IL SALE DELL’ANIMA, LO ZOLFO DELLO SPIRITO * (J.Hillman) -1 Parti 1 - 2 - 3

PICCHI E VALLI

 

Ho intitolato questo scritto Picchi e valli, e mi sono riproposto di tenere separate queste immagini per metterle in contrasto il più nettamente possibile. Rientra nel distinguere e nel tenere separato anche l’emozione dell’odio. Così io mi esprimerò con odio e con incalzante polemica, con eris, con polemos, che secondo Eraclito, l’antenato più antico della psicologia, è padre di tutte le cose.

Il significato attuale del termine «picco» fu elaborato da Abraham Maslow, che a sua volta riecheggiava un’immagine archetipica, perché i picchi sono stati sempre connessi con lo spirito fin dal Monte Sinai e dal Monte Olimpo, dal Monte Patmos e dal Monte degli Olivi, e dal Monte Moriah del primo patriarca Abramo. E si potrebbe facilmente enumerare ancora una dozzina di monti dello spirito. Non servono grandi spiegazioni per capire che l’esperienza del picco è un modo per descrivere l’esperienza pneumatica, e che lo scalare le vette significa essere in cerca dello spirito, oppure è la spinta dello spirito alla ricerca di se stesso. Il linguaggio che usa Maslow per indicare l’esperienza del picco – «auto-convalidante, auto-giustificante, che porta in sé il proprio intrinseco valore», la somiglianza con Dio, la vicinanza a Dio, l’assolutezza e l’intensità – è un modo tradizionale di descrivere le esperienze spirituali. Maslow merita la nostra gratitudine per aver reintrodotto pneumna nella psicologia, anche se questa sua operazione comporta la vecchia confusione tra pneuma e psiche. Ma che ne è della psyche della psicologia?

Un’esposizione più ampia richiedono, invece, le valli, proprio come tutto ciò che ha a che fare con l’anima ha bisogno di essere immaginato con la maggior accuratezza possibile. Il termine vale, «valle», ci viene dai romantici: Keats lo usa in una lettera, e io ho ripreso questo suo brano come motto psicologico:

«Chiamate, vi prego, il mondo "la valle del fare anima". Allora scoprirete a che serve il mondo».

Nell’uso religioso corrente della nostra cultura, valle è un luogo emozionale depresso – la valle di lacrime; Gesù la percorse, questa valle solitaria, la valle dell’ombra della morte. L’Oxford English Dictionary alla voce «Valley» dà come prima definizione: «long depression or hollow»: lunga depressione o zona concava. Tra i significati di vale e valley sono comprese intere sottocategorie che si riferiscono a tutte quelle cose tristi, come il passare degli anni e la vecchiaia, il mondo visto come luogo di preoccupazioni, di dolore, di pianto, oppure come scena di ciò che è mortale, terreno, umile, basso.

Esiste anche un’associazione delle valli con il femminile (mentre non c’è per i picchi) e la troviamo nel Tao tê ching,VI; nelle metafore morfologiche freudiane, dove la valle boscosa percorsa da un fiume e popolata di vita animale è un equivalente della vagina; e anche nella mitologia, che ci presenta le valli come i luoghi delle ninfe. Una delle spiegazioni etimologiche della parola «ninfa» considera queste figure come la personizzazione di quelle velature, di quelle nuvole di foschia che quasi si aggrappano alle valli, ai fianchi delle montagne e alle sorgenti. Le ninfe velano la nostra visione, ci impediscono di guardare lontano, ci rendono miopi, ci trattengono – niente visioni che spaziano lontano, niente proiezioni o profezie, come dai picchi.

Anche il quattordicesimo Dalai Lama del Tibet usa la coppia picco/valle. In una lettera (a Peter Goullart) scrive: «Il rapporto che lega l’altezza alla spiritualità non è puramente metaforico. È una realtà fisica. Su questo pianeta la gente più spirituale vive nei luoghi più alti. E così anche i fiori più spirituali... Gli aspetti più alti e lievi del mio essere io li chiamo spirito, mentre quelli oscuri e pesanti li chiamo anima.

«L’anima si trova a suo agio nelle profonde valli ombrose. Là crescono torbidi e pesanti fiori impregnati di nero. Scorrono come tiepido sciroppo i fiumi, e si riversano in immensi oceani di anima.

«Lo spirito è una terra di picchi alti, bianchi, e di laghi e fiori scintillanti come gioielli. La vita è rarefatta e il suono percorre grandi distanze.

« Esiste una musica d’anima, un cibo d’anima, una danza d’anima e un amore d’anima...

«Quando l’anima trionfò, i pastori vennero alle lamasserie, perché l’anima è comunitaria e ama l’unisono, il brusio. Ma l’anima creativa anela allo spirito, e viene il giorno in cui dai labirinti delle lamasserie, i più belli fra i monaci dicono addio ai compagni, e intraprendono il viaggio solitario verso i picchi, per congiungersi là con il cosmo...

Nessuno spirito rimugina sull’elevata desolazione; la desolazione è infatti delle profondità. così come il rimuginare. A queste altezze lo spirito lascia l’anima molto indietro...

«La gente deve scalare la montagna non semplicemente perché essa è lì, ma perché la divinità piena di anima deve essere congiunta allo spirito».

Vorrei far notare una o due piccole curiosità contenute in questa lettera, che possono aiutarci a penetrare meglio nel contrasto fra anima e spirito. In primo luogo, avete notato quanto sia importante essere letterali e non «puramente metaforici», quando si assume il punto di vista spirituale? E questo punto di vista, inoltre, richiede la sensazione fisica dell’altezza, l’« es-altazione ». Avete notato poi che sono i più belli dei monaci a lasciare i confratelli, e che la loro unione è con il cosmo, un’unione che è paragonata alla neve? (Un tempo, nella nostra tradizione occidentale della caccia alle streghe, in un periodo ossessivamente preoccupato di proteggere l’anima dagli spiriti malvagi – e viceversa –, il diavolo veniva riconosciuto per il pene gelato e per lo sperma freddo). Avete notato, infine, i due tipi di simbolismo dell’Anima: i fiori oscuri, grevi, torbidi presso i fiumi di tiepido sciroppo, e i fiori dai petali verginali dei ghiacciai?

Sto cercando di far in modo che siano le immagini del linguaggio a delineare la nostra distinzione. È questo il modo di procedere dell’anima, la via dei sogni, delle riflessioni, delle fantasie, delle rêverie, dei dipinti. Possiamo riconoscere ciò che è spirituale dallo stile delle immagini e del linguaggio; e la stessa cosa vale per l’anima. Dare delle definizioni di spirito e di anima – l’uno astratto, unificato, concentrato; l’altra concreta, molteplice, immanente – pone la distinzione e il problema nel linguaggio dello spirito. E come se avessimo già lasciato la valle; stiamo facendo delle distinzioni come un perito agrimensore che rileva che cosa appartiene a chi, secondo logica e legge e non secondo immaginazione.

 

Dal punto di vista dell’anima e della vita nella valle, salire sulla montagna è sentito come una diserzione. I Lama e i santi «dicono addio ai loro compagni». Dal momento che io sono qui come avvocato difensore dell’anima, ho il compito di presentare il suo punto di vista, che si manifesta nella lunga, concava depressione che è la valle, quel chiuso abbattimento interiore che accompagna l’esaltazione dell’ascensione. L’anima si sente lasciata indietro e la vediamo reagire con i risentimenti di Anima. Gli insegnamenti spirituali mettono spesso in guardia l’iniziato contro i rimuginamenti introspettivi, la gelosia, il rancore e la meschinità, contro l’attaccamento a sensazioni e ricordi. Questi ammonimenti presentano un’accurata fenomenologia di come si sente l’anima quando lo spirito le dice addio.

Se una persona è in terapia e contemporaneamente segue una disciplina spirituale – Vedanta, esercizi di respirazione, meditazione trascendentale, ecc. – può accadere che il maestro spirituale consideri l’analisi come un perder tempo in sciocchezze e illusioni. L’analista invece può considerare gli esercizi spirituali come una falla nel vaso psichico, oppure una fuga nella fisicità (una somatizzazione, una sorta di sofisticata conversione isterica) o nella metafisica. Ma entrambe le condizioni crescono nella stessa siepe, perché entrambe fisicalizzano, sostanzializzano, ipostatizzano, considerano i loro concetti come cose. Entrambe perdono il «come se», l’approccio metaforico mercuriale, dimenticando che anche la metafisica è un sistema della fantasia, sebbene debba per sfortuna considerare se stessa letteralmente reale.

Oltre a queste reciproche accuse di futilità, c’è un’altra questione essenziale che, nelle nostre poltrone psicoanalitiche, ci poniamo: chi sta facendo il viaggio? Non si tratta qui di una discussione sul valore relativo di dottrine o mete, né di un’analisi delle visioni viste e delle esperienze vissute. Il punto essenziale non è l’analisi del contenuto delle esperienze spirituali, perché esperienze simili le abbiamo viste nell’ospedale provinciale, nei sogni, nei viaggi della droga. Avere visioni è facile. La mente non cessa mai di stillare e far sgorgare all’esterno la linfa e il succo della fantasia, e di congelare poi questo gioco in paranoidi monumenti di verità eterna. E allora quegli eventi di luce, di sincronicità, di visione spirituale, apparentemente sconvolgenti, che si hanno durante un viaggio con l’LSD non sono forse banali – vedere l’universo rivelato nella cucitura di un’asola o nel disegno del linoleum – banali almeno quanto ciò che succede durante una normale seduta terapeutica, in cui si cerca di districare i grovigli della scena domestica quotidiana?

La questione di cosa sia banale e cosa significativo dipende dall’archetipo che dà significato, e questo, dice Jung, è il Sé. Una volta costellato il Sé, il significato ne consegue. Ma come per ogni evento archetipico, anch’esso ha il suo lato sciocco e indifferenziato. Si può essere sopraffatti da una pienezza di significato mal riposta, inferiore, paranoide, così come si può essere sopraffatti dall’eros, e la nostra anima (Anima) essere sottoposta agli spasimi di un amore disperato, ridicolo. La sproporzione tra il contenuto banale di un evento sincronistico da una parte, e dall’altra l’enorme sensazione di significato che ad esso si accompagna, dimostra ciò che intendo dire. Come una persona che è sprofondata in un innamoramento, così la persona che è sprofondata nel significato inizia quel processo di autovalidazione e di autogiustificazione di quelle banalità che appartengono all’esperienza dell’archetipo presente in ogni complesso e che formano parte della sua difesa. Non fa molta differenza, quindi, dal punto di vista psicodinamico, che si sprofondi nell’Ombra e si giustifichino i nostri disordini della moralità, oppure nell’Anima e si giustifichino i nostri disordini della bellezza, o nel Sé e si giustifichino i nostri disordini del significato. La paranoia è stata definita un disordine del significato: può essere riferita, cioè, all’influenza di un archetipo indifferenziato del Sé. Fa parte di questo disordine proprio la sistematizzazione, che vorrebbe, attraverso lo strumento difensivo della dottrina della sincronicità, dare un profondo ordine significativo a una banale coincidenza...

Il rapporto tra l’analista dell’anima e l’evento spirituale non riguarda dottrine e contenuti. Il nostro interesse è per la persona, per chi sta salendo la montagna. Ci domandiamo anche: chi è già lassù e chiama?

Questa domanda non è poi così diversa da quella insita nelle discipline spirituali, ed è cruciale. Non è infatti il viaggio con le sue stazioni e i suoi percorsi, non il grado dell’ascensione, né i gradini della scala, e nemmeno il picco e l’esperienza del picco, né il ritorno – è la persona dentro la persona che ci spinge a compiere l’impresa. Ed ecco che ricadiamo nella storia, l’Io storico, la nostra forza di volontà nord-occidentale, proprio quella forza di volontà che portò verso la California, tanto per cominciare, missionari e cacciatori, bovari, allevatori di bestiame, piantatori, gente dell’Oklahoma e dell’Arkansas, coltivatori di aranceti e di vigne, seguaci di qualche setta, cercatori d’oro, lavoratori delle compagnie ferroviarie. Tutto questo può essere lasciato sulla porta, come si fa con un paio di scarpe vecchie e polverose al momento di entrare in una stanza di meditazione profumata e ovattata? Si può chiudere la porta in faccia a chi in primo luogo ti ha condotto fino alla soglia?

Il movimento da un settore all’altro del cervello, dalla tediosa vita quotidiana del supermercato alla supercoscienza, dalle cose insulse, trascurabili, alla trascendenza, in due parole, l’approccio della «modificazione dello stato di coscienza», nega questo Io storico. È un approccio che risale a Saulo che divenne Paolo, la conversione nell’opposto, disarcionato in un lampo.

Il compromesso tra lo spirito che si spinge verso l’alto da una parte e la ninfa, la valle, o l’anima dall’altra, lo potremmo immaginare come il matrimonio Puer-Psiche. Di esso si è parlato in molti modi – per esempio, nel Mysterium coniunctionis di Jung come di una congiunzione alchemica di sostanze personizzate, oppure nella favola di Eros e Psiche di Apuleio. Immaginiamo anche noi, secondo questi esempi, in uno stile personizzato. Potremo allora sentire i diversi bisogni presenti in noi come la volontà di persone distinte, dove Puer è il Chi nel volo del nostro spirito, e Anima (o psiche) è il Chi nella nostra anima.

Ora, il punto essenziale di Anima è proprio quello che si è sempre detto a proposito della psiche, cioè che è insondabile, inafferrabile. Perché l’Anima, «l’archetipo della vita», come l’ha chiamata Jung, è quella funzione della psiche che è la sua vita effettiva, la confusione in cui essa si trova attualmente, la sua scontentezza, le sue disonestà e le sue elettrizzanti illusioni, insieme alle speranze di un esito migliore come se il passato non esistesse. Le questioni che essa presenta sono infinite, come profonda è l’anima, e forse proprio questi «problemi» labirintici infiniti sono la sua profondità. L’Anima c’ingarbuglia, ci distorce, ci contorce fino al punto di rottura, realizzando la «funzione di relazione», un’altra definizione di Jung, che diventa convincente soltanto quando ci rendiamo conto che relazione significa perplessità.

Questa confusione della psiche è ciò che la coscienza puer ha bisogno di sposare per poter intraprendere la «guerra dei sessi». Gli avversari dello spirito sono in primo luogo i contrasti sotto la sua pelle: gli umori del risveglio, i sintomi, le prevaricazioni in cui resta impigliato e la vanità. Il Puer ha bisogno di combattere l’irritabilità di questa «donna» interiore, la sua passiva pigrizia, la sua predilezione per piaceri e lusinghe – tutto ciò che l’analisi definisce «autoerotismo». Questo combattere è un combattere con, più che un combattere contro Anima per vincerla o allontanarla; è un abbracciarsi stretto, teso, devoto in molte posizioni di rapporto, dove la follia del Puer si scontra con la confusione e la deviazione psichica e dove questa follia è riflessa in quello specchio distorto. Non si tratta di un combattere chiaro e lineare. Non si sa nemmeno quali armi usare, né dove sia il nemico, perché il nemico sembra essere la mia stessa anima, il mio cuore e le passioni alle quali sono più affezionato. Al Puer non rimane altro che la sua follia, alla quale, attraverso la lotta, è ricorso tanto spesso che impara a prendersene cura come di qualcosa di prezioso, come l’unica cosa che esso e veramente, la sua unicità e il suo limite. Il riflesso nello specchio dell’anima ci consente di vedere la follia dei nostri slanci spirituali, e l’importanza di questa follia.

Ecco in che cosa consistono esattamente la lotta con l’anima e la psicoterapia come luogo di questa lotta: scoprire la propria follia, il proprio spirito con la sua unicità; e vedere la relazione tra il proprio spirito e la propria follia; che c’è follia nel proprio spirito e spirito nella propria follia.

Lo spirito ha bisogno di un testimone di questa follia. O, in altre parole, il Puer prende alla lettera i suoi impulsi e la sua meta, se non c’è la riflessione che rende possibile una comprensione metaforica dei suoi impulsi e della sua meta. Essendo testimone, in quanto recettiva sperimentatrice e immaginatrice, delle azioni dello spirito, l’anima può contenere, nutrire ed elaborare nella fantasia l’impulso del Puer, conferirgli sensuosità e profondità, coinvolgerlo nelle illusioni della vita, prendersene cura nel bene e nel male. Allora l’individuo in cui queste due componenti si stanno sposando comincia a portare con sé il proprio specchio riflettente e la propria eco. Diventa consapevole di cosa significhino in termini di psiche le proprie azioni spirituali. Lo spirito rivolto verso la psiche, anziché abbandonarla in favore dei luoghi alti e dell’amore cosmico, trova sempre maggiori possibilità di vedere in trasparenza le opacità e gli offuscamenti della valle. La luce del sole penetra nella valle. La Parola prende parte al pettegolezzo e al chiacchiericcio.

Lo spirito chiede alla psiche di aiutarlo e non di distruggerlo, di soggiogarlo o di accantonarlo come stranezza o follia. E all’analista che agisce in nome della psiche non chiede di mettere l’anima contro l’avventura del Puer ma di preparare il desiderio che ciascuno ha dell’altro...

Una volta che lo spirito si sia rivolto verso l’anima, questa può considerare in modo nuovo le proprie necessità: non più dei tentativi di adattarsi alle esigenze di civilizzazione di Era, o all’insistenza di Venere che l’amore è il solo Dio, o alle cure mediche di Apollo, o persino al fare anima di Psiche. La psiche non presenta i suoi sintomi e le sue richieste nevrotiche perché s’impari soltanto l’amore, o in funzione della comunità, o di matrimoni e famiglie migliori, o dell’indipendenza. Tali richieste cercano anche ispirazione, ampi orizzonti, eros ascendente, vivificazione e intensificazione (non rilassamento), radicalità, trascendenza e significato – in breve la psiche ha bisogni spirituali, che la nostra parte puer può soddisfare. L’anima chiede che le sue preoccupazioni non siano liquidate come cose banali, ma vengano viste in trasparenza alla luce di prospettive più elevate e più profonde, le verticalità dello spirito. Quando ci rendiamo conto che i nostri malesseri psichici indicano una fame spirituale che va oltre ciò che offre la psicologia, e che la nostra aridità spirituale segnala un bisogno di acque psichiche oltre a ciò che offre la disciplina spirituale, allora cominciamo a mettere in moto sia la terapia sia la disciplina spirituale.

Il matrimonio Puer-Psiche porta, innanzitutto, a un aumento di interiorità. Costruisce uno spazio circondato da pareti, il talamo o camera nuziale, che non è né picco né valle, bensì un luogo dove entrambi possono essere guardati attraverso le finestre, o tenuti fuori chiudendo la porta. Questa accresciuta interiorità comporta che ogni nuova ispirazione del Puer, ogni idea fervida, in qualsiasi momento della vita di chiunque, venga resa psichica. Sarà all’inizio trascinata per le vie labirintiche dell’anima, che la lascia senza fiato e la fa rallentare e la nutre da molti lati (le «molte» nutrici e le «molte» menadi), facendo evolvere lo spirito da una mania a senso unico per i movimenti ascensionali al polytropos, la multi-lateralità del vecchio eroe mercuriale Ulisse. L’anima adempie il servizio di dare obliquità alla freccia puer, portando alle coazioni sulfuree dello spirito il sale durevole dell’anima.

(Saggi sul Puer, pp. 88-91, 96-99, 101-105) Vedi seconda parte

 

*L’articolo è tratto dal testo “Fuochi blu” di J. Hillman. Si rimandano i lettori all’opera completa, pubblicata dalla Casa Editrice Adelphi Edizioni – via S. Giovanni sul Muro, 14 – 20121 Milano – Tel. 02 72 00 09 75 – Fax 02 890 10 337 – info@adelphi.it