Prima Pagina Servizi di Ergopolis Strumenti per la Cittadinanza Pagine & Siti
Associazione Centro ELIS , Roma, 20 marzo 2000 /
Il senso del lavoro fra crisi occupazionale e nuove professionalità (estratto) Pierpaolo Donati , Univ.di Bologna

Nelle economie di mercato, la disoccupazione è stata per decenni tenuta sotto controllo mediante sistemi di sicurezza sociale che ne hanno temperato gli effetti negativi, vuoi mediante compensazioni di reddito (assegni e altri benefici) ai lavoratori, vuoi mediante incentivi alla ri- occupazione (aggiornamento professionale, sgravi fiscali alle imprese, ecc.). Il fatto è che, oggigiorno, queste regolazioni di welfare state diventano sempre più costose e problematiche. Diminuisce la loro utilità marginale. L'esperienza degli Stati a regime neo- corporativo di welfare mostrano che, nonostante tutti gli sforzi di sostegno pubblico all'occupazione, le speranze di entrare o ri-entrare nel mercato 'centrale' del lavoro si affievoliscono di giorno in giorno. Diventando un fenomeno strutturale, la disoccupazione rivela dei paradossi sociali (Accornero, Carmignani 1986), che possono essere sintetizzati così: si può avere sviluppo economico anche senza maggiore occupazione; anzi, nelle economie avanzate, diventa normale il fatto che la crescita economica si accompagni ad un aumento di disoccupazione; - a misura che il lavoro diventa meno centrale nel sistema delle ricompense sociali, si ha il paradosso di una crescente femminilizzazione del lavoro; ovviamente, l'ingresso della donna nel mondo del lavoro è stato un fatto largamente positivo e utile alla sua emancipazione, ma bisogna interrogarsi sul perché (e con quali conseguenze) la donna subentri in massa ai lavori che vengono abbandonati dagli uomini (sovente quelli meno remunerati e meno protetti); - l'equazione "disoccupato = povero" non è più vera; essere disoccupato non connota più necessariamente uno stato di povertà materiale; per contro cresce la categoria degli occupati poveri; ciò mette in luce, contro le rappresentazioni culturali dominanti, che il lavoro non ha primariamente una valenza strumentale; - l'interazione fra domanda e offerta di lavoro mostra trappole e contraddizioni, spesso dovute alla rigidità con cui è perseguita entro il modello industriale; si apre allora una nuova job competition che richiede maggiori gradi di libertà e una configurazione contrattuale molto più elastica di un tempo, in cui la condizione lavorativa non è più segnata dall'avere/non-avere un posto di lavoro, ma dall'esigenza di fasi di vita diversificate, alterne, fatte di numerose transizioni fra formazione-lavoro-altre attività; ciò non fa che aumentare il senso di disagio, l'ansia, l'incertezza, la paura della disoccupazone. 4 Benché il termine unemployment compaia anche in precedenza (Oxford English Dictionary del 1882), esso è definito in senso moderno da John Hobson (1896), seguito da W.H. Beveridge (1909). Dicoccupato indica non più - come in precedenza - colui che semplicemente è "non occupato", inattivo o inoperoso (come ancora lo definisce Marx utilizzando il vocabolo Unbeschäftige), ma chi ha perduto involontariamente un lavoro (Arbeitslosigkeit) ed è distinto dal povero (il disoccupato non è necessariamente indigente, o, se lo è, non deve la sua indigenza alla oziosità). E' chiaro che è il concetto stesso di disoccupazione che chiede di essere ridefinito e ri-regolato. La disoccupazione è un deficit o una patologia del sistema relazionale in cui il cosiddetto "disoccupato" è inserito. E la carenza o patologia va affrontata attraverso le modificazioni del tessuto relazionale in cui il lavoro viene bloccato, distorto o addirittura annullato. Questi blocchi, distorsioni e negazioni sono paradossi, per il semplice fatto che che viene bloccato, distorto o negato ciò che è intrinseco al carattere umano delle persone, della loro vita e delle loro relazioni. Da questi paradossi si può uscire solo modificando i concetti di sviluppo sociale, di relazioni fra mercato del lavoro e altre sfere di vita, di razionalità sociale, in breve i sistemi di scambio su cui è organizzato il lavoro in senso lato. Si manifesta soprattutto l'esigenza di costruire reti di produzione-distribuzione-consumo in cui ciascuno possa essere più soggetto, sia come produttore, sia come consumatore, sia ancora come l'uno e l'altro insieme (pro-sumer)

c) Emerge il cleavage fra culture secolarizzate e umanistiche del lavoro. La modernità ci lascia in eredità un conflitto di fondo nel senso e nel vissuto del lavoro: quello fra processi di secolarizzazione e processi di umanizzazione. Chiariamo i termini del discorso e il significato di questo confronto. In linea generale, una cultura è secolarizzata se e nella misura in cui si oppone ad una cultura religiosamente ispirata. Nel gergo internazionale, secolarizzato significa che is not concerned with spiritual or religious affairs (cioè puramente terreno, wordly), e dunque che vede il lavoro come attività che non ha valenze o fondamenti religiosi. Una cultura secolarizzata è portata ad assoggettare il lavoro al mercato o allo Stato in contrasto con gli orientamenti della religione. Non c'è dubbio che la cultura moderna del lavoro abbia seguito fondamentalmente questo indirizzo. Non sembra però che, per quanti siano stati i frutti positivi, l'esito finale sia soddisfacente. Se si priva il lavoro di significati trascendenti (religiosi), esso perde qualcosa che gli è essenziale per produrre a sua volta senso, per farsi agire sensato, e rigenerare le sue stesse motivazioni e capacità progettuali. Indubbiamente, le concezioni secolarizzate del lavoro hanno avuto la meglio sulle altre culture del lavoro. Ma, oggi, il processo di secolarizzazione del lavoro mostra profondi segni di crisi, soprattutto perché vengono meno le basi motivazionali e simboliche che lo hanno favorito. Le culture secolarizzate si vengono a trovare di fronte a un bivio: possono prendere la strada di un'ulteriore secolarizzazione oppure de-secolarizzarsi. Entrambe queste vie sono all'opera. La prima segue la direzione di una "secolarizzazione della secolarizzazione", che porta il lavoro ad essere ulteriormente deprezzato come luogo di umanizzazione. La seconda via è quella di un re-incantamento del mondo, e con esso del lavoro, che porta ad una nuova attenzione per le culture "altre" del lavoro, quelle che lo intendono come attività naturaliter umana, attribuendogli dei significati intrinsecamente positivi, non primariamente strumentali, ma espressivi di bisogni primari dell'essere umano e della società. Sono queste le concezioni umanistiche del lavoro, che lo considerano come una condizione non "superabile" per l'essere umano, per quanto storicamente modificabile, e come tale essenziale - in ogni luogo e tempo - per lo sviluppo della persona e come titolo di appartenenza ad una società (nelle concrete formazioni sociali in cui questa si realizza). La distinzione-guida delle concezioni umanistiche sta nella visione del lavoro come relazione sociale in senso pieno e non solamente nella sua valenza economica (come accade nella concezione secolarizzata). Una cultura è umanistica se e nella misura in cui valorizza gli elementi propriamente umani (soggettivi e intenzionali) di contro a quelle caratteristiche che non sono distintive della specie umana, ma possono essere anche di altri esseri viventi o delle macchine (come la forza fisica). L'Occidente ha letto e costruito la distinzione umanistico/non-umanistico secondo una chiave interpretativa specifica: quella della distinzione fra orientamento al valore e orientamento strumentale. Così, diciamo che una cultura del lavoro è strumentale (orientata alla razionalità strumentale) allorché vede nel lavoro essenzialmente un mezzo finalizzato a scopi strumentali e consumatori, come sono quelli del reddito (potere economico) e del prestigio sociale (come status symbol), con annessi fringe benefits, consumi e tempo libero. Mentre diciamo che una cultura è orientata al valore (alla razionalità sostanziale) allorché vede nel lavoro dei fini ultimi (valori in sé) che esprimono e realizzano l'umanità della persona e il bene comune. Il lavoro è un fine buono in sé (attività creativa), per il soggetto che la compie e per l'Altro da sé (è un fine che serve altre persone e altri fini ultimi - non meri scopi situazionali -, non puramente astratti e strumentali, ma beni di razionalità sostanziale). L'epoca moderna ha valorizzato solo teoricamente l'umanizzazione del lavoro, mentre in pratica l'ha negata. Il conflitto fra lavoro umanizzato e non- umanizzato viene oggi all'emergenza, sotto forma della morte del sogno (soprattutto marxiano, ma anche positivistico) di una sintesi nel cosiddetto "umanesimo tecnologico".
2.3. Ai fini delle argomentazioni qui presentate, può essere utile tentare una classificazione concettuale. Una cultura secolarizzata può orientarsi sia in senso strumentale che sostanziale, e lo stesso è vero per una cultura religiosa. Se incrociamo queste due distinzioni (secolarizzato/religioso, strumentale/umanistico), abbiamo uno spazio di attributi con quattro celle: secolarizzato-strumentale, secolarizzato-umanistico, religioso-strumentale, religioso-umanistico. E' illuminante osservare come questa classificazione possa ordinare le culture del lavoro storicamente esistite, allorché le collochiamo nello spazio di attributi appena delineato. In particolare possiamo dire che:

1) nella casella secolarizzato-strumentale possiamo collocare quelle culture che vedono nel lavoro un puro fatto materiale di ricambio "biologico" con la natura sia per quanto riguarda la società nel suo complesso che il singolo lavoratore (si veda gran parte del pensiero positivista e marxista);

2) nella casella religioso-strumentale possiamo collocare quelle culture del lavoro che lo considerano come un dovere religioso, e tuttavia non espressivo di un processo di umanizzazione (si veda l'etica protestante secondo l'interpretazione weberiana);

3) nella casella secolarizzato-umanistico possiamo collocare quelle culture che vedono nel lavoro dei valori essenziali e positivi per l'umanità, senza alcuna trascendenza (si collocano qui molte interpretazioni del pensiero liberale e socialista del secolo XIX e certe versioni marxiste, non da ultimo anche quelle che combinano il marxismo con correnti umanistiche, per esempio cattolico-marxiste);

4) nella casella religioso-umanistico possiamo collocare quelle culture che considerano il lavoro come link fra umano e divino, come luogo e mezzo di umanizzazione che non si contrappone, ma invece conduce - attraverso le opere - a Dio; si colloca qui l'etica cattolica dopo il Concilio Vaticano II. Dal punto di vista empirico, osserviamo che le culture 2 e 3 mostrano una elevata instabilità: esse tendono a polarizzarsi verso le culture 1 e 4. Le culture religiose- strumentali (come l'etica protestante descritta da Weber) tendono verso il tipo secolarizzato-strumentale oppure, benché in parte minore, verso il tipo religioso- umanistico. Le culture secolarizzate-umanistiche tendono ad accentuare la loro secolarizzazione oppure, benché in parte minore, vanno verso una nuova religiosità. Ciò indica che le distinzioni più rilevanti passano attraverso la cultura 1 (che chiamerò semplicemente secolarizzata) e la cultura 4 (che chiamerò semplicemente umanistica). E' questa la distinzione che guida l'evoluzione moderna della cultura del lavoro, e che giunge sino a noi nella distinzione fra:

a) una cultura secolarizzata che intende il lavoro come un'attività meramente strumentale, volta a trarne le risorse per una vita decente o più che decente; del lavoro si può fare a meno se tali risorse possono essere ottenute per altra via (come il godimento di una rendita oppure poter disporre di benefici assistenziali);

b) una cultura umanistica che intende il lavoro come un'attività soggettiva finalizzata, dotata di un senso umano radicato nello spirito, e di cui la persona non può fare a meno, non solo e non tanto per un astratto obbligo sociale, quanto piuttosto perché la mancanza di lavoro diminuisce o conduce alla perdita della propria umanità; un tale orientamento, benché in astratto possa essere finalizzato a valori immanenti, implica una visione della persona umana come soggetto capace di trascendenza. Le mescolanze fra queste culture sono sempre possibili. Ma la distinzione che ho tracciato fra culture secolarizzate e umanistiche è essenziale per comprendere la fenomenologia e gli esiti differenti di due modi di vedere il lavoro, che si incarnano in sistemi empirici complessi (organizzazioni del lavoro) del tutto distinti. Li possiamo analizzare attraverso uno schema (fig. 1) che interpreta il lavoro come relazione sociale avente quattro dimensioni: le condizioni materiali (risorse e mezzi tecnici), gli scopi pratici (obiettivi situati), le normative contrattuali (regole di giustizia), il significato dell'attività riferito al valore "ultimo". 6 La Figura 1, come tutte le altre figure di questo contributo, è costruita sullo schema AGIL, che è stato originariamente formulato da T. Parsons, ed è stato recentemente ridefinito dal punto di vista della "sociologia relazionale" per essere utilizzato sia come quadro teorico concettuale sia come strumento di ricerca empirica. Dal punto di vista analitico, le quattro polarità A, G, I, L corrispondono rispettivamente ai mezzi, mete, norme e valori. Ma ciò che è più importante è il fatto che questo schema permette una visione profonda delle relazioni fra queste polarità e fra le relazioni esistenti fra tali relazioni.
Fig. 1- Il lavoro come relazione sociale (sistema relazionale complesso fra quattro dimensioni fondamentali).

La cultura secolarizzata e quella umanistica non si distinguono tanto per proporre diverse condizioni materiali e diversi scopi situati. Infatti, entrambe mirano a migliorare le condizioni materiali, come quelle fisiche (si vedano gli studi ergonomici e le preoccupazioni per un ambiente di lavoro salubre, ecc.), e i mezzi tecnici. Anche gli scopi situati dell'attività pratica (gli obiettivi concreti a breve-medio-lungo termine, i piani di lavoro, ecc.) sono largamente condivisi fra culture secolarizzate e umanistiche. Ciò che distingue nettamente fra loro la cultura secolarizzata e quella umanistica riguarda piuttosto:
(i) il soggetto del lavoro,
(ii) le caratteristiche dei rapporti di lavoro (in riferimento alla concezione della giustizia commutativa, distributiva, redistributiva, e quindi ai contratti), e
(iii) il significato del lavoro (in quanto legato ai valori ultimi della persona umana). Di fatto, la concezione secolarizzata vede il soggetto del lavoro nell'individuo come tale e/o nelle organizzazioni collettive, ha una concezione utilitaristica del rapporto di lavoro (e quindi della giustizia e dei contratti) e valorizza il lavoro in funzione dell'autorealizzazione dell'individuo come tale.
La concezione umanistica
, invece, vede il soggetto del lavoro nella persona come individuo-in-relazione con altri significativi, ha una concezione del rapporto di lavoro come "fatto sociale totale" (che implica una concezione sostantiva della giustizia e dei contratti finalizzata ai diritti-doveri umani) e valorizza il lavoro come bene comune. Perciò, mantiene l'importanza dei legami sociali primari e secondari, delle formazioni sociali - anche lavorative - intermedie, perché ritiene che, se la persona non viene integrata socialmente, a partire dall'impresa come organizzazione sociale, non vengono risolti i problemi di umanizzazione della persona, e quindi la finalità prima del lavoro è annullata o distorta.

2.4. Le diverse visioni della disoccupazione possono essere comprese alla luce di questo quadro. Nel caso delle visioni secolarizzate, la disoccupazione è il risultato di un gioco di utilità. Nel caso di una visione umanistica, la disoccupazione è il sintomo di una distorsione morale nella società. Per dirla con A. Margalit (1996), una società è decente se non umilia l'uomo che - nel suo lavoro - dipende da un altro uomo. In una società decente vi può anche essere sfruttamento del lavoratore (limitatamente alle condizioni materiali, agli scopi situati e alle condizioni contrattuali), ma non la sua umiliazione. Affinché non sia umiliato, occorre che il lavoratore sia riconosciuto nella sua dignità di persona. Nel mio approccio relazionale, ciò richiede che il lavoro sia riferito alla persona umana e quindi inteso come fatto non strumentale, ma avente un valore ultimo propriamente umano. Una società diventa eticamente civile nella misura in cui non solo non c'è umiliazione, ma tra chi dà e chi riceve lavoro c'è promozione reciproca. Il che significa che si devono configurare in modo giusto le condizioni contrattuali del lavoro e delle sue ricompense. Presa nel campo delle contraddizioni culturali e strutturali proprie della modernità, la disoccupazione è allo stesso tempo una manifestazione e una esigenza di superamento del conflitto fra visioni secolarizzate e umanistiche del lavoro. Lavorare è necessario ? Solo per il reddito o per l'autorealizzazione individuale ? Ma se lo scopo strumentale del reddito può essere ottenuto in altro modo, perché bisogna lavorare ? E se ci si può autorealizzare in altri modi, perché mai bisogna lavorare ? E' su questa frontiera che si svolge il dibattito odierno.

2.5. Vale la pena di ricordare il fatto che queste dilemmi attraversano dall'interno lo stesso mondo cristiano. Tra la metà dell'Ottocento e quella del Novecento, noi vediamo un profondo divario. Da un lato, l'etica protestante considera il lavoro come compito (Beruf, calling) imposto all'uomo in quanto servo di Dio, valuta l'uomo e il lavoro in base ai risultati, interpretati come segno esterno di salvezza o condanna, considera la disoccupazione (al pari della povertà) come un segno di incapacità personale (blaming the victim), e in questo modo dà un forte e concreto impulso alle attività cosiddette secolari. Dall'altro, l'etica cattolica considera il lavoro come compito (vocazione umana che ingloba quella professionale) chiesto all'uomo in quanto figlio di Dio, lo valuta per gli aspetti morali soggettivi (intenzionalità che prescinde dai risultati), dà una valutazione etica (non mercificante) del lavoro, considera la disoccupazione (al pari della povertà) come un fallimento etico di chi ha responsabilità nel creare e/o dare lavoro, e quindi chiede che i soggetti sociali si sforzino di dare un lavoro, benché non forzato e improduttivo, a chi non ce l'ha. Ha tuttavia il limite di proclamare una nozione a-storica di lavoro, e di considerarlo ancora - aristotelicamente - come attività "inferiore" a quella che viene svolta da chi ha fatto la scelta della vita religiosa. Gli sviluppi successivi, che si delineano a partire dagli anni '60 fino ad oggi, portano ad alcune divaricazioni e alcune convergenze. Le divaricazioni stanno nel fatto che, mentre nel mondo protestante la teologia e l'etica del lavoro si secolarizzano in maniera crescente (Seligman 1992), nel mondo cattolico fiorisce una nuova dottrina sociale che riconosce al lavoro un carattere essenzialmente positivo, tanto da connotarlo come con-creazione divina e via specifica di santificazione. Tale via è distinta per carisma da quella strettamente religiosa (concepita come distacco dal mondo, contemptus mundi), ma non più connotata come carente di impegno religioso, dato che il lavoro stesso ­ come attività laicale - è vocazione divina . Le convergenze si hanno nella comune valutazione del lavoro come strumento di progresso sociale e di pace (US Catholic Bishops 1986; Schasching 1998; Carlotti 1998). Ma non sempre, in queste convergenze, viene chiarito che la divisione secolarizzazione/umanizzazione non è esterna al mondo cristiano nel suo complesso, ma corre all'interno di ciascuna delle Chiese cristiane, nelle misura in cui esse accettano il compromesso fra liberalismo e socialismo (lib/lab) oppure invece elaborano delle alternative umanistiche. Sul piano pratico dell'agire economico, si nota che le diverse confessioni religiose continuano, comunque, a sostenere differenti etiche degli affari (Kennedy, Lawton 1998). Forse la soluzione alle contraddizioni interne alla cultura cristiana si comincia a intravvedere solo oggi, nel momento in cui occorre superare il dilemma fra l'ascesi religiosa tradizionale che cerca la salvezza "fuori del mondo" (propria del cristianesimo monacale) e l'ascesi intramondana che cerca la salvezza nella trasformazione del mondo (propria di certe correnti secolarizzate o utopiche). C'è un'altra via: la salvezza ricercata nella santificazione del lavoro come luogo e occasione di incontro con Dio, ma da figli e non già da servi. Questa via non coincide con una sorta di benedizione cristiana data al capitalismo. Essa non può limitarsi a mostrare la conciliabilità fra l'etica cattolica e lo spirito del capitalismo (Novak 1996), ma deve invece proporre una visione del lavoro profondamente differente da quella capitalistica. Si tratta di creare una cultura che, al contempo, sia religiosamente ispirata e abbia una visione secolare, ma non secolarizzata, del lavoro. La lingua inglese non conosce la distinzione fra secolarizzato e secolare che è stata invece elaborata nel mondo latino. Mentre nel linguaggio anglosassone secolare è l'opposto di religioso (il laico è assimilato al non credente), nella cultura latina il concetto di secolare non si oppone a religioso, ma indica la figura del cristiano laico che si santifica nel mondo attraverso il lavoro mediante un'ascetica ultramondana (Del Portillo 1969). Si tratta di un punto di enorme importanza, perché individua la distinzione-guida di un nuovo modo di vivere il lavoro che va oltre i dilemmi della modernità.