano dell'Apocalisse.

Ciò premesso, si converrà, nelle politiche della modernità i restauratori di ogni osservanza non hanno mai goduto di chiara fama. Tale atteggiamento ha portato però a ignorare un certo tipo di problemi, piuttosto che a comprenderli quando e dove essi si ripresentassero. E la crisi della modernità ha fatto sì che l'imprevisto si verificasse sempre più spesso, in modo concatenato e dirompente, in Europa come nel Vicino Oriente. La capacità premonitrice della Arendt si spinge invece oltre, centrando prima di altri un problema-chiave di attualità, su cui sopra si è avuto occasione di soffermarsi. A seguito del "declino dello Stato nazionale e del nazionalismo", l'alternativa universalismo-cosmopolitismo -- se si preferisce, tra impero e "arcipelago", fra le percezioni di un universo o di un cosmo -- qui si ripropone estesa al contesto generale:

Noi non possiamo prevedere come procederà la storia dell'uomo, ma le alternative sembrano chiare. Il problema dell'organizzazione politica, che ora si affaccia nuovamente, sarà risolto adottando o la forma dell'impero o quello della federazione. […] La prima è possibile solo se alimentata da entusiasmi imperialistici, nella misura in cui sostituisce un nazionalismo antiquato, un tempo principale stimolo all'azione. Ci aiuterà il Cielo, se ciò dovesse accadere.

Un'altra pensatrice del '900, Simone de Beauvoir in Per una morale dell'ambiguità, ci fa meglio comprendere quanto l'antitesi fra universo e cosmo, tra una visione del mondo incentrata sul soggetto percipiente e una tendenzialmente policentrica, sia comunque connessa con la "differenza ontologica" fra esistenza ed essenza. La stessa morale che ne deriva è condizionata da questa "irriducibile ambiguità dell'essere". In una certa misura, una morale adattabile alle circostanze è preferibile a una rigida. Se è senz'altro da approvare lo sforzo critico di adottare una pluralità di punti di vista, il privare dall'alto un soggetto di ogni punto di riferimento -- reale o figurato che sia -- può sortire effetti controproducenti. E' l'errore frequente di un atteggiamento illuministico:

Demostene aveva la vista corta quando si rammaricava della rovina di Atene: in fondo, ciò che gli importava era la civiltà, ed è la civiltà che Filippo e Alessandro hanno realizzato nel mondo. […] Ciò che in verità Demostene voleva era una civiltà che fosse fondata su quella di Atene e fiorisse a partire da essa. […] Giacché vi sarà sempre una civiltà, può essere inutile difendere Atene; ma occorre rinunciare allora a rimpiangere mai qualcosa, a rallegrarsi di qualcosa. Agire per un fine è sempre scegliere, definire. Se la forma singolare del suo sforzo appare indifferente all'uomo, perdendo ogni figura la sua trascendenza svanisce; egli non può più volere nulla poiché l'universale è senza mancanze, senza attese, senza appelli.

Nella posizione esistenzialistica della De Beauvoir traspare peraltro la polemica con l'hegelismo. Per lei, un qualsiasi dualismo si risolve sul piano di una scelta etica piuttosto che a seguito di un automatismo storico. Spetta in ogni caso a un soggetto operare una sintesi plausibile e assumerne la responsabilità, anziché a un astratto "spirito del mondo" o di una singola civiltà. La scelta democratica di Demostene non coincise con la sintesi imperialistica di Filippo e di Alessandro. Pur collocandosi apparentemente la seconda sulla linea di sviluppo della prima, non si può ignorare la forzatura e le eventuali conseguenze negative che ne siano scaturite.

L'universalismo del macedone Alessandro non era dunque precisamente quello dell'ateniese Demostene. Né si tratta poi tanto di una sfumatura. La "vista corta" a breve termine di Demostene diventa lunga e ampia, se la si considera in base a un diverso registro di valutazione. Occorre altresì riconoscere i suoi meriti -- a Demostene, ciò che è di Demostene --, affinché in altra occasione l'esempio non venga politicamente riciclato in maniera tendenziosa. Segue un esempio storico moderno, in cui gli aspetti negativi della vicenda spiccano con maggiore evidenza e attualità:

Robespierre è abbattuto dalla rivoluzione termidoriana, ma Robespierre e il Termidoro insieme si ritrovano in Bonaparte. Realizzando il suo destino storico e singolare, ogni uomo può quindi trovare il suo posto nel cuore dell'universale. Il mio atto compiuto diviene diverso da ciò che avevo voluto originariamente, ma con ciò non subisce un distorcimento estraneo: compie il suo essere ed è allora che si compie veramente.

Il punto di vista hegeliano è qui palesemente parodiato dalla De Beauvoir. Ancor più caustica e raffinata era stata del resto la critica di Walter Benjamin, in Tesi di filosofia della storia. Presso entrambi i pensatori, altrettanto intuibile è l'allusione analogica di fondo alle ideologie dei regimi totalitari loro contemporanei, o che avevano appena concluso la propria triste parabola:

…per Robespierre, la Roma antica era un passato carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della storia. La Rivoluzione francese s'intendeva come una Roma ritornata. Essa richiamava l'antica Roma esattamente come la moda richiama in vita un costume d'altri tempi. La moda ha il senso dell'attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un'arena dove comanda la classe dominante.

Dove in pratica tale balzo avrebbe portato, Benjamin lo suggerisce in Parigi, la capitale del XIX secolo. Ivi l'autore interpreta il neoclassicismo trionfante nell'impero napoleonico come travestimento estetico dei valori dell'economia industriale, che in Europa si andavano sovrapponendo a quelli di una agraria e commerciale. Ellenismo e romanità furono convocati a celebrare l'universalismo alfiere degli ideali civili della Rivoluzione francese, ma non di meno a promuovere il progresso della tecnica. Questo ne costituirà la duratura essenza anche quando l'"antica" forma politica riesumata si sarà di nuovo dissolta, una volta assolta la sua funzione propedeutica. In quanto nuova Atene ed ennesima Roma, nella capitale universale "di passaggio", Parigi, resteranno i segni di un sogno di grandezza:

Il teorico dell'architettura Bötticher esprime la convinzione generale quando dice che "per quanto riguarda le forme artistiche del nuovo sistema" deve valere "il principio formale della maniera ellenica". L'empire è lo stile del terrorismo rivoluzionario, per cui lo Stato è fine a se stesso. Come Napoleone misconobbe la natura funzionale dello Stato come strumento di dominio della classe borghese, così gli architetti del suo tempo misconobbero la natura funzionale del ferro, con cui il principio costruttivo si avvia a trionfare nell'architettura. Questi architetti danno ai sostegni in ferro la forma di colonne pompeiane, alle fabbriche quella di case d'abitazione, come più tardi le prime stazioni cercano di imitare gli chalets. "La costruzione assume il ruolo del subcosciente".

A tutto ciò, e a obliqua conferma del punto di vista della De Beauvoir, seguì un tragico epilogo personale. Per quanto inizialmente obbligata, la scelta dell'amata Parigi sarà fatale per Benjamin. Parente acquisito della Arendt, egli era amico di Scholem. A questi fino al 1933 aveva scritto di voler emigrare in Palestina. Non ricevendo in cambio le assicurazioni sperate, nemmeno in un incontro con Judah L. Magnes, non seppe decidersi a tale passo. Nel 1940, inviò a Scholem in prima lettura le Tesi di filosofia della storia.

In fuga da Parigi invasa dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, Benjamin cercò subito dopo di raggiungere la Spagna, presumibilmente per imbarcarsi negli U.S.A. dove la Arendt era già riparata. Fermato dalla polizia e temendo di essere consegnato alle autorità francesi controllate dai nazisti, si suicidò il 26 settembre di quell'anno. I più stretti familiari, che erano con lui, ottennero di varcare il confine verso la salvezza.

 

Sommo bene e male radicale

A Parigi, Walter Benjamin aveva dedicato un saggio affascinato: I "passages" di Parigi. Ancor prima, in L'interpretazione dei sogni, il padre della psicoanalisi aveva dichiarato un amore per la capitale francese simile a quello, che porterà sfortuna a Benjamin: "Parigi era stata per molti anni il centro dei miei desideri e la beatitudine provata, quando per la prima volta misi piede sul suo selciato, mi sembrò una garanzia che anche gli altri miei desideri si sarebbero realizzati". La realizzazione di questo desiderio racchiude un'aspirazione più grande e insieme combattuta: quella di visitare Roma, città per cui Sigmund Freud nutrì un complesso sentimento di amore-odio.

Più avanti, egli ricorda pure una sua immedesimazione nel "generale semita" Annibale: "Per la mia giovane mente, Annibale e Roma simbolizzavano il conflitto tra la tenacia degli ebrei e l'organizzazione della Chiesa cattolica". Va da sé che Cartagine è qui l'equivalente di Gerusalemme, anche se, con sintomatica ambiguità, in sogno Roma apparirà a Freud una "terra promessa vista da lontano" e lui stesso si sentirà "un perenne pellegrino diretto a Roma". In tal senso, il "romano" Freud ben si associa al "parigino" Benjamin e all'"ateniese" Arendt, nel perseguire un ideale gerosolimitano sublimato o surrogato secondo le circostanze o i punti di vista. Dopo l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, nel 1938 l'esito freudiano sarà il crepuscolare esilio londinese.

Ma è pur da notare che il punico Annibale, il "fenicio" Edipo re di Tebe o anche il Mosè freudiano, sono tutte figure spiccatamente virili. Indulgendo a nostra volta alla psicoanalisi, si può insinuare che Roma rappresenti la componente femminile o materna dell'ideale gerosolimitano di Freud. Componente interdetta, emarginata eppure riemergente, come per la Sulamita del Cantico dei Cantici o per la Shekina, qabbalistica divinità al femminile. Ben prima che Gerusalemme o Roma nelle successive versioni si imponessero sulla scena e nell'immaginario della civiltà occidentale, un demone al femminile aveva vegliato sull'eudaimonia delle città-colonie della Magna Grecia. Con una forzatura mediata dal latino di Cicerone, più che come "felicità" possiamo rendere eudaimonia quale "sommo bene" comune. O, se si preferisce, come male minore possibile.

Accordo con la natura, adesione a una razionalità del tutto, rispetto altrui e condivisione di interessi benché differenziati dai ruoli sociali: questi saranno tra i fattori determinanti, individuati specialmente dagli stoici. Dalle virtù civili resterà fuori la compassione, in quanto ritenuta poco consona con la "virile" imperturbabilità prescritta dallo stoicismo. Ma il termine greco originario indicava l'opera di un "buon demone", nume tutelare più sapienziale e meno provvidenziale di quanto sarà l'intercessione presso il divino del santo protettore in epoca cristiana. Allora, il termine daimon assumerà connotati diabolici. Essere abitati da un buon demone è evidentemente il contrario che essere "posseduti dal demonio", nel qual caso la formula "sommo male" suonerebbe più adatta.

Facciamo di nuovo qualche passo indietro. Nel proemio dell'opera di Parmenide, ambientato nel suo abitato di Elea, prima ancora dell'asessuata introiezione socratica quel demone si presentava come variante ellenizzata della Grande Dea mediterranea. Quest'ultima era una via di mezzo fra la Giustizia "che molto punisce" e Afrodite urania o marina "che regge il timone di tutte le cose", dispensatrice dell'omerica ed esiodea perizia di carpentieri e naviganti, e in senso lato dell'arte del buon governo. Tale arcaica sophia, emulatrice della phusis non ancora disgiunta dalla technê, non lo era nemmeno dalla filosofia. Il logos privilegiato da Eraclito su altri lidi si accompagnava all'eros che lo sottende, prima che la filosofia intervenisse a distinguerli e a separarli. Prima che essa si ripresenti in abiti femminili, toccherà in effetti attendere la sacerdotale Diotima della Repubblica di Platone o la patetica consolatrice della Consolatio Philosophiae di Boezio.

Alla dea del buon governo parmenidea, allegoria della "necessità dell'Essere", faceva tranquillamente da contrappunto il dionisiaco fanciullo eracliteo di cui "è il regno", intento a giocare con la casualità dell'esistente. Quella percorsa da Parmenide, sotto la guida della dea e delle sue ancelle-aurighe, era d'altronde una via "che porta per tutte le città" ma a un tempo "fuori del sentiero battuto dagli uomini". Al di sopra del localismo della polis, la dimora della Giustizia era dislocata fuori delle porte cittadine, di cui ella da buona custode "regge le chiavi". Probabilmente influenzata dalla complessità dei riti di purificazione misterici, l'interpretazione platonica spiegherà l'insorgere e il perdurare del male a livello singolare e collettivo, in quanto morale smemoratezza o distrazione dettata da vana "curiosità", oltre che deviazione dalla retta via.

Essa era sufficiente a rimpiazzare il senso giustificatorio e affabulatorio a posteriori, di una colpa o violazione, della pena per un peccato più o meno originale e atavico da scontare? Ancor prima che il confronto con la riflessione semitica facesse prevalere la seconda, le due tendenze erano presenti nell'etica greca. Ne sono esempi Edipo, eroe leggendario di discendenza fenicia, e i concetti ricorrenti di hubris e di nemesis, di empietà e di fatale rivalsa o risarcimento. Solo nell'etica indiana si incontra un pari concatenamento fra le nostre azioni e i loro effetti, ben condensato dalla formula "frutto del karman", eppure diluito e dilazionato nel congegno della metempsicosi, corrispondente alla punizione o al premio ultraterreni delle nostre tradizioni religiose.

Tuttavia, l'apporto giudaico-cristiano introduce anche la nozione di perdono. Pur prestandosi all'ambiguità del connubio facilmente coercitivo con pentimento ed espiazione, da subito con difficoltà ma inesorabilmente anche in ambito politico e sociale, il nuovo concetto si schiera contro l'univocità di vendetta e punizione. Il cristico "Perdona loro, Padre, perché non sanno quello che fanno" è un coronamento della morale evangelica. Ancora in un secolo tremendo quale il '900, pensatrici di origine ebraica, quali Simone Weil e Edith Stein e la stessa Arendt, si sono variamente rifatte a un tale assunto. Altro dalla pietas o dalla clementia dei romani, specie quando esso non rivesta un carattere di immediata reciprocità il perdono ha effetti spiazzanti, che lo assimilano in qualche modo ai temi della disobbedienza civile:

Il perdono è l'esatto opposto della vendetta, che consiste nel reagire contro un'offesa originale, e, lungi dal porre un termine alle conseguenze del primo errore, lega ognuno al processo, permettendo alla reazione a catena implicita in ogni azione di imboccare un corso sfrenato. Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione e che per effetto dell'irreversibilità del processo dell'agire può essere prevista e anche calcolata, l'atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell'azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata.

Insomma, in ambito individuale e politico il contributo giudaico-cristiano ha insinuato un elemento di positiva "follia" elogiata a suo tempo da Erasmo da Rotterdam, in grado di riequilibrare quella riscontrabile al negativo nell'agire umano. Quasi per compensazione, lo scandalo del male evoca ed esige un assurdo del bene. Se non proprio un sommo bene, almeno un "bene radicale". D'altro canto, è oggi cresciuta la sproporzione fra quel "non sapere ciò che si fa" e la concentrazione di un potere condizionante, attuabile nelle società di massa. A maggior ragione si è rivelata micidiale l'inadeguatezza della coscienza etica nei regimi totalitari, che dispongono di apparati burocratici e sono in grado di innescare automatismi al di fuori di ogni possibile controllo.

Per sua stessa natura, una tale sproporzione e inadeguatezza sembra comunque destinata ad agire quando e dove meno lo si aspetti. Le precauzioni non sono mai valide a sufficienza. Ammesso che vi si dia ascolto, la critica non è mai abbastanza vigile, competente a neutralizzare le insidie di una propaganda capillare e la forza di convinzione di una pubblicità ingannevole. Si fa sempre più inaffidabile la "mano invisibile" di una morale che si sviluppi per forza di cose, alla Adam Smith, o anche condizionata da particolari fattori culturali e religiosi, alla Max Weber. Sempre più opportuna appare la kantiana esigenza che questi ultimi vengano vagliati e recuperati a una morale laica, la quale si imponga di per sé quanto a valenza giuridica e per portata cosmopolitica, in un sistema economico in cui liberismo e integralismo si fronteggiano in maniera complementare.

A fianco di questo "sommo bene" ridimensionato eppure difficilmente realizzabile, esiste un "sommo male" con quello antagonista, pronto a prendere il sopravvento in momenti di crisi? Gli eventi storici del '900, in particolare, indurrebbero a una risposta affermativa. E' quanto la Arendt ritiene in un primo tempo, in Le origini del totalitarismo. Ma in seguito c'è un ripensamento, dopo l'episodio del processo a Gerusalemme al gerarca nazista Adolf Heichmann. Questi era stato uno dei responsabili dei massacri di ebrei e di altre "minoranze", nei territori occupati dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. La Arendt aveva assistito al processo. I suoi resoconti e la costernazione, di fronte alla banalità degli argomenti addotti dall'imputato a sua giustificazione, erano confluiti in La banalità del male. Nella citata lettera a Scholem, ella osserva:

Hai completamente ragione: ho cambiato idea e non parlo più di "male radicale". […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso "sfida" […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può essere radicale.

E' il tema del male, come carenza di essere e atrofia del pensiero. Il delitto volontario è forse più raro delle buone opere, aggiunge l'autrice in Vita activa. L'incoscienza non elimina, beninteso, il potenziale nocivo. Solo un bene altrettanto metodico ma consapevole è in grado di opporsi a esso. Non c'è dubbio che l'interpretazione ontologica della Arendt si pone quale aggiornamento del platonismo agostiniano, filtrato attraverso l'esistenzialismo. La pensatrice ebrea si era addottorata sotto la direzione di Jaspers, discutendo una tesi su Agostino di Ippona. Con ingenuo ed elitario idealismo associati a una virtù moralizzatrice della poesia e del pensiero, nella cultura tedesca argomenti formalmente consonanti si possono già rinvenire nei Frammenti di Novalis:

Non esiste la cattiveria assoluta né il male assoluto. Può darsi che l'uomo si renda a poco a poco assolutamente cattivo e così crei un male assoluto; ma entrambi sono prodotti artificiali che l'uomo deve, secondo le norme della morale e della poesia, semplicemente annullare, non già credere, non accettare. […] Siccome soggetto e oggetto devono essere una cosa sola, la cattiveria apparentemente oggettiva, il male, e il male apparentemente soggettivo, la cattiveria ecc., devono essere uniti e con ciò ipso facto entrambi distrutti […], perché si distruggono necessariamente a vicenda.

Eppure non è facile sottrarsi al fascino di una suggestione, che risale ai primordi della filosofia. Un filo sottile collega la Arendt al demone femminile di Parmenide. Se si eccettua l'epiteto parmenideo "colei che molto punisce", contrastante col senso di umana compassione della sua tarda "incarnazione", permane un'analogia tra gli argomenti dell'antica dea e quelli qui sopra accennati. Del resto, la convinzione di una "banalità del male" era andata maturando prima della stesura del libro omonimo, che incontrerà l'incomprensione di Scholem. All'epilogo del conflitto mondiale, in un testo del 1945 intitolato Colpa organizzata e responsabilità universale, la Arendt aveva anticipato l'essenza del concetto. Ma questo era stato associato a un sentimento istintivo e pessimistico, la "vergogna di essere uomini", e alla critica conseguente dell'idea di umanità:

…l'idea di umanità, una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica […] che gli uomini, in una forma o nell'altra, devono assumere la responsabilità di tutti i crimini commessi dagli uomini e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte le altre. La vergogna di essere un essere umano è l'espressione puramente individuale e pre-politica di questa visione. In termini politici, l'idea di umanità, che non esclude nessuno e che non attribuisce ad uno solo tutta la colpa, è la sola garanzia che le "razze superiori" di ogni tempo possono non sentirsi obbligate a seguire la "legge naturale" del diritto del più forte e a sterminare "le razze inferiori che non sono degne di sopravvivere"; cosicché, alla fine di un'"età imperialistica", potremmo ritrovarci in una fase in cui i nazisti potrebbero apparire come i rozzi precursori dei metodi politici futuri.

A distanza di anni, il motivo della "vergogna di essere un uomo" verrà ripreso e sviluppato da Primo Levi in I sommersi e i salvati. Per lo scrittore ebreo italiano, scampato ai campi di sterminio e autore di Se questo è un uomo, esso torna a essere drammaticamente connesso con la radicalità del male, con la sua riproducibilità e inspiegabilità di fondo, contro cui si scontra l'insufficienza della memoria e perfino della testimonianza storica. Il dovere della sottrazione all'oblìo si accompagna così a quello di un'assunzione generalizzata di responsabilità, teorizzato dalla Arendt. Commentando proprio Levi, è un altro filosofo contemporaneo, Gilles Deleuze in Controllo e divenire, a incaricarsi di chiarire entrambi i concetti alla luce dell'attualità politica:

Ciò non vuol dire che siamo tutti responsabili del nazismo, come si vorrebbe farci credere, ma che ne siamo stati insudiciati: perfino i sopravvissuti dei campi hanno dovuto accettare compromessi, se non altro per ragioni di sopravvivenza. Vergogna che ci siano stati uomini diventati poi nazisti, vergogna per non aver saputo né potuto impedirlo, vergogna di aver accettato compromessi: Primo Levi chiama tutto questo la "zona grigia". E questa vergogna di essere uomini la proviamo in circostanze semplicemente ridicole: dinanzi a una volgarità di pensiero troppo grande, dinanzi a una trasmissione di varietà, dinanzi al discorso di un ministro, dinanzi alle chiacchiere di "ciarlatani". E' una delle motivazioni più potenti della filosofia, ciò che ne fa immancabilmente una filosofia politica.

In Che cos'è la filosofia?, Deleuze si sofferma a lungo sulla distanza che ormai ci separa dai greci, o dall'immagine che ce ne siamo fatti. La frattura consiste soprattutto in questo: che al sentimento di meraviglia il quale animò la loro speculazione ne è subentrato uno latente di vergogna; che alla possibilità dialettica di contendere in una società di amici-rivali è succeduto un clima di diffidenza intellettuale, la quale è anche peggio del puro disincanto. Non resta che cercare di convertire tale vergogna e diffidenza in capacità riflessiva di "resistenza al presente", confidando che "di per sé" essa generi una progettualità futura. La forzosa rinuncia a ogni utopico entusiasmo, a favore del ripiegamento su un esercizio radicale della critica, è ben riflesso nel passo seguente:

…la vergogna d'essere uomo non la proviamo soltanto nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi, ma anche in condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla volgarità dell'esistenza che pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di esistenza e di pensiero-per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle opinioni della nostra epoca. L'ignominia delle possibilità di vita che ci sono offerte appare dall'interno. Noi non ci sentiamo al di fuori della nostra epoca, al contrario non cessiamo di scendere con essa a compromessi vergognosi. Questo sentimento di vergogna è uno dei temi più potenti della filosofia. Noi non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime.

 

Interesse e disinteresse

Sommo bene e male radicale sono ovviamente concetti-limite. Su uno sfondo comune di incertezza e di apprensione per il futuro, più che motivato dalle vicende storiche a monte, le posizioni degli autori sopra citati tracciano un quadro abbastanza vario pur utilizzando gli stessi ingredienti. Esse oscillano dal meditato ottimismo a oltranza della Arendt alla coazione del male a ripetersi paventata da Levi, al pessimismo corrosivo ma carente di prospettive dell'ultimo Deleuze. Specie su un terreno del genere, la formazione e le esperienze personali hanno certo inciso sulle conclusioni. Queste risentono di fattori riflessivi tanto quanto di quelli emotivi, i quali rendono l'argomentazione tutt'altro che more geometrico dimostrabile, a dispetto del buon Spinoza.

Al molto che è stato scritto sul sommo bene, si può aggiungere un commento. Il termine "interesse", ricorrente nel gergo politico e giuridico, si presta a un'ambiguità di letture. Peggio, esso ha subito una corruzione del significato originario in base all'etimologia latina, quale ad esempio recepito nell'opera politica di Aurelio Agostino. Parlare di "interesse privato" è un po' un controsenso. In quanto "essere" che si realizzi "tra" più soggetti, un interesse è sempre comune. Non si dà interesse individuale, che non dipenda da una comunità di interessi.

Tuttavia, nel pensiero di Lévinas, il discorso è invertito. Un atteggiamento disinteressato verso gli altri è chiaramente tutt'altro, che disinteresse nei loro confronti. Preso ormai atto dell'accezione in uso dei termini in questione, il senso originale dell'"inter-esse" viene piuttosto a corrispondere all'esigenza attuale di un maggior "disinteresse" nei rapporti con gli altri, proprio in vista della sottrazione all'oblìo e di un estremo recupero di quell'interesse comune.

Se si tiene presente quanto tutto ciò rammenti l'"oblìo dell'Essere" inteso e frainteso dall'"imperdonabile" Martin Heidegger, ci si rende conto di come quello che appare un gioco di parole rientri nel tentativo di restituire -- inevitabilmente, tramite il linguaggio -- una dimensione e dignità esistenziale alla questione ontologica. Per una soggettività non assoggettata all'astrazione univoca dell'ente parmenideo, ma che ne rispecchi l'"eccentricità", il "dis-inter-esse" levinasiano è emancipazione dalla necessità dell'essere nella libertà dell'esistente. Va da sé che la soggettività "eccentrica" di Lévinas è il contrario di una egocentrica.

Un elemento consegunte, la rivalutazione del senso di responsabilità, accomuna il pensiero di Lévinas a quello della Arendt. Sia la "responsabilità per l'alterità dell'uomo" raccomandata dal primo, sia la necessità di una condivisione di responsabilità sostenuta dalla seconda, trovano una sintesi nell'opera Il principio responsabilità di Hans Jonas. Qui si trova anche una messa a fuoco attualizzata del male radicale. Arriva un punto, in cui la contraddizione fra necessità dell'essere e libertà dell'esistenza degenera in antinomia, oltre cui si intravede una zona di non ritorno sui propri passi. Un bivio, in cui la distruttività umana è suscettibile di collassare in auto-distruzione. Allora più che mai, ogni atto contro l'altro lo è contro se stessi.

Per dirla con Heidegger, è questa l'essenza "che viene a giorno con estrema lentezza". Ma non è tanto quella dello strumento della tecnica, come il filosofo tedesco affermava nella conferenza del 1946 Perché i poeti?, quanto dell'uomo stesso. Di tale essenza fa parte l'antidoto, affinché si evitino le condizioni per un estremo "olocausto"? La tensione semantica venutasi a creare fra i termini "interesse" e "disinteresse" può guidarci verso una risposta plausibile. L'ambiguità di significati, cui quella tensione ha dato luogo, non pare del tutto casuale. Nella sua duplice accezione, l'"inter-esse" è l'essenza dell'uomo. Il ristabilimento di un equilibrio fra quei termini è una condizione preliminare, per il superamento del disagio.

Una corrente di pensiero quale la filosofia occidentale ha fatto dei rapporti fra soggetto e oggetto, o fra esistente ed ente, i suoi punti di forza. Essa deve pur accorgersi che la soggettività dell'esistenza è appesa a un filo, e che questo in ultima analisi è etico. Un disinteresse etico non è più concepibile, se non in quanto atteggiamento almeno tendenzialmente "disinteressato" nei rapporti umani. Il relativismo etico del sofista Callicle o l'apologia dell'"ingiustizia assoluta" di Trasimaco, personaggi rispettivamente del Gorgia e della Repubblica di Platone, sarebbero posizioni oggettivamente non più sostenibili.

Un particolare genere di disinteresse è quello per la politica. Inteso come diffidenza o disincanto, tale sentimento è stato ben rappresentato da Thomas Mann nel 1918 in Considerazioni di un impolitico. Lo scrittore decadente e conservatore, che ivi lamenta l'invadenza delle moderne ideologie nella sfera privata, tornerà sulle sue posizioni in maniera autocritica quando ormai il disimpegno degli intellettuali tedeschi aveva indirettamente inferto gravi danni alla storia europea. In Tra passato e futuro, è la Arendt a riformulare la questione in termini aperti, dopo le catastrofi del '900. La risposta è tuttavia implicita nell'espressione "considerazioni cosiddette politiche", premessa ai quesiti posti, là dove la concezione contemporanea della politica è chiamata in giudizio:

Lo spazio interiore dove cerca asilo l'"io" in fuga dal mondo non deve essere scambiato con il cuore o la mente, i quali entrambi esistono e operano solo nel rapporto con il mondo. […] Avendo visto la libertà scomparire allorché considerazioni cosiddette politiche hanno travolto tutto il resto, siamo propensi a credere che la libertà cominci dove finisce la politica. Non era forse giusta la massima liberale "quanto meno politica, tanto più libertà"? Non è vero che, quanto minore è lo spazio occupato dalla politica, tanto maggiore è lo spazio lasciato alla libertà? […] Non è vero (come noi tutti, in certo senso, crediamo) che la politica è compatibile con la libertà solo perché garantisce una eventuale libertà dalla politica, e solo nella misura in cui la garantisce?

Il paradosso proposto dalla Arendt non è un'esaltazione nostalgica del liberalismo ottocentesco, tanto meno un appello nichilistico alla "fine della politica". Al contrario, è un mettere in guardia da forzose assolutizzazioni della politica, che nascondano uno snaturamento della sua funzione e una negazione della propria essenza. La condanna di ogni illusoria e inerte fuga dalla politica, o di un ridimensionamento minimalista della stessa, è del resto trasparente in questa conclusione libertaria, di segno opposto rispetto al contenuto apparente della precedente citazione:

…i processi storici sono creati e interrotti di continuo dall'iniziativa dell'uomo, da quell'initium che l'uomo è in quanto agisce. Di conseguenza, non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può né prevedere né predire, esser pronti ad accogliere, aspettarsi, dei "miracoli" nel campo politico. E quanto più la bilancia pende verso la catastrofe, tanto più l'atto compiuto in libertà appare miracoloso; la salvezza, infatti, non è automatica: automatico è il processo che conduce alla catastrofe, e che deve quindi sembrare in ogni caso irresistibile.

 

Nostalgia ed esodo

"In un'ora né del giorno né della notte, studia la saggezza greca": interpretando questo enigma talmudico in senso possibilistico più che dissuasivo, Lévinas afferma che l'Europa è sia la Bibbia sia i Greci. Sulla nostalgia più o meno idealizzante della grecità, qui ci si è già dilungati. Il mito omerico e archetipico di Ulisse e delle Sirene ben rappresenta il non rifiuto della conoscenza. Anche quando questa sia fonte di pericoli, la ricerca e l'ascolto non vanno inibiti. Ne va della nostra comprensione e autonomia di scelta. Attraverso il canto rammemorante delle Sirene, Ulisse per antitesi "conosce se stesso". Egli prende atto delle proprie inclinazioni, di come la "nostalgia dell'Essere" sia nel suo caso rimpianto di esserci. La forma intenzionale in cui esso si manifesta non è l'illusione immortalante dell'epica, bensì quella vitale del ritorno agli affetti familiari.

Anche quando si presenti come rimpianto di una scelta non adottata fra quelle possibili, la nostalgia di esserci è uno dei moventi del nostro agire, nonché segnale dell'umana finitudine e stimolo a varcarne i limiti, quasi dantesche Colonne d'Ercole. Come vuole Lévinas in Quattro letture talmudiche, il "ritorno a casa" dell'Odissea non è forse paragonabile con l'incognita dell'Esodo verso la Terra Promessa. L'immortalità ventilata da Calipso non è quella della redenzione. Né l'isoletta di Itaca può competere con Gerusalemme. Ma il cammino è ugualmente disseminato di tentazioni e di insidie, che non si limitano alla seduzione ingannevole delle Sirene o alla distrazione idolatra dell'adorazione del vitello d'oro.

Almeno sotto l'aspetto utopico, ci sarebbe da chiedersi se l'Occidente nella sua storia abbia imparato più da Ulisse, o da Abramo e da Mosè. Ben prima di Nietzsche nella Genealogia della morale, il poeta tedesco Novalis nella prosa Die Christenheit oder Europa ebbe a rilevare che "la distrutta Gerusalemme si era vendicata: Roma stessa era diventata Gerusalemme, sacra sede in terra del regno divino". Dal canto suo, il metodico candore di Lévinas deriva dalla proiezione di un bene che si configuri Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, attraverso una verità che si postula quale rivelata. D'altronde, è pur vero che l'allegoria biblica della Genesi sulla presa di coscienza del bene e del male può essere tradotta in termini compatibili con tutte le convinzioni.

Ogni umana cognizione o concezione richiede un'assunzione di responsabilità, rispetto alla sua applicazione. E' da scongiurare che alcuna divisione o subordinazione di compiti possa fungere da pretesto o da copertura di ulteriori "banalità del male". Il margine di tollerabilità si è oggi talmente ridotto, che esse "di per sé" potrebbero risultare imperdonabili, venendo a mancare ogni terrena possibilità di ricorso in giudizio. Che si tratti di un Heichmann criminale contro l'umanità o di Heidegger semplicemente compromesso col nazismo, al limite ormai meno importa.

Col suo rifiuto per motivi morali di collaborare alla costruzione del primo ordigno nucleare offensivo, uno scienziato del '900 quale Lisa Meitner, appellata a torto o con malizia "madre dell'atomica", può essere ritenuto un esempio valido più di qualsiasi discorso moralistico. Per la sua rarità e per l'eccezionalità delle circostanze, in questo caso l'assunzione di responsabilità acquista il peso di un gesto dimostrativo, contro un male individuato quale attentato alle radici dell'essere. Pochi, come l'isolata ebrea viennese, potrebbero ambire al titolo di "custode dell'Essere". Anzi, dell'esserci: di un essere dell'uomo in mezzo alle cose e per i propri simili, là dove questo "per" denota una causalità e una finalità, che lo differenziano da ogni altro concepibile.

E' un essere così "progettato" a proiettarsi nella dinamica degli eventi, e a schiudersi tramite la riflessione alla consapevolezza di sé in rapporto al mondo, atto inscindibile dalla responsabilità etica. Si può obiettare che questa consapevolezza è relativa, e sovente sfalsata. Sebbene lo consideri un circolo vizioso da cui evadere piuttosto che una catena da spezzare, neppure una spiegazione psicoanalitica delle radici del male è però esaustiva o risolutiva. Valga in proposito il presago sarcasmo del finale del romanzo La coscienza di Zeno, di Italo Svevo. In questa parodia del famigerato slogan "guerra, igiene del mondo", la fantasia apocalittica e il delirio di onnipotenza descritti dall'autore scaturiscono dal senso di frustrazione del protagonista, di fronte alla crescita esponenziale e al dilagare della violenza durante la Prima Guerra Mondiale.

La rinuncia di Zeno alla cura intrapresa e la decisione di abbandonarsi alle proprie pulsioni modestamente auto-distruttive -- "altro che psico-analisi ci vorrebbe…" -- coincide con l'impressione che il problema sia assai più vasto e complesso di quello racchiuso nell'inconscio individuale, al punto che quest'ultimo ne è un pallido riflesso o una componente inessenziale:

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Fondamentalmente, il pessimismo di Svevo concordava con quello di Freud, quale espresso di lì a poco in Il disagio della civiltà. Come accade non di rado, la letteratura precede il pensiero critico. La tesi è abbastanza nota. Senza essere in grado di estirparla o di sublimarla in maniera adeguata, la civilizzazione ha inibito l'aggressività umana. Impedendole di sfogarsi in modo "naturale", ha permesso che essa si accumuli dando origine a esplosioni sempre più dirompenti e incontrollabili. Tanto più micidiali sono tali reazioni, quanto perfezionati sono i mezzi a disposizione e sostitutivi sono gli obiettivi da investire. Più o meno mascherata da razionalità e da necessità, la violenza cieca del nostro tempo si espande a spirale, fino a ricadere verso la base del vortice da cui si irradia, per esaurirvi il potenziale residuo di energia repressa e di furia distruttice.

In L'avvenire di una illusione, il tono si fa meno catastrofico e più conciliatorio. Una ragionevole chance è lasciata alla speranza. Più ancora che tra Eros e Thanatos, istinto di vita e pulsioni di morte, qui l'antitesi è fra Logos e Ananchê, razionalità e necessità. Ancora una volta compaiono termini greci e, riveduti e corretti, concetti a suo tempo impiegati rispettivamente da Eraclito e da Parmenide. L'autore si rivolge a un interlocutore immaginario, fautore della bontà dei principi religiosi tradizionali, senza puntualizzare se si tratti di quelli di Roma o di Gerusalemme:

Il primato dell'intelletto è senz'altro in un futuro molto, molto lontano, ma probabilmente non infinitamente lontano. E poiché esso presumibilmente si proporrà le stesse mete la cui attuazione lei si attende dal suo Dio (naturalmente entro i limiti umani, nella misura in cui la realtà esterna, l'Anankê, lo consentirà), l'amore tra gli uomini e la diminuzione della sofferenza, possiamo dire che il nostro antagonismo è solo temporaneo, non irriconciliabile. […] Il nostro dio Logos non è forse onnipotente, può adempiere solo una parte di ciò che i suoi predecessori hanno promesso. Se dovremo ammettere ciò, lo accetteremo con rassegnazione. Non perderemo l'interesse per il mondo e per la vita; abbiamo infatti in un punto un sostegno sicuro che a lei manca.

Un tale "sostegno sicuro" è la fiducia che la scienza saprà gradualmente liberare l'uomo dalle catene della necessità, e un giorno forse dai suoi stessi condizionamenti interiori. L'etica freudiana oscilla da un realismo pessimistico alla Hobbes a un razionalismo laico kantiano. In ciò Freud si mostra, o si sforza di mostrarsi, più ottimista di Svevo, sebbene in una prospettiva ipotetica e remota. Sarebbe comunque eccessivo inferire che l'"l'interesse per il mondo e per la vita" freudiano si riduca al mero spirito scientifico.

Questa forzatura fa semmai parte di un intento apologetico, quando le ambizioni scientifiche del metodo psicoanalitico erano aspramente contestate. Per altri motivi, esso era oggetto di rigetto in sede religiosa tradizionalista. Nella teoria psicoanalitica, influssi nicciani si mescolano a quelli del positivismo, senza trovare sempre una sintesi felice. Nonostante tutto, l'atteggiamento globale di Freud resta improntato alla positività dell'Eros, forza complementare del Logos.

In tal senso, da un'angolatura filosofica lo si può considerare lontano erede di Eraclito, più che di Parmenide, benché anche da quest'ultimo Eros in quanto figlio di Afrodite venisse preposto all'attrazione fra i sessi e alla riproduzione dell'esistenza. Nella concezione freudiana, giustizia o desiderio che ella ispiri, degli attributi della dea parmenidea è esplicitato quello della necessità. Temi o Afrodite o Ananche che fosse per Parmenide, per Freud ella si presenta solo come Ananchê.

Degli altri attributi, o essi sono slittati su Eros o la dea ne è stata espropriata a favore del "dio Logos". Questi sono allegorie maschili. Non del tutto a torto, un certo femminismo ha accusato Freud di logo-centrismo e di mentalità patriarcale. Per Freud come già per Spinoza, la femminilità riaffiora in forme simboliche, quali la "Rosa di Gerico" per il primo o la "rosa spinosa" per il secondo, con allusioni alla Sulamita del biblico Cantico dei Cantici o perfino al nome stesso di Spinoza. L'esodo da uno stato di necessità, di minorità o di soggezione, assume i connotati di fuga verso una polarità maschile, non senza lasciarsi dietro elementi rivelatori di una nostalgia della dimensione femminile. Il "canto delle Sirene" ha comunque sortito i suoi effetti. Esso rinvia a successivi appuntamenti e chiarimenti nella storia del pensiero.

A ogni modo, nel passo citato il medico e psicologo viennese centra il problema di una perdita di interesse per il mondo e per la vita. Il disinteresse per quest'intima connessione è sovente l'anticamera di irreparabili guasti. Trascinato dalla polemica, Freud incorre in una specie di lapsus. Egli tralascia di includervi quello svuotamento di essere dell'esistenza, che è il disinteresse per gli altri. Commentando La poesia di Hölderlin, Heidegger da parte sua così suppliva: "Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci". Possiamo ben sostituire la traduzione "colloquio" con "dialogo", nella sua accezione più estensiva e pregnante.

Fino a prova contraria, non sussistono né un Logos né un Essere, presi in sé e per sé. Essi appaiono carenti di quel "sostegno", che sia Freud sia Heidegger per vie diverse ricercavano. Esistono viceversa un dia-logos e un "inter-esse", i quali poggiano sul fondamento che questi sono sempre lì a portata di voce o di mano, pronti a ricostituire la coerenza di un soggetto sempre che lo si voglia. D'altro canto, la nostalgia di una soggettività perduta, e del contesto in cui essa si è sviluppata, concorre in positivo con l'esodo alla ricerca di una nuova soggettività, purché si sappia aggirare gli scogli o le trappole di una monologante retorica della soggettività. In buona parte, la filosofia del '900 è stata il frutto di un tale esodo, nonché la storia di un drammatico esilio.

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